martedì 24 dicembre 2013

I nostri non auguri

di Alessandro Dal Lago

Fac­ciamo gli auguri di fine anno ai migranti che si sono cuciti la bocca a Ponte Gale­ria e a quelli che hanno ini­ziato lo scio­pero della fame. Fac­cia­moli a tutti gli stra­nieri che si pre­pa­rano a pas­sare le cosid­dette feste al chiuso dei Cie, nella soli­tu­dine, nello squal­lore, nell’incertezza sul pro­prio destino chissà fino a quando. E fac­cia­moli al depu­tato Kha­lid Chaouki il quale, chiu­den­dosi nel centro di acco­glienza di Lam­pe­dusa, terrà desta per un po’ l’attenzione dei media sulla ver­go­gna della deten­zione ammi­ni­stra­tiva dei migranti.

Ma non li fac­ciamo a tutti gli altri che col­la­bo­rano con il silen­zio, l’ipocrisia o l’indifferenza a man­te­nere quella ver­go­gna. Primo dell’elenco, il par­tito di Chaouki, il Pd, che quei cen­tri li ha inven­tati (con il nome di Cpt) gra­zie a Livia Turco e all’attuale pre­si­dente della Repub­blica, e non si è mai sognato di chiu­derli. E non par­liamo degli attuali com­pa­gni di strada del Pd, a comin­ciare da Alfano, il cui par­tito approvò la Bossi-Fini nel 2002 e quindi è in tutto e per tutto cor­re­spon­sa­bile delle norme più stu­pide e ves­sa­to­rie, come i 18 mesi di deten­zione nei Cie e il reato di immigrazione clandestina.
Non ci sen­tiamo di fare nes­sun augu­rio nem­meno al governo, il quale, dopo lo scan­dalo delle docce anti-scabbia e le pro­te­ste di Ponte Gale­ria, pensa di abbre­viare la deten­zione nei Cie, ma solo per ren­dere le espul­sioni più facili.
Non li fac­ciamo nem­meno a quei par­la­men­tari 5 stelle che hanno comin­ciato timi­da­mente a discutere dell’abolizione del reato di immi­gra­zione clan­de­stina, ma sono stati imme­dia­ta­mente zit­titi da Grillo e Casa­leg­gio, e hanno lasciato per­dere, dando una note­vole prova di coe­renza, corag­gio e indi­pen­denza. Per non par­lare del blog di Beppe Grillo, che ogni giorno stre­pita con­tro la casta e fa pub­bli­cità ad auto­mo­bili, assi­cu­ra­zioni e com­pra­ven­dite d’oro, ma sulla que­stione dei Cie tace rigo­ro­sa­mente, per non scon­ten­tare la parte for­ca­iola del pro­prio elettorato.
Non abbiamo nulla da augu­rare nem­meno alle coo­pe­ra­tive, magari ade­renti alla Lega­coop, che gesti­scono Cda e Cie, e si giu­sti­fi­cano con la scusa pue­rile che, se non lo fanno loro, lo farà qualcun altro. Che cosa non si fa per lucrare sui 50 euro gior­na­lieri che lo stato spende per ogni internato!
Meno che mai fac­ciamo gli auguri a Ceci­lia Malm­ström, com­mis­sa­rio Ue per la giu­sti­zia e gli affari interni, che oggi fa finta di indi­gnarsi per Lam­pe­dusa ma pochi giorni fa ha siglato un accordo con la Tur­chia sui migranti irre­go­lari che, in sostanza, pre­vede la libera cir­co­la­zione dei cit­ta­dini tur­chi nei paesi dell’Unione in cam­bio della dispo­ni­bi­lità di Ankara a ripren­dersi clan­de­stini e immi­grati. Insomma, i migranti come merce di scam­bio per il lento e fatale avvi­ci­na­mento della Tur­chia all’Europa.
La que­stione dei migranti, degli sbar­chi e dei cen­tri di inter­na­mento sparsi in tutta Europa e nei paesi satel­liti di Asia e Africa, è la prova della fal­sità con cui la Ue affronta, nel com­plesso e paese per paese, la povertà estrema che la lam­bi­sce. Esclu­si­va­mente inte­res­sata a difen­dere il suo precario benes­sere, debole con i forti (la grande finanza, gli Usa che la spiano come e quando vogliono), l’Unione è impla­ca­bile con i deboli, a cui elar­gi­sce solo deten­zioni e invi­si­bi­lità, naturalmente amman­tan­dole con il lin­guag­gio dei diritti e della giustizia.
E così, davanti a un’ingiustizia così abis­sale e rimossa da tutti, non augu­riamo nulla nem­meno a quel bel coa­cervo di egoi­smi nazio­nali e trans-nazionali che va sotto il nome di Europa.


lunedì 23 dicembre 2013

Perché bisogna difendere il Servizio pubblico

di Paolo Vineis

In questo periodo di crisi economica da più parti si specula sulla presunta “insostenibilità” del Servizio Sanitario Nazionale pubblico che rimane comunque al di sotto della spesa media dei paesi OCSE garantendo a tutti il diritto alla salute attraverso la fiscalità generale. L’articolo di Vineis, pubblicato sulla rivista Epidemiologia e Prevenzione,  giunge quanto mai opportuno nel giorno del  35° anniversario dell’ istituzione del Servizio Sanitario Nazionale italiano –giusta legge 833 del 23 dicembre 1978

Tony Judt, uno dei grandi politologi del secolo scorso (morto prematuramente nel 2010) ha scritto alcune delle pagine più chiare ed esplicite sui mali che affliggono le democrazie odierne: «Conosciamo il prezzo delle cose ma non abbiamo nessuna idea di quanto valgano. Non ci chiediamo più della sentenza di un tribunale o di un atto legislativo: è buono? E’ giusto? Ci aiuterà a migliorare la società o il mondo? Queste sono le vere domande politiche, anche se non hanno necessariamente risposte semplici. Dobbiamo reimparare a porcele».1 Una delle ultime battaglie di Judt è stata quella intorno al “ripensamento dello Stato”. Dopo il federalismo, i tea party e i movimenti antifiscali, Judt va controcorrente ricordandoci che se non pensiamo rapidamente a come riformare e rafforzare lo Stato le nostre democrazie possono avviarsi verso esiti imprevedibili.
Nel testo che segue presento solamente alcuni aspetti di quanto può succedere se un serio ripensamento del significato dello Stato (e una rivalutazione del suo ruolo) non avverrà. Come dice Judt, non è più accettabile che le tasse siano viste da molti solo come una perdita di reddito a fondo perduto, come accade negli Stati Uniti.

CRISI ECONOMICA E CRISI DELLA SALUTE

La Grecia è un ovvio “laboratorio” involontario per studiare gli effetti recenti della crisi economica, in parte per la rapidità con cui essa vi si è manifestata. Per esempio, la disoccupazione negli uomini è salita dal 6,6% nel 2008 al 26,6% nel 2010, e tra i giovani dal 19% al 40%. Ricordo solamente alcune delle conseguenze sullo stato di salute, ampiamente descritte e ormai ben note: un aumento del 14% (dopo il 2008) della frequenza di persone che descrivono la loro salute come “cattiva” o “molto cattiva”; un aumento dei suicidi del 17%, e degli omicidi quasi del 100%; ancora più preoccupante è l’aumento della frequenza di infetti dall’HIV (52% in più nel 2011 rispetto al 2010, soprattutto tra i consumatori di droghe). Nei primi 7mesi del 2011 vi è stato un incremento di 10 volte delle infezioni nei consumatori di droghe, e la frequenza di uso di eroina è aumentata del 20% nel 2009.2
Come mostra il caso della Grecia, il declino può essere più rapido della crescita, sia in economia sia nello stato di salute della popolazione. La crisi economica ha molti insegnamenti anche per il futuro della sanità. La creazione della Comunità europea dopo la caduta del comunismo e l’unificazione della Germania venne avviata, come è ben noto, su una base prevalentemente monetaria ma con ampie carenze istituzionali. In particolare, venne creata una Banca centrale, ma non una Finanza centrale che potesse emettere obbligazioni europee (gli  Eurobond).Questo avvenne perché si ritenne che la politica avrebbe ovviato a questa macroscopica carenza in caso di necessità. Nella settimana successiva al fallimento di Lehman Brothers, nel 2008, l’intero mondo della finanza collassò e richiese di essere sottoposto a un «mantenimento in vita artificiale», per esprimersi con le parole di George Soros.3 Questo consistette nel sostituire il “credito sovrano” (basato su garanzie da parte delle banche centrali e di un crescente deficit nel bilancio dei singoli Stati) al credito delle istituzioni finanziarie nazionali, non più accettato dai mercati.
Il ruolo centrale che è venuto a giocare il “credito sovrano” ha rivelato un difetto di fondo nell’intera costruzione, che non era stato chiaramente riconosciuto in precedenza. Trasferendo alla Banca centrale quello che era il diritto di stampare moneta a livello nazionale (che creava inflazione interna, ma aumentava la competitività sui mercati internazionali attraverso la svalutazione), gli Stati espongono il loro credito sovrano al rischio di fallimento (default). Questa situazione ha creato un’Europa, come si dice abitualmente, a due velocità, divisa tra creditori (in particolare la Germania) e debitori. I Paesi debitori che prendono denaro a prestito devono pagare “premi” che riflettono il rischio di default; addirittura, il mercato finanziario induce questi Paesi al default attraverso la speculazione. La creazione di un debito pubblico enorme fa scattare quelle politiche di contenimento o di “austerità”, definite anche riforme strutturali, che ora appaiono chiaramente come politiche depressive, che conducono cioè a una depressione economica perdurante. Nel 1982 avvenne qualcosa di simile quando si verificò una grave crisi delle banche, e il Fondo monetario internazionale salvò le istituzioni bancarie prestando una quantità di denaro appena sufficiente ai Paesi maggiormente indebitati per consentire loro di evitare il default, ma a costo di spingerli verso una depressione di lunga durata. L’America Latina, in particolare, soffrì della depressione economica per un decennio.
Insomma, la crisi è dovuta certo allo strapotere delle banche e agli errori degli economisti, ma anche largamente alle carenze e alle degenerazioni della politica. E’ possibile che la crisi economica conduca alla fine di un’era anche in settori lontani dall’economia. Come abbiamo visto la fine di Bretton Woods e delle istituzioni finanziarie ispirate alle teorie di Keynes, possiamo trovarci a fronteggiare la progressiva erosione di istituzioni come l’Organizzazione mondiale della sanità. In vari modi la crisi attuale conduce a cambiamenti materiali, psicologici ed etici che possono avere conseguenze a lungo termine per lo stato sociale e l’uguaglianza. E’ possibile che l’efficacia di agenzie centrali come l’OMS, che rilascia linee guida generali, venga completamente vanificata dalla mancanza di istituzioni politiche nazionali abbastanza efficaci che possano coordinare e rendere effettive le misure preventive. Bisogna ricordare che per ogni dollaro speso dall’OMS per la prevenzione delle malattie causate dall’alimentazione occidentale, più di 500 vengono spesi dall’industria dell’alimentazione per promuovere quelle stesse diete.4 Vedo molte analogie tra la crisi economica e quanto è successo in alcuni settori della salute, e con quanto può succedere in futuro se non intervengono in modo energico entità nazionali e sovranazionali. Analogamente alla dissociazione tra la moneta unica e l’assenza di un controllo efficace della finanza a livello locale e sovranazionale, la Framework Convention on Tobacco Control si sta rivelando inefficace per motivi non così diversi, riconducibili a uno strapotere dell’economia (la World Trade Organization - WTO) rispetto alla politica (le Nazioni unite, l’OMS). La convenzione è uno schema generale mirante a limitare il commercio e i consumi di sigarette, ma è stata fortemente avversata dalla WTO sulla base della violazione della libertà di commercio. Come afferma il sito web della WTO: «Al meeting del Comitato sulle barriere tecniche al commercio della WTO del 24-25 marzo 2011 in totale sono state sollevate contestazioni a 45 violazioni del diritto al commercio. [...]Mentre i membri della WTO non mettono in discussione la finalità di protezione della salute, essi contestano che il disegno di tale regolamentazione delle vendite del tabacco può avere un impatto inutilmente negativo sui commerci».5 Un linguaggio contorto e legalistico per dire che la libertà di commercio ha la priorità sulla protezione della salute. E’ probabile che qualcosa di molto simile avverrà con le ambiziose politiche come “25x25” (l’abbattimento della mortalità da malattie croniche del 25%entro il 2025, sancito nel 2011 dalle Nazioni unite), e si estenderà dalle sigarette ai prodotti alimentari.

domenica 22 dicembre 2013

Tra crisi della riproduzione sociale e welfare comune. intervista a Silvia Federici

di Antonio Alia

Silvia Federici non ha bisogno di presentazioni. Militante e intellettuale femminista, da sempre impegnata nei movimenti sociali, è stata tra le fondatrice della campagna Wages for Housework. Le abbiamo rivolto alcune domande per offrire una lettura della crisi e delle possibili alternative con cui sicuramente occorre confrontarsi. L’intervista si chiude con un commento ad un articolo di Nancy Fraser. Nell’intervento, Silvia Federici ricorda l’importanza di quel femminismo che ha ispirato lotte e riflessioni teoriche e che non ha concesso nulla ai processi di istituzionalizzazione neoliberale. Un femminismo che fa definitivamente i conti con la fine di ogni possibile riformismo contro cui occorre invece “costruire nuove strutture e nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato”

d. La crisi globale esplosa nel 2007, a sei anni di distanza, non trova una soluzione di continuità e se la guardiamo da una prospettiva storica perde il carattere di fenomeno contingente.
Al contrario sembra rappresentare un ulteriore tappa del processo di ristrutturazione dell’economia globale iniziato nella seconda metà degli anni ’70 che, con una formula forse un po’ generica, abbiamo definito neoliberismo. Sono almeno tre le dimensioni interdipendenti di questa crisi che tu hai definito sistemica: è una crisi di accumulazione del capitale, è una crisi fiscale ed è anche e soprattutto una crisi della riproduzione sociale. Puoi dirci che cosa intendi con quest’ultima categoria?

r. Intendo che, sia pur in modi diversi, sempre meno il proletariato, in tutte le sue componenti, ha accesso ai mezzi necessari per la propria riproduzione. Dallo smantellamento del welfare, alla precarizzazione del lavoro, alla continua espropriazione di terre, boschi, acque, alla distruzione dell’ambiente, tutte le politiche al centro della globalizzazione tendono a separare i produttori dai mezzi di riproduzione, a svalutare la forza lavoro, e a creare una situazione in cui la possibilità di riprodursi implica una lotta quotidiana. È una crisi che assume aspetti diversi a seconda dei luoghi e dei gruppi sociali, ma ormai è verificabile in ogni parte del mondo, inclusa l’Europa. Per questo si riscontra sempre di più la necessità di creare forme di riproduzione alternative al mercato e ai servizi pubblici gestiti dallo Stato, sempre più evanescenti. Non si tratta, infatti, di una crisi contingente; anzi si dovrebbe smettere di definirla una “crisi”, termine che suggerisce una situazione temporanea. Il cosiddetto neoliberismo, in effetti, vuole “liberare” il capitale da ogni responsabilità nei confronti della riproduzione della forza lavoro, vuole cancellare i residui della politica keynesiana, che tuttora impegnano lo Stato a garantire (anche se sempre meno) certi livelli di riproduzione. Si tratta, quindi, di una svolta storica che spazza via ogni possibilità di mediazione, anche perché l’interdipendenza economica e politica che la globalizzazione ha creato nell’articolazione dell’accumulazione capitalistica riduce gli spazi di manovra delle singole regioni.

d. Gli effetti della crisi nella sua triplice dimensione si rendono evidenti soprattutto su scala metropolitana, come per esempio ci suggerisce il caso di Detroit, che abbiamo già analizzato su commonware.org. Le città però sono anche il terreno di lotte sociali e movimenti che insistono proprio sul terreno della riproduzione sociale. Le forme organizzative sembrano assumere i tratti di organizzazioni del comune, cioè di forme di produzione e riproduzione della vita alternative al mercato e allo Stato. In che modo queste esperienze di lotta arricchiscono il nostro concetto di comune o ne sottolineano alcuni limiti?

r. Nelle città si rendono evidenti gli effetti e gli scopi di una crisi che spesso, però, comincia nelle campagne con l’espropriazione delle terre, che oggi, come nel sedicesimo secolo, è la condizione essenziale dello sviluppo capitalistico. Le megacittà dell’America Latina sono il frutto di espulsioni massicce di contadini/e dalla terra. Proprio per questo è nelle periferie metropolitane che troviamo gli esempi più significativi di produzione del comune, come, per esempio, l’occupazione di terre per la costruzione di quartieri autogestiti, la creazione di forme di riproduzione collettiva come i comedores populares, i comitati per gli orti urbani, e così via. Che cosa abbiamo imparato da queste esperienze? Anzitutto che la “produzione del comune” non può essere mai solamente un fatto economico e/o una produzione di beni materiali da condividere, ma anzitutto deve essere produzione di rapporti sociali, circolazione di conoscenze, superamento delle divisioni che le politiche istituzionali continuamente creano nel sociale, in altre parole deve essere produzione di nuove forme di lotta e di cambiamento sociale.
Gli accampamenti periferici dell’America Latina, come Occupy Wall Street e le mille occupazioni che si sono verificate in tutto il mondo, e poi le banche del tempo, le libere università, le fabbriche autogestite, tutti questi “esperimenti” ci insegnano che la produzione del comune è tanto più efficace quando non è fine a se stessa, ma é parte di un processo più ampio – quando gli orti urbani si collegano alle scuole e diventano luoghi di apprendimento e socialità, luoghi in cui le nuove generazioni imparano che il cibo non è prodotto nei supermercati; quando la creazione di asili nido libera non solo tempo per il lavoro ma libera tempo per la lotta; quando le fabbriche autogestite sono inserite in una realtà sociale che garantisce la distribuzione di ciò che producono e aiuta a decidere cosa produrre. È necessario quindi collegare gli orti, le “libere università”, i vari knowledge commons o le strutture mediche comunitarie che si costruiscono nei quartieri, alle lotte nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche.
A questo proposito, negli Stati Uniti stiamo riscoprendo la grande varietà di iniziative che esistevano nel proletariato prima del New Deal e che il New Deal ha cancellato. Fino agli anni ’30 gran parte della “sicurezza sociale” era organizzata dal basso, da organizzazioni di lavoratori, che assicuravano pensioni, fondi per malattie o incidenti sul lavoro.
Oggi, invece, la produzione del comune, almeno in Europa e negli Stati Uniti, è solo agli inizi, perché la ristrutturazione industriale e la riorganizzazione del territorio che ne sono seguite hanno distrutto le basi materiali delle forme di organizzazione comunitaria che esistevano nelle aree proletarie, e viviamo in città il cui tessuto sociale è stato in gran parte disintegrato. Quindi il “comune” è una realtà in gran parte da costruire, possiamo intravederne solo alcuni elementi, e realisticamente progettare solo su scala limitata. Però è necessario immaginare i nostri “commons”, per limitati che ora siano, come parte di un progetto più ampio. É chiaro, comunque, che non sempre è facile, specialmente all’inizio, tracciare una linea precisa tra ciò che corrisponde a un’immediata necessità materiale e ciò che si inserisce in una prospettiva politica larga. Negli anni che seguirono al golpe di Pinochet in Cile, nei quartieri proletari, come la Victoria, le donne si mobilitarono di fronte allo spaventoso impoverimento delle proprie famiglie, unendo le proprie forze per fare la spesa insieme, cucinare insieme, cucire insieme, avendo come unico scopo la sopravvivenza; però in questo modo ruppero l’isolamento e la paralisi che il golpe aveva determinato e trasformarono anche il processo della propria riproduzione e il proprio ruolo nella comunità.
A livello più generale, direi che costruzione di forme cooperative/collettive di riproduzione anche quando motivata dalla necessità della sopravvivenza è un passo per rompere l’isolamento in cui oggi il lavoro di riproduzione è organizzato, cosa di cui fanno le spese soprattutto le donne, e assume forme drammatiche in presenza di bambini piccoli o malati.

Spagna: cancellato il diritto all’aborto, è rivolta

di Marco Santopadre

proteste davanti alla sede del Ministero della Giustizia nella capitale spagnola, convocate dal coordinamento Decidiamo noi. Alla manifestazione femminista hanno partecipato gli indignados del Movimento 15M. Arrestati tre dimostranti accusati di resistenza, disobbedienza  e attentato all’autorità

Prosegue in uno stato spagnolo devastato da anni di austerity e tagli l’offensiva reazionaria condotta dal governo di Mariano Rajoy. Dopo aver messo mano al diritto di manifestazione e all’istruzione pubblica, il Partito Popolare ha appena inferto un gravissimo colpo al diritto all’autodeterminazione delle donne, in particolare riportando la legge sull’interruzione di gravidanza indietro di parecchi decenni.
Ieri il consiglio dei ministri ha approvato una controriforma della precedente legge che renderà molto difficile per le donne spagnole abortire, costringendole a ricorrere alla pericolosa e costosa pratica degli aborti clandestini o a recarsi all’estero così come avveniva nel paese ai tempi della dittatura di Francisco Franco e fino al 1985.
Il progetto di legge è firmato dal ministro della giustizia Alberto Ruiz-Gallardón - e non dalla ministra della sanità, la più moderata Ana Mato - e reca l’altisonante denominazione di “Legge organica per la protezione della vita del concepito e dei diritti della donna incinta”.
Al contrario della legge del 2010 che permetteva l’aborto senza restrizioni entro la quattordicesima settimana di gestazione, il nuovo provvedimento permette l’interruzione volontaria della gravidanza solo in due casi: quando la donna è rimasta incinta in seguito ad uno stupro, oppure quando è a rischio la sua salute, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Neanche la presenza di gravi malformazioni fetali giustifica - secondo la legge - l’eventualità di interrompere la gravidanza, se non quando rappresentino una ‘pressione insopportabile’ per la madre psicologicamente parlando e quando mettano a rischio la vita del nascituro.
Per di più interrompere una gravidanza conseguenza di una violenza sessuale sarà possibile solo prima della dodicesima settimana di gestazione e solo se lo stupro è stato denunciato immediatamente dalla vittima. Anche in caso di malformazione grave del feto abortire sarà possibile solo prima della ventiduesima settimana e a decidere dovranno essere due medici esterni a quelli incaricati di eseguire l'eventuale aborto. Un vero e proprio calvario.

Prendere appunti in America

di Francesco Raparelli

mentre il movimento Occupy diventa un ricordo, riemerge con forza l'organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori. Un centinaio di città -da New York a Oakland, da Boston a Chicago- sono state coinvolte nello sciopero dei Fast Food dello scorso giovedì 5 dicembre: “Dal black friday di Walmart allo sciopero dei Fast Food: torna la questione del salario e della dignità del lavoro”

Epoca infelice la nostra, soprattutto nell'Europa del Sud, dove la stretta ordoliberale imposta da Berlino e Francoforte (Fiscal Compact, politiche monetarie deflattive ecc.) polverizza anche i margini della contrattazione sociale, rende impossibile ogni riformismo, seppur tiepido. Epoca infelice oppure grande occasione: proprio quando il tavolo salta, e il riformismo diviene impossibile, solo la rottura può fare la differenza.
Sul modo di intendere la rottura, però, si giocherà la partita che conta nei prossimi anni, perché quello che stiamo vivendo è un passaggio d'epoca e non un collasso fugace. La sfida, per tutte e tutti, è il problema delle forza. Senza forza e conflitto (anche violento) – e cominciano ad ammetterlo addirittura i riformisti meno corrotti – neanche i sogni neo-keynesiani di Krugman hanno alcuna chance. Lasciamo a Krugman i suoi sogni e occupiamoci, piuttosto, della definizione di un anticapitalismo all'altezza della scena capitalistica (singolare) nella quale siamo immersi, quella neoliberale, quella in cui la crisi si cronicizza e assume le forme di una rinnovata e permanente «accumulazione originaria». Dove accumulare forza (effettivamente) antagonista al capitale e alla finanza globali, e quali punti di applicazione della forza accumulata?
Se questa è la domanda, la lezione americana è decisiva, soprattutto in Europa, dove tante e potenti esplosioni moltitudinarie non sono riuscite a scalfire l'offensiva dei mercati finanziari, delle holding bancarie, delle multinazionali. Dal black friday (23 novembre) dei lavoratori di Walmart allo sciopero di quelli dei Fast Food lo sciopero torna a far tremare gli Us, il problema del salario, quello minimo e quello dignitoso, riconquista la scena. Se è vero, infatti, che in America il tasso di disoccupazione continua a calare (dal 7,2 al 7%, con un aumento, nel solo mese di novembre, di 203.000 posti di lavoro), è altrettanto vero che i salari, soprattutto nel mondo dei servizi, sono da fame. Nulla più di questi dati chiarisce l'uso capitalistico della crisi: disoccupazione di massa e scarsità (imposta dalla rendita finanziaria e immobiliare) a sostegno di una violenta aggressione, materiale e ideologica, ai salari e ai diritti.
Ma nel disastro, mentre il movimento Occupy diventa un ricordo, riemerge con forza l'organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori, lo sciopero. Si comincia il 23 novembre, il giorno successivo al Tanksgiving Day, con Walmart, colosso della grande distribuzione, tra le principali corporation negli Stati Uniti (1 milione e 400 mila dipendenti). È proprio Walmart, infatti, ad aver demolito, più di altre aziende, salari e diritti: il part time è un obbligo, le retribuzioni bassissime, 50 ore di lavoro settimanale, con picchi di 70-80 ore nei periodi festivi (in cui il lavoro è imposto, of course), obbligo al trasferimento in sedi a volte molto lontane dalla località di residenza, pratiche antisindacali e discriminatorie nei confronti delle lavoratrici (70% della forza-lavoro complessiva).
Lo sciopero, che ha avuto tra gli animatori più rilevanti OUR Walmart (Organization United for Respect at Walmart), ha visto coinvolti un migliaio di centri commerciali, 46 Stati, un centinaio di città. Sono tanti gli elementi interessanti su cui varrebbe la pena riflettere, ne segnalo tre: in primo luogo i soggetti, lavoratrici (soprattutto) e lavoratori del commercio, figure finora scarsamente sindacalizzate e vittime di uno sfruttamento selvaggio; in secondo luogo le rivendicazioni, la centralità del salario minimo, ma più in generale la dignità del lavoro e il diritto alla coalizione; infine il rapporto con i consumatori e le tante comunità locali che, nel sostenere lo sciopero, hanno dato vita al Buy Nothing Day. Tre elementi che ci danno indicazioni preziose, visto che in Italia e in Europa le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori del commercio non sono molto differenti da quelle dei dipendenti Walmart. In Italia, ad esempio, è il contratto nazionale che ha favorito un pieno di precarizzazione del rapporto lavorativo, imposto una turnazione disumana, ridotto al minimo i salari.

domenica 15 dicembre 2013

Lo stato e il suo doppio*

di Robert Kurz

“Critica della nazione, dello Stato, del diritto, della politica e della democrazia” è il sottotitolo di questo estratto, ma soprattutto il tema su cui ruota il saggio dell’autore, il punto (o i punti) dove il cuore radicalmente critico della teoria marxista si è mimetizzato. “Si è voluto vedere solo la formulazione sociologica della teoria dello stato, quella dove Marx parla dello stato come del "comitato di affari della borghesia". Questa espressione, appartenente al movimento operaio del secolo scorso, non corrisponde affatto alla situazione di una democrazia borghese che ha raggiunto la fine della sua evoluzione”

Oggi, il marxismo, e con esso la teoria marxista, viene essenzialmente considerato come il fallimento storico di una dottrina che guarda allo stato, alla redistribuzione monetaria fatta dallo stato, alla regolazione dei processi economici da parte dello stato e che guarda, infine, ad uno stato che gioca il ruolo di imprenditore generale della società. Non è più altro che il sinonimo di una malevola tutela burocratica sull'individuo, privato dei suoi diritti, e di una amministrazione repressiva degli uomini, degli orrori dei gulag e del totalitarismo in generale; insomma, di tutto ciò che "l'economia di mercato e la democrazia" non devono né possono essere. In questo c'è qualcosa di vero, nella misura in cui le società della seconda modernizzazione, che cercano la loro legittimazione ideologica nel richiamarsi a Marx, sono effettivamente degli stati totalmente autoritari. Questo autoritarismo burocratico dello stato non rappresenta assolutamente solo una delle distorsioni subite dal marxismo, riferita alle condizioni di vita dei ritardatari storici che appartengono alla periferia del mercato mondiale. E' sempre stata anche una caratteristica del movimento operaio marxista, dei suoi partiti e dei suoi sindacati, nei paesi capitalisti sviluppati, d'occidente.
Fino ad oggi, la socialdemocrazia europea è rimasta, attraverso tutte le sue metamorfosi, profondamente una forza di stato autoritario.
Dall'ideologia fantasmagorica dello "Stato Operaio" alla cogestione repressiva dell'impudente società capitalista, dalle prime dichiarazioni di un programma per la formazione dello Stato sociale e l'interventismo burocratico keynesiano dopo la seconda guerra mondiale, il marxismo ed i suoi successori occidentali fino alla fine del XX secolo, non potrebbe mai negare di aver guardato allo Stato rispetto alla "libertà di mercato" liberale. Dire che Marx non c'entra nulla con questo statismo, significherebbe distorcere i fatti. Possiamo trovare, nella sua teoria, sufficienti dichiarazioni il cui punto culminante si trova nell'esortazione alla classe detta operaia ad "impadronirsi del potere dello Stato", per affrancarsi dall'oppressione (socio-economica) esercitata dalla classe detta capitalista; viene annunciato che il socialismo sarà uno "Stato di lavoro" con un "obbligo a lavorare", che bisognerà instaurare realmente la "nazione" e la "democrazia" e alla quale bisognerà arrivare per via "politica". Ma qui si tratta ancora del Marx "essoterico",  quindi del Marx le cui argomentazioni e il cui sguardo sono rivolti - in modo immanente al sistema - al secolo del movimento operaio. Così come è fondamentalmente determinato da un doppio gap storico (quello riferito al vecchio status di "condizione inferiore" dell'operaio, in generale, e quello riferito alla specifica situazione tedesca, in particolare), il Marx essoterico lo è anche riguardo alle categorie di politica, stato, nazione e democrazia. Da una parte, si tratta del ritardo, doppio anch'esso, della Germania in quanto stato se paragonata all'Inghilterra o alla Francia: in primo luogo, il paese è diviso in una moltitudine di piccoli stati e non si è ancora innalzato al rango di nazione capitalista; in secondo luogo, continua ad essere governato da una monarchia assoluta "per diritto divino", retrograda, che non ha ancora intrapreso la strada della repubblica capitalista. Allorché Marx, erede dissidente del pensiero borghese moderno, aderisce ad una accezione razionalista, liberale e determinista del progresso, ritiene che le "missioni capitaliste" non ancora realizzate sul piano economico e culturale, ma anche politico, vengano realizzate, per cui bisogna stabilire un'unità politica nazionale ed una repubblica borghese. Nella misura in cui Marx considera che la borghesia tedesca, di cui deride la codardia ipocrita, è incapace di svolgere questi pretesi compiti dati dalla storia, decide di incaricare l'ambigua classe operaia di tale missione, come se si trattasse di una capriola: tutto ciò che sta scritto nella lista delle cose da fare della Storia non può che essere eseguito convenientemente e al momento giusto! Non è senza motivo che Lenin utilizzerà politicamente (prendendo una scorciatoia "politica") tale figura intellettuale paradossale che consiste nel mettere in atto le categorie della società capitalista che voleva sopprimete, di modo che esse possano essere in seguito correttamente abolite. Marx non si è voluto rendere conto - o non ha voluto ammetterlo - che poteva esserci una trappola che avrebbe legato la coscienza critica a tali specifiche categorie di socializzazione capitalista.
Del resto, non solo in Germania, ma anche nei paesi capitalisti più avanzati, il proletariato industriale che era appena apparso sulla scena e che continuava a crescere era sotto molti aspetti una massa priva di diritti. Di conseguenza, non era un attore che godesse pienamente di una capacità civile e contrattuale, nel senso borghese del termine, e si vedeva largamente escluso dalla vita politica delle repubbliche borghesi, anche sul piano formale. Le donne non erano le sole a non avere il diritto di voto, ne erano ugualmente privati anche gli uomini che non possedevano dei beni o, per lo meno, avevano un diritto di suffragio limitato. In tali condizioni, lo stato, anche repubblicano, era necessariamente stato di classe, cioè a dire era esclusivamente affare e apparato della classe possidente. Nel loro essere, quindi, i lavoratori salariati aspiravano a diventare soggetti di diritto giuridico e civico, soprattutto gli uomini, per esistere (o per modellare e perfezionare la loro esistenza).La lotta del movimento operaio per essere riconosciuto nel capitalismo prende perciò necessariamente una piega politica. Questa aspirazione aveva per stendardo la nozione enfatica di democrazia, e la lotta di classe era una "lotta politica". E' così che apparve la socialdemocrazia in quanto partito politico, come prototipo di un partito politico moderno nella "gabbia di ferro" di una socializzazione capitalista. Marx non poteva reagire altrimenti che facendo delle concessioni a questo impulso, quasi integrandolo nella redazione della sua teoria, benché questa lotta politica non conducesse fuori dal capitalismo e dal lavoro salariato, ma li rafforzasse ancora più profondamente e condannasse ancora più implacabilmente gli uomini a rispettare delle forme sociali che riguardavano categorie e criteri del capitalismo.

Comune, Povero Yorick. Conversazione con Toni Negri

di Mimmo Sersante

Riproduciamo la conversazione tra Mimmo Sersante e Toni Negri all’interno della riedizione di Fabbriche del soggetto (Ombre Corte, Verona 2013), preceduta dalla lettera inviata da Mimmo Sersante al “manifesto” in seguito alla pubblicazione della “recensione” di G. Roggero al libro (7 dicembre 2013)

sabato 7 dicembre 2013

I cammini inattesi di Nelson Mandela

di Achille Mbembe

Non ci interessano le celebrazioni ufficiali o le agiografie di Nelson Mandela. Ci interessa invece socializzare la conoscenza di un militante rivoluzionario, dei movimenti anti-coloniali e contro l’apartheid a cui è stato interno e di cui è stato protagonista, così come delle contraddizioni del governo dell’African National Congress, che ha spesso istituzionalizzato la memoria per neutralizzarla e reprimere le lotte contro il regime neoliberale. Ci interessa analizzare la grandezza delle lotte anti-coloniali e il fallimento degli stati postcoloniali. Il contributo di Achille Mbembe che qui presentiamo (scritto in estate) va in questa direzione, dentro le lotte del presente e per le lotte nel presente. Ecco il nostro tributo a Madiba, nell’unico modo degno: da rivoluzionari

Con l’uscita di scena di Nelson Mandela, si avrà diritto di decretare la fine del XX secolo. L’uomo che oggi è al tramonto della sua vita ne è stata una delle figure emblematiche. E, con l’eccezione di Fidel Castro, è forse l'ultimo di una serie di grandi uomini condannati all’estinzione, vista l’urgenza del nostro tempo di farla finita una volta per tutte con i miti.
Più che un santo, appellativo che egli stesso non gradisce, Mandela è stato davvero una leggenda vivente, prima, durante e dopo la lunga carcerazione. In lui, il Sudafrica, questo incidente geografico che ha difficoltà a farsi concetto, ha trovato la sua Idea. E se non ha fretta di sbarazzarsene è proprio perché il mito della società senza miti non è privo di pericoli, alla luce della sua nuova esistenza quale comunità di vita, all’indomani dell’apartheid.
Ma se davvero accordiamo a Mandela il rifiuto della santità che lui stesso, a volte non senza malizia, non ha mai smesso di ribadire, si deve anche riconoscere che non si tratta di un uomo comune. L’apartheid, quale forma quasi ordinaria di dominazione coloniale e oppressione razziale, ha prodotto l'emergere di una classe di donne e uomini fuori dal comune, senza timore, che, al prezzo di sacrifici incredibili, ne hanno affrettato l’abolizione. Se tra tutti questi Mandela è il simbolo, è perché ad ogni bivio della sua vita è stato in grado, a volte sotto la pressione delle circostanze e spesso volontariamente, di intraprendere cammini inattesi.
In sostanza, la sua vita si può riassumere con poche parole: uomo costantemente in agguato, vigile al momento della partenza, e i cui ritorni, inattesi quanto miracolosi, hanno non poco contribuito alla sua mitizzazione.
Alla base del mito non c’è solo il desiderio del sacro e la smania del mistero. Il mito fiorisce in primo luogo vicino alla morte, questa forma primaria della dipartita e della rimozione. Mandela ne ha fatto esperienza presto, quando suo padre, Mphakanyiswa Gadla Mandela, è morto quasi davanti ai suoi occhi, con la pipa in bocca, nel mezzo di un colpo di tosse inarrestabile che neanche il tabacco, di cui era così appassionato, ha potuto addolcire. Fu a quel punto che la prima dipartita ne anticipò un’altra. Accompagnato dalla madre, il giovane Mandela lasciò Qunu, il luogo della sua infanzia e della prima adolescenza, che descrive con infinita tenerezza nella sua autobiografia; il luogo dove si stabilirà dopo i lunghi anni di carcere, dopo aver costruito una casa che replicava in tutto e per tutto l'ultima prigione prima della sua liberazione.
Riluttante a conformarsi alle usanze, partirà una seconda volta alla fine dell'adolescenza. Principe fuggitivo, girerà le spalle a una carriera al fianco del capo dei Thembus, suo clan d’origine. Andrà a Johannesburg, città mineraria che vedeva in quegli anni l’espandersi delle contraddizioni sociali, culturali e politiche generate da quell’assemblaggio barocco di capitalismo e razzismo che dal 1948 prende il nome di apartheid. Destinato a diventare un leader di fatto, Mandela si converte al nazionalismo come altri si sarebbero convertiti a una religione, e la città delle miniere d’oro diventò il teatro principale del suo incontro con il destino.
Inizia a quel punto una strada lunga e dolorosa da attraversare, di privazione, arresti ripetuti, molestie, continue convocazioni in tribunale, sistematiche incarcerazioni con tutto un corollario di torture e riti di umiliazione, momenti più o meno prolungati di vita clandestina, l’inversione del giorno con la notte, i travestimenti più o meno spontanei, una vita familiare dislocata, fatta di abitazioni deserte – l'uomo in lotta, braccato, il fuggitivo costantemente in partenza, guidato ormai solo dalla la convinzione che il giorno seguente sarà quello del ritorno.
Mandela ha infatti corso rischi enormi. Rischi per la sua stessa vita, vissuta intensamente, come se tutto doveva ogni volta ricominciare e come se ogni volta fosse l’ultima. Ma anche per quella di molti altri, a cominciare dalla sua famiglia, che come conseguenza inevitabile ha pagato un costo inestimabile per il suo impegno e per le sue convinzioni. E ciò lo ha legato alla sua famiglia con un debito inestinguibile, che, come ha sempre saputo, non sarebbe mai stato in grado di ripagare – cosa che non ha fatto che accrescere il suo senso di colpa.
Nel 1964 ha evitato la pena di morte. Con i suoi coimputati, era pronto ad essere condannato. “Avevamo previsto questa possibilità” ha detto in un’intervista con Ahmed Kathrada, molto tempo dopo essere uscito di prigione. “Se dovevamo scomparire, dovevamo farlo in una nuvola di gloria. Ci piaceva sapere che la nostra uccisione rappresentava il nostro ultimo dono al nostro popolo e alla nostra organizzazione”[1]. Questa visione eucaristica, tuttavia, era priva di qualsiasi desiderio di martirio. E a differenza di tutti gli altri, da Ruben Um Nyobe a Patrice Lumumba, passando per Amilcar Cabral, Martin Luther King o Mohandas Karamchand Gandhi, sfuggirà alla falce della morte.
Nel carcere Robben Island sperimenterà propriamente il desiderio di vita, al limite del lavoro forzato, della morte e dell’esilio. Il carcere diventerà luogo di una prova estrema, quella del confinamento e del ritorno dell’uomo alla sua espressione più semplice. In questo luogo di massima privazione, Mandela ha imparato a vivere nella cella dove ha trascorso oltre vent’anni come un vivo costretto a sposarsi con un feretro[2].
Nelle lunghe e strazianti ore di solitudine, spinto al limite della follia, riscopre l’essenziale che si trova nel silenzio e nel dettaglio. Tutto gli parla di nuovo: una formica che si affretta non si sa dove; un seme sepolto che morto poi si rialza, dando l’illusione di un giardino; un pezzo di qualcosa, qualsiasi; il silenzio dei giorni tristi che si somigliano senza dare l’impressione di passare; il tempo che si allunga interminabilmente; la lentezza dei giorni e il freddo delle notti; la parola diventata così rara; il mondo fuori dalle mura di cui non si sentono più i mormorii; l'abisso che era Robben Island e le tracce del penitenziario sul suo volto ormai scolpito dal dolore, nei suoi occhi sbiaditi dalla luce solare riflessa sul quarzo, in queste lacrime che non sono tali, la polvere sul suo volto trasformato in fantasma spettrale, nei suoi polmoni e sulla punta dei piedi, e soprattutto questo sorriso allegro e luminoso, questa postura altera, dritta, in piedi, il pugno stretto, pronto ad abbracciare di nuovo il mondo e a fare soffiare la tempesta.
Spogliato di quasi tutto, combatterà con le unghie e con i denti per non far sì che, di fronte al resto dell’umanità, i suoi rapitori che volevano a tutti i costi sbarazzarsi di lui, ne potessero fare il trofeo finale. Ridotto a vivere con quasi nulla, ha imparato a salvare tutto, ma ha anche coltivato un profondo distacco dalle cose della vita secolare, compresi i piaceri della sessualità. Al punto che, di fatto prigioniero, confinato in due metri e mezzo, non è tuttavia schiavo di nessuno.
L’uomo di carne e ossa, Mandela ha dunque vissuto in prossimità del disastro. È entrato nella notte della vita, vicino alle tenebre, in cerca di un’idea: vivere liberi dalla razza e dalla dominazione razziale. Le sue scelte l’hanno portato sull'orlo del precipizio. Ha affascinato il mondo, perché è tornato vivo dalla terra dell’ombra, forza che sgorga la sera di un secolo invecchiato e che non si può più sognare.
Proprio come i movimenti operai del XIX secolo o come le lotte delle donne, la nostra modernità è stata travagliata dal sogno di abolire della schiavitù. Sogno che, nei primi anni del XX secolo, si è esteso alla lotta per la decolonizzazione. La prassi politica di Mandela si inscrive in questa storia specifica delle grandi lotte africane per l’emancipazione umana.
Queste lotte hanno avuto, fin dall’inizio, una dimensione planetaria. Il loro significato non è mai stato solo locale ma sempre universale. E anche quando hanno mobilitato i soggetti locali di un paese o di un territorio ben definito, erano il punto di partenza di una solidarietà forgiata su scala planetaria e transnazionale.
Queste sono le lotte che hanno ogni volta consentito l’estensione o l’universalizzazione di diritti che fin a quel momento erano rimasti appannaggio di una razza. È il trionfo del movimento abolizionista del XIX secolo che mette fine alla contraddizione rappresentata dalle moderne democrazie schiaviste. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’affrancamento delle persone di discendenza africana e le lotte per i diritti civili hanno spianato la strada all’idea e alla pratica di uguaglianza e cittadinanza.
Troviamo la stessa universalità nel movimento anticoloniale. Come vederlo, infatti, se non come la possibilità di manifestare l’origine di un potere proprio – la forza di alzarsi da soli, fare comunità, autodeterminarsi?
Diventando il simbolo della lotta globale contro l’apartheid, Mandela dilata questi significati. Qui, l’obiettivo è costruire una comunità al di là della razza. Nel momento in cui il razzismo è ritornato in forme più o meno inaspettate, il progetto di uguaglianza universale è più che mai davanti a noi.

“La negazione della negazione è una sorta di colpo di stato dialettico”

di Mario Pezzella

questo pezzo è la “Digressione” conclusiva del saggio “La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito”, pubblicato sulla rivista Consecutio Temporum, alla quale rinviamo per la lettura integrale, dove si possono consultare anche le note bibliografiche qui tralasciate (di cui ci scusiamo con l’autore), cliccando il link  a fondo pagina

La negazione della negazione è una sorta di colpo di stato dialettico, e tale rimane anche nella versione secolarizzata di Marx, che la fa derivare dalla contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La fede escatologica che l’estremo della negatività si capovolga necessariamente nel Mondo Nuovo, nel contesto del capitalismo attuale, ha tutti i caratteri di un mito storico, con una funzione analoga a quello della repubblica romana per i rivoluzionari francesi del 1789. È  cioè un’immagine di sogno, che richiede interpretazione. Pure, vien riproposta in varie forme anche nel pensiero critico contemporaneo.
Il passo di Marx sulla negazione della negazione si trova in epigrafe a un importante capitolo del libro Comune di Hardt-Negri e l’idea che dall’interno stesso delle contraddizioni del capitale fioriscano  le nuove soggettività che lo abbatteranno è ripetuta più volte nel testo, per esempio: “Questo è il modo in cui il capitale genera i suoi becchini: se vuole perseguire i suoi interessi e vuole autoconservarsi, il capitale deve necessariamente incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel frattempo diventano sempre più grandi. Quando l’accumulazione dei poteri della moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di padroneggiare autonomamente la ricchezza comune”. Il termine moltitudine ha sostituito quello del proletariato, ma la logica del rovesciamento è la stessa.
Si può obiettare che ora questo ragionamento è giustificato dalle profonde trasformazioni del lavoro e dal suo divenire sempre più immateriale, cognitivo, fondato sull’estensione sociale del comune e della comunicazione. È  questa produttività mentale, che il capitale non può non incentivare nella sua configurazione attuale e d’altra parte sfugge sempre più intensamente al suo controllo. Così dovrebbe essere: però così non è, ed è necessario spiegare perché ciò che in potenza è liberatorio incrementi in forme inedite la schiavitù dei salariati e la loro dipendenza da rapporti di padronanza: “Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio”. Difficile pensare che la forza produttiva immateriale, in quanto tale, produca un attenuarsi dello sfruttamento, che invece si estende dal corpo alla mente, cancella ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero, produce tipologie inedite di controllo e di manipolazione: “L’innovazione tecnologica non è universalistica…Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una esposizione universale”.

La differenza dell’operaismo

di Nicolas Martino

un marxismo della differenza e antidialettico che smaschera l’universalismo borghese, alleato in questo del pensiero femminista in rivolta contro il dominio patriarcale. Dopo il ’68 l’eredità operaista si dipanerà sostanzialmente in due filoni: le teorizzazioni di Mario Tronti e di Antonio Negri, ovvero la contrapposizione  tra «autonomia del politico» e «autonomia operaia»

Gli anni dei Novissimi e del romanzo sperimentale, di Laborintus II di Luciano Berio e La fabbrica illuminata di Luigi Nono, dei monocromi e del No di Mario Schifano, dei Bachi da setola e del Mare di Pino Pascali, sono anche gli anni delle rivoluzioni copernicane e dei nuovi prototipi mentali in ambito politico.
«Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un grave errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia». In questo celebre passaggio di Lenin in Inghilterra, l’editoriale di Mario Tronti sul primo numero di «Classe Operaia» (gennaio 1964), è contenuto il senso e la novità dell’operaismo italiano degli anni Sessanta. Operaismo che, dice ancora Tronti, «comincia con la nascita di Quaderni Rossi e finisce con la morte diClasse Operaia».
Questa rottura degli anni Sessanta conosce due, o meglio tre, importanti anticipazioni e metà degli anni Cinquanta: 1. Le inchieste sulle classi subalterne condotte nelle «Indie di quaggiù» da Ernesto De Martino, Danilo Dolci e Franco Cagnetta. E tra queste, quella di Cagnetta in Barbagia si segnalava per un’impostazione che, rompendo con il populismo neorealista e mettendo in campo la metodologia della storia orale, voleva già essere conoscenza che trasforma. Nel 1960 con Milano, Corea Danilo Montaldi, intellettuale e militante vicino a «Socialisme ou Barbarie», insieme a Franco Alasia avrebbe portato l’inchiesta nella metropoli. 2. Il magistero di Galvano Della Volpe che, rompendo con lo storicismo idealista del marxismo ufficiale italiano, svelava il carattere essenzialmente mistico e romantico della logica hegeliana e delle sue ipostasi, per proporre un marxismo piantato sul metodo sperimentale del circolo concreto-astratto-concreto. Aristotele contro Platone dunque, e la triade De Sanctis, Croce, Gramsci della via togliattiana al socialismo veniva mandata in soffitta. 3. L’approccio fenomenologico alla soggettività promosso da Enzo Paci.

martedì 3 dicembre 2013

Clic! Grillo, Casaleggio & co. Dialogo con Alessandro Dal Lago

 di Jacopo Guerriero

L’idea che la rete possa consentire un accesso libero alla conoscenza è così ingenua da mettere i brividi. Come se dicessimo che McDonald ha permesso il libero accesso alle proteine per tutti. E quindi tutti a divorare hamburger! E lo stesso vale per l’informazione politica... La rete è un campo di battaglia in cui i più forti tendono a vincere, cioè a guadagnare, e a imporre la loro volontà strategica

A partire da un’ evidenza: la democrazia è reversibile – e impone fatica e non è mai risolta. Apprezzabile è dunque il pensiero politico volenteroso di non mettersi in gabbia –neppure la rivoluzione è scienza, del resto. Pensando ai nostri giorni, Hanna Arendt lo diceva in modo differente e certo più profondo: «il problema delle moderne teorie del comportamento non è che esse siano sbagliate, ma che potrebbero diventare vere». Forse, allora, va in questa direzione anche Alessandro Dal Lago, sociologo  (anomalo nella sinistra italiana, lo definiscono i giornali), che ha scritto un nuovo libro: Clic! (Cronopio, Napoli 2013). Critica radicale di un soggetto politico –del M5S, del grillismo, dell’ascesa dei nuovi imprenditori della politica Grillo & Casaleggio. Giova chiedersi da che parte sta, dove si schiera? Per niente, si perderebbe un occasione. Serve invece leggere questo testo – interrogarlo- ovvero farci un pezzo di strada: per capire slittamenti del pensiero comune, banalità e sottomissioni che dettano il nostro presente. Grillo – la sua attitudine a incrociare e risolvere contraddizioni; il suo amore per le retoriche della rete, il suo corpo gettato nella lotta politica; la lunare visione del mondo del suo socio Gian Roberto Casaleggio – è forse solo un sintomo: del presente e del suo piccolo borghese desiderio di palingenesi.  Incontrando Alessandro Dal Lago, allora, la prima domanda non può che essere sulla natura del tempo che viviamo.

La nostra è, a tutti gli effetti, post democrazia?

Credo che, sì, siamo in una società post-democratica, che, come tutte le cose “post”, mantiene e al tempo stesso vanifica la sua stessa natura. Formalmente democratica e sostanzialmente dispotica o eterodiretta. Pensi solo alla sovranità. In campo economico e militare, un paese come l’Italia non ha alcuna autonomia. Naturalmente, chiunque – nella Nato, nella Ue, nella Bce, nel governo tedesco o americano, e ovviamente italiano… – lo negherebbe, ma così è – se non si è ciechi. Ora, a tutti questi padroni più  meno anonimi ecco aggiungersi una società di servizi politici online come Grillo & Casaleggio…
Un nerd e un comico sono in fondo un’accoppiata inedita: cosa siamo? Un paese – laboratorio, interessante per capire sviluppo e torsioni di un futuro incombente – il futuro della globalizzazione e del capitalismo progressivo. Oppure solo una semplice “Bulgaria Cattolica della Nato” in disfacimento, in nulla interessante dopo la caduta del muro di Berlino? 

Beh, dall’epoca di Reagan, qualsiasi attore sulla scena mediale globale porta nella ventiquattr’ore il bastone da leader politico… A parte gli scherzi, noi siamo sia il ventre molle d’Europa (di quella che conta, naturalmente: non siamo irrilevanti dal punto di vista economico e, quindi, un capro espiatorio come la Grecia), sia un laboratorio. Un laboratorio, per esempio, di smantellamento dell’economia industriale a favore di quella micro-aziendale e commerciale, ma anche di trasformazione del sistema politico verso la dissoluzione elettronica  – in questo senso il grillismo, con tutta la sua aria virtuale-new age ecc., è un interessante esperimento anche per i paesi più sviluppati. Pensi solo all’interesse degli Usa, della stampa estera ecc. per Grillo e il M5S.

Cinque tesi sull’Europa

di Sandro Chignola

Provincializzare l’Europa per una risignificazione della cittadinanza in chiave «europea». Parlare di decostituzionalizzazione significa non soltanto puntare l’attenzione sulle caratteristiche di una produzione di norme e di regolamenti che non rispetta più la tradizionale gerarchia delle fonti del diritto, ma anche porre l’accento sulle eccedenze e le eterogeneità che segnano l’esercizio contemporaneo dei poteri in Europa e che impediscono di riferire il loro esercizio alla forma della costituzione. Parlando di una contro-rottura costituente da sviluppare, parliamo di coalizioni tra soggetti da costruire, parliamo di campagne da organizzare scrivendo a livello europeo il programma delle lotte, parliamo della necessità di coordinare, intensificare e moltiplicare le pratiche di costruzione di un’istituzionalità del comune

1. Provincializing Europe
L’Europa è il nostro territorio: lo spazio eterogeneo, contraddittorio, striato sul quale territorializzare le lotte.
Questo significa almeno due cose.
La prima: che il processo costituente europeo, pur assumendo l’insieme delle sue contraddizioni e il suo brusco mutamento di direzione nella crisi, ha segnato un punto di non ritorno. Esso ha innescato nella ridefinizione delle geografie del capitale, nella rimodulazione dei ritmi e degli spazi dell’accumulazione, nella reinvenzione delle tecnologie di governo, un salto di scala tale da liquidare il modello socialdemocratico di integrazione e compromesso al quale è stata legata la costituzione nei singoli paesi. La formula dello Stato-nazione – assieme al soggetto sul quale ha fatto perno il suo progetto di cittadinanza: il capofamiglia bianco, maschio, lavoratore a tempo indeterminato – non ha più corso in Europa. Ma, in secondo luogo, cosa intendiamo quando diciamo che l’Europa è il nostro territorio? Che il mondo da tempo non risponde più alle gerarchie tradizionali. E che, proprio per questo, è sul terreno dell’Europa che vanno verificate e sfidate le strategie della governance globale: cioè all’interno di ambivalenti processi di ristratificazione del comando in risposta a quei sommovimenti e a quelle insorgenze del lavoro vivo che ridisegnano le geografie del continente aprendolo in direzione del Mediterraneo e verso Est – ed è questo che ci interessa.
L’Europa è il nostro territorio perché esso ci offre il punto di vista, la prospettiva, dalla quale guardare ai processi che cercano di fissare nuove gerarchie e nuovi dispositivi di accumulazione. E viceversa: perché solo una visione molto più generale e vasta, capace di tenere l’altezza di questi processi, ci mette in grado di riconoscere l’Europa – nella sua limitatezza e nelle acute contraddizioni che la attraversano – come un punto intermedio di articolazione e di snodo della dialettica del capitale globale. Provincializzare l’Europa, dunque: mettere in questione la consistenza del suo progetto di integrazione, analizzare i suoi dispositivi postdemocratici di governo come parte di un molto più vasto processo di riposizionamento dei poteri e delle funzioni del capitale finanziario globale, mappare i contorni delle nuove geografie della valorizzazione e i processi transnazionali della soggettivazione dei governati come chiave per una risignificazione della cittadinanza in chiave «europea» – ci sembra il presupposto irrinunciabile, intransitabile, per aprire la discussione e per rimettere in moto un pensiero ed una pratica politica all’altezza del presente.

2. Management della crisi e decostituzionalizzazione: sulla governance europea
Ciò che ci sembra necessario, innanzitutto, è riconsiderare il processo di integrazione europeo degli ultimi vent’anni. Esso ci sembra caratterizzato, nella continuità di un processo che prende l’avvio con la crisi economica che si apre tra il 2007 e il 2008, da una particolare forma di management della crisi. Quanto entra in crisi è la forma stessa dell’esperienza costituzionale su cui per tutto il Novecento si è retta la specificità del «modello europeo» e che approda, nel secondo dopoguerra, al Welfare State. Da un lato, la crisi fiscale dello Stato, dall’altro quella del modello-fabbrica come schema dell’organizzazione fordista del lavoro e come sistema di integrazione politica e sociale della classe operaia. È su questa doppia crisi che si spezza lo schema virtuoso di reciproco stimolo tra organizzazioni operaie e costituzione sul quale si regge il compromesso che caratterizza il ciclo di espansione dei diritti sociali nella maggior parte dei paesi europei. A partire dagli anni ’80 del Novecento, deindustrializzazione e organizzazione reticolare e diffusa della produzione, terziarizzazione e cognitivizzazione del lavoro, finanziarizzazione dell’economia e del capitale, organizzano la risposta alla crescente ingovernabilità delle fabbriche traducendosi in nuovi dispositivi di cattura della cooperazione sociale. Nuovi saperi e nuove tecnologie del diritto vengono messi in atto per gestire i processi non più allocabili nel quadro della costituzione e dello Stato-nazione. Parlare di decostituzionalizzazione significa, per noi, non soltanto puntare l’attenzione sulle caratteristiche di una produzione di norme e di regolamenti che non rispetta più la tradizionale gerarchia delle fonti del diritto, che incide materialmente sulla vita degli uomini e delle donne senza ancorarsi proceduralmente alla legittimità della decisione democratica, e la cui connotazione esecutiva, amministrativa, cavalca una retorica dell’efficienza che rinvia alla concretizzazione e alla massimizzazione degli scopi più di quanto non faccia invece riferimento ai processi di formazione della volontà generale, ma anche porre l’accento sulle eccedenze e le eterogeneità che segnano l’esercizio contemporaneo dei poteri in Europa e che impediscono di riferire il loro esercizio alla forma della costituzione. Il moltiplicarsi dei livelli e degli attori coinvolti nei processi di governance europea, l’individuazione di campi di «rilevanza costituzionale» oltre il quadro tradizionalmente perimetrato – in dottrina e nella pratica – dalla costituzione, l’impossibilità di ricondurre i processi «tecnici» di giuridificazione ad una decisione ultima o a una «Grundnorm», il doppio sfondamento dei confini che avevano sino ad ora separato la giurisdizione del diritto europeo e quella del diritto nazionale (con le differenze radicali di produzione che segnano l’uno e l’altro), il diritto pubblico e il diritto privato, marcano un insieme di pratiche all’interno dei quali viene destabilizzato l’equilibrio tra sovranazionalismo giuridico e processi politici di negoziazione su cui si era fondato il progetto di integrazione europea. E tuttavia viene con ciò conquistata una soglia che impedisce il ritorno all’indietro. Quando parliamo di management della crisi è questo che intendiamo: la processualità giuridica europea è sempre più nettamente caratterizzata da dinamiche autonome e sempre più postdemocraticamente collegata ad apparati burocratici e a gruppi di interesse.

Il capitalismo fra la pentola delle bolle e la brace della stagnazione

di Sergio Cesaratto

Un cane che si morde: le banche centrali dovrebbero tenere i tassi di interesse nominali a zero cercando di generare inflazione o aspettative di inflazione sì da scoraggiare l’accumulo di risparmi che sarebbero erosi dall’aumento dei prezzi… difficilmente l’inflazione può risvegliarsi se la spesa non riparte; ma consumi e investimenti rimarranno depressi fin tanto che le aspettative sono di una caduta e non di un aumento dei prezzi 

Il presagio di una tendenziale stagnazione del capitalismo è stata avanzato in un intervento al FMI dall’eminente economista di Harvard ed ex segretario al Tesoro americano Larry Summers. Il funesto vaticinio ha scatenato molti commenti nella blogsfera internazionale ed è stato prontamente sottoscritto da Paul Krugman nel suo popolare blog sul New York Times e da Simon Wren-Lewis, un altro influente blogger e macroeconomista a Oxford. In sintesi Summers ha argomentato che il capitalismo può evitare una stagnazione secolare solo se riesce a riprodurre bolle borsistiche o immobiliari simili a quelle che l’hanno sostenuto nel recente passato, sfociate tuttavia nella crisi finanziaria. Come in altre occasioni durante la crisi gli economisti mainstream si accorgono tardi e maldestramente di ciò che gli economisti critici da sempre denunciano.
Per cominciare, la discutibile spiegazione di Summers e colleghi della tendenziale stagnazione secolare del capitalismo è che ciò sia attribuibile al calo demografico e citano al riguardo un influente divulgatore di Keynes di prima generazione, Alvin Hansen. Questi economisti, pur vagamente keynesiani, spiegano così le tendenze secolari del capitalismo rifacendosi alla teoria neoclassica. E questa teoria ritiene che l’economia cresca in piena occupazione al tasso di crescita delle forze di lavoro purché i salari siano flessibili. Questo non appare credibile per chi ritenga sbagliati i fondamenti teorici di quella teoria. Una versione più keynesiana di questa tesi è che una popolazione crescente implichi più domanda di abitazioni e beni di consumo. Ma anche qui non v’è una relazione necessaria, sennò l’Africa sarebbe ricchissima.
Bizzarramente Summers e colleghi attribuiscono al calo demografico anche la diminuzione del tasso di interesse “naturale”, quello al quale la domanda aggregata sarebbe tale da assicurare la massima occupazione compatibile con inflazione costante. Ma al di là delle confusioni teoriche, comunque sorprendenti in star della teoria dominante, la loro opinione è che il tasso di interesse “naturale” di equilibrio sarebbe attualmente negativo, cosicché risparmiatori subirebbero una perdita sui risparmi che li indurrebbe a consumare di più. Allo scopo di far prevalere nei mercati tassi di interesse negativi, le banche centrali dovrebbero dunque tenere i tassi di interesse nominali a zero cercando di generare inflazione o aspettative di inflazione sì da scoraggiare l’accumulo di risparmi che, poco o nulla remunerati, sarebbero erosi dall’aumento dei prezzi. Il risultato sarebbero tassi di interesse reali negativi (nominalmente si ottiene zero mentre l’inflazione mangia il capitale). Anche la BCE sta cercando timidamente di farlo, ma con scarse probabilità di successo. Infatti difficilmente l’inflazione può risvegliarsi se la spesa non riparte; ma consumi e investimenti rimarranno depressi fin tanto che le aspettative sono di una caduta e non di un aumento dei prezzi. Un cane che si morde la coda. Per questo Krugman ritiene che un’aggressiva politica fiscale sia l’unica strada percorribile, favorita peraltro dai bassi tassi a cui gli Stati potrebbero indebitarsi se sostenuti dalle proprie banche centrali.
Che economisti di questa rinomanza indichino nella deficienza della domanda aggregata di lungo periodo la causa della tendenziale stagnazione del capitalismo è certamente apprezzabile. Lo fanno coi mezzi che la loro povera dottrina gli fornisce. Che il problema del capitalismo sia la domanda aggregata è invece pane quotidiano degli economisti critici i più solidi dei quali si rifanno, per spiegarla, alla teoria della distribuzione del reddito degli economisti Classici e di Marx. La maggiore diseguaglianza distributiva aggrava, secondo questi economisti, la deficienza di domanda aggregata. Infatti i capitalisti e i loro attaché non spendono per beni di lusso e investimenti che parte del sovrappiù di cui si appropriano. Questa dimensione sfugge quasi completamente a Summers e colleghi. È in questo contesto che si spiega invece bene il ruolo recente delle bolle finanziarie nello spingere le classi lavoratrici a spendere di più in quanto i risparmi già accumulati – tipicamente a fini pensionistici – si rivalutano rendendo superfluo ulteriore risparmio. E si spiega anche il ruolo di forti stimoli all’indebitamento delle famiglie per sostenere i consumi, incluso l’acquisto agevolato dell’abitazione con conseguente sviluppo di bolle edilizie in cui l’aumento del valore delle abitazioni funge da ulteriore stimolo a indebitamento e consumi.. Che il capitalismo finisca per dover essere guidato da bolle speculative e indebitamento di famiglie o di intere nazioni (in quest’ultimo caso al servizio degli interessi mercantilisti delle élite di alcuni paesi come la Germania), bolle e debiti che culminano in crisi finanziari, non è una sorpresa per gli economisti critici. È il capitalismo, bellezza.

L’Africa e il futuro – Intervista ad Achille Mbembe*

di Thomas M. Blaser

L’ossessione con i confini e i visti, l’emergere del razzismo in varie parti d’Europa, il rafforzamento dei partiti di destra nel contesto della crisi economica, tutto ciò è stato dannoso per lo sviluppo di relazioni produttive e di mutuo beneficio tra Africa ed Europa. L’Europa ha teso a chiudersi in se stessa, mentre gioca ancora un ruolo importante nella politica mondiale, soprattutto quando si tratta di condurre guerre imperialiste

d. Dal 2008, quando avete avviato il Johannesburg Workshop in Theory and Criticism (JWTC), lei era molto preoccupato nel pensare al futuro: perché, e perché adesso? C’è qualcosa nell’epoca attuale che ci impone di pensare al futuro?

r. C’erano due ragioni. La prima era che la categoria di futuro era centrale nella lotta per la liberazione solo nel senso in cui chi vi partecipava doveva costantemente proiettarsi verso un tempo che sarebbe stato diverso da quello che stava attraversando, di cui faceva esperienza. In questo senso la politica riguardava dunque un continuo impegno con le forze del presente che precludevano la possibilità della libertà, ma la politica era anche strettamente associata all’idea di futuro. E ciò che sembra essere accaduto dopo il 1994 [in Sudafrica a partire dalle prime elezioni democratiche dopo l’apartheid], è lo svanire del futuro come un orizzonte temporale della politica e della cultura in generale, e la sua sostituzione con una sorta di presente come approdo infinito. Questo svanimento del futuro e il suo essere rimpiazzato da un presente infinito è stato favorito anche dal tipo di dogma economico con cui viviamo: per dirla in breve, il neoliberalismo. Il tempo del mercato, specialmente nelle attuali condizioni capitaliste, è un tempo estremamente frammentato, ed il tempo del consumo è davvero il tempo dell’istante. Abbiamo quindi voluto recuperare quella categoria del futuro e vedere fino a che punto può essere di nuovo mobilitata nel tentativo di criticare il presente, riaprendo lo spazio non solo per l’immaginazione, ma anche per la politica della possibilità.

d. In un recente convegno ad Avignone lei ha detto che avere un futuro aperto, emancipato, in passato significava separare l’oggetto dal soggetto. Perché non è più possibile? Possiamo immaginare un’altra strada di emancipazione nel momento in cui quella via non sembra più praticabile?

r. É vero che nella tradizione occidentale, della teoria critica, l’emancipazione consiste fondamentalmente nell’operare una distinzione chiara da una parte tra il soggetto umano e l’oggetto, dall’altra tra l’umano e l’animale. L’idea è che il soggetto umano è il padrone, di sé così come del mondo naturale e animale. Egli assoggetta al suo utilizzo i mondi naturali e animali. E quella libertà è il risultato della capacità di dominare se stessi, l’universo e l’agire razionalmente. Sostenevo dunque la tesi che in un’età in cui il capitalismo è diventato una sorta di religione – una religione di oggetti, una religione che crede in oggetti divenuti animati, con un’anima che condividiamo attraverso le operazioni del consumo – il capitalismo è diventato una forma di animismo. In una simile era la vecchia divisione tra soggetto e oggetto non è più così chiara come sembrava ed in effetti era in passato: se osserviamo attentamente le operazioni del consumo mondiale oggi si può vedere che molte persone vogliono diventare oggetti, o essere trattati come tali, se non altro perché diventando un oggetto possono essere trattate meglio rispetto a come sono trattate in quanto umani. Tutto ciò crea una crisi terribile nelle teorie fondamentali dell’emancipazione su cui facevamo affidamento per sviluppare una politica di apertura ed eguaglianza. Ecco dunque la questione che ho sollevato, il mio pensiero su questo punto non è andato oltre.

d. Spostiamoci più direttamente nel continente africano. Dal 2008, a causa anche della crisi economica in Occidente, si parla molto di “ascesa africana”. La gente ora parla delle possibilità del continente. Ha a che fare con la ricerca da parte del capitalismo globale di ulteriori posti da sfruttare? Il capitalismo sta tentando di avanzare in luoghi che non sono stati del tutto penetrati in precedenza? É quello che sta accadendo ora, o forse c’è qualcosa di più positivo che sta venendo fuori da questa recente svolta del capitalismo globale in Africa?

r. É vero che c’è un grande cambiamento nel discorso globale sull’Africa, uno spostamento dal discorso della crisi e dell’emergenza che ha dominato l’ultimo quarto del XX secolo, verso l’attuale ottimismo basato su alcuni fatti concreti. Ne sono degli esempi i più alti livelli di crescita economica osservati negli ultimi decenni in Africa, le grandi trasformazioni demografiche nel continente, gli elevati tassi di rendimento e perciò la capacità di attrarre l’attenzione di investitori stranieri con una velocità mai vista prima, il fatto che sta riemergendo come forza economica il ceto medio che era stato decimato nel periodo dei programmi di aggiustamento strutturale. C’è quindi un insieme di indicatori che sembra suggerire l’emergere di qualcosa di differente rispetto a quello cui abbiamo assistito in passato. Bisogna anche considerare il fatto che un gran numero di investimenti sono fatti nei settori estrattivi dell’economia e perciò sono soggetti alla volatilità e ai cambiamenti che caratterizzano non solo il ciclo economico in generale, ma specialmente questo settore. Qui c’è un boom minerario di importante entità, della cui durata non siamo sicuri. Chiaramente, un certo numero di persone si stanno arricchendo, sia sul piano locale, sia quelli che vengono a investire nel continente. Ma il risultato – o il paradosso – di questo tipo di crescita è che, come sappiamo, non sta creando molti posti di lavoro, approfondisce le ineguaglianze sociali, mentre l’Africa sta ancora affrontando sfide enormi in termini di investimento nelle infrastrutture di base, nelle strade, nelle comunicazioni, negli aeroporti, nelle autostrade e nelle ferrovie. Inoltre, il continente è ancora minacciato dall’instabilità politica, tanto nella forma delle guerre locali, quanto in quella del disordine sociale. Il quadro generale deve essere bilanciato, mi sembra che l’Africa rappresenti infatti l’ultima frontiera del capitalismo. Il problema è in quali condizioni saranno portate avanti queste nuove forme di sfruttamento, da chi e a beneficio di chi.