di
Thomas M. Blaser
L’ossessione
con i confini e i visti, l’emergere del razzismo in varie parti d’Europa, il
rafforzamento dei partiti di destra nel contesto della crisi economica, tutto
ciò è stato dannoso per lo sviluppo di relazioni produttive e di mutuo
beneficio tra Africa ed Europa. L’Europa ha teso a chiudersi in se stessa,
mentre gioca ancora un ruolo importante nella politica mondiale, soprattutto
quando si tratta di condurre guerre imperialiste
d.
Dal 2008, quando avete avviato il Johannesburg Workshop in Theory and
Criticism (JWTC), lei era molto preoccupato nel pensare al
futuro: perché, e perché adesso? C’è qualcosa nell’epoca attuale che ci impone
di pensare al futuro?
r.
C’erano due ragioni. La prima era che la
categoria di futuro era centrale nella lotta per la liberazione solo nel senso
in cui chi vi partecipava doveva costantemente proiettarsi verso un tempo che
sarebbe stato diverso da quello che stava attraversando, di cui faceva
esperienza. In questo senso la politica riguardava dunque un continuo impegno
con le forze del presente che precludevano la possibilità della libertà, ma la
politica era anche strettamente associata all’idea di futuro. E ciò che sembra
essere accaduto dopo il 1994 [in Sudafrica a partire dalle prime elezioni
democratiche dopo l’apartheid], è lo svanire del futuro come un orizzonte
temporale della politica e della cultura in generale, e la sua sostituzione con
una sorta di presente come approdo infinito. Questo svanimento del futuro e il
suo essere rimpiazzato da un presente infinito è stato favorito anche dal tipo
di dogma economico con cui viviamo: per dirla in breve, il neoliberalismo. Il
tempo del mercato, specialmente nelle attuali condizioni capitaliste, è un
tempo estremamente frammentato, ed il tempo del consumo è davvero il tempo
dell’istante. Abbiamo quindi voluto recuperare quella categoria del futuro e
vedere fino a che punto può essere di nuovo mobilitata nel tentativo di
criticare il presente, riaprendo lo spazio non solo per l’immaginazione, ma
anche per la politica della possibilità.
d.
In un recente convegno
ad Avignone lei ha detto che avere un futuro aperto, emancipato, in
passato significava separare l’oggetto dal soggetto. Perché non è più
possibile? Possiamo immaginare un’altra strada di emancipazione nel momento in
cui quella via non sembra più praticabile?
r.
É vero che nella tradizione occidentale,
della teoria critica, l’emancipazione consiste fondamentalmente nell’operare
una distinzione chiara da una parte tra il soggetto umano e l’oggetto,
dall’altra tra l’umano e l’animale. L’idea è che il soggetto umano è il
padrone, di sé così come del mondo naturale e animale. Egli assoggetta al suo
utilizzo i mondi naturali e animali. E quella libertà è il risultato della
capacità di dominare se stessi, l’universo e l’agire razionalmente. Sostenevo
dunque la tesi che in un’età in cui il capitalismo è diventato una sorta di
religione – una religione di oggetti, una religione che crede in oggetti
divenuti animati, con un’anima che condividiamo attraverso le operazioni del
consumo – il capitalismo è diventato una forma di animismo. In una simile era
la vecchia divisione tra soggetto e oggetto non è più così chiara come sembrava
ed in effetti era in passato: se osserviamo attentamente le operazioni del
consumo mondiale oggi si può vedere che molte persone vogliono diventare
oggetti, o essere trattati come tali, se non altro perché diventando un oggetto
possono essere trattate meglio rispetto a come sono trattate in quanto umani.
Tutto ciò crea una crisi terribile nelle teorie fondamentali dell’emancipazione
su cui facevamo affidamento per sviluppare una politica di apertura ed
eguaglianza. Ecco dunque la questione che ho sollevato, il mio pensiero su
questo punto non è andato oltre.
d.
Spostiamoci più direttamente nel continente africano. Dal 2008, a causa
anche della crisi economica in Occidente, si parla molto di “ascesa africana”.
La gente ora parla delle possibilità del continente. Ha a che fare con la
ricerca da parte del capitalismo globale di ulteriori posti da sfruttare? Il
capitalismo sta tentando di avanzare in luoghi che non sono stati del tutto
penetrati in precedenza? É quello che sta accadendo ora, o forse c’è
qualcosa di più positivo che sta venendo fuori da questa recente svolta del
capitalismo globale in Africa?
r.
É vero che c’è un grande cambiamento nel
discorso globale sull’Africa, uno spostamento dal discorso della crisi e
dell’emergenza che ha dominato l’ultimo quarto del XX secolo, verso l’attuale
ottimismo basato su alcuni fatti concreti. Ne sono degli esempi i più alti
livelli di crescita economica osservati negli ultimi decenni in Africa, le
grandi trasformazioni demografiche nel continente, gli elevati tassi di
rendimento e perciò la capacità di attrarre l’attenzione di investitori
stranieri con una velocità mai vista prima, il fatto che sta riemergendo come
forza economica il ceto medio che era stato decimato nel periodo dei programmi
di aggiustamento strutturale. C’è quindi un insieme di indicatori che sembra
suggerire l’emergere di qualcosa di differente rispetto a quello cui abbiamo
assistito in passato. Bisogna anche considerare il fatto che un gran numero di
investimenti sono fatti nei settori estrattivi dell’economia e perciò sono
soggetti alla volatilità e ai cambiamenti che caratterizzano non solo il ciclo
economico in generale, ma specialmente questo settore. Qui c’è un boom
minerario di importante entità, della cui durata non siamo sicuri. Chiaramente,
un certo numero di persone si stanno arricchendo, sia sul piano locale, sia
quelli che vengono a investire nel continente. Ma il risultato – o il paradosso
– di questo tipo di crescita è che, come sappiamo, non sta creando molti posti
di lavoro, approfondisce le ineguaglianze sociali, mentre l’Africa sta ancora
affrontando sfide enormi in termini di investimento nelle infrastrutture di
base, nelle strade, nelle comunicazioni, negli aeroporti, nelle autostrade e
nelle ferrovie. Inoltre, il continente è ancora minacciato dall’instabilità
politica, tanto nella forma delle guerre locali, quanto in quella del disordine
sociale. Il quadro generale deve essere bilanciato, mi sembra che l’Africa
rappresenti infatti l’ultima frontiera del capitalismo. Il problema è in quali
condizioni saranno portate avanti queste nuove forme di sfruttamento, da chi e
a beneficio di chi.
d.
L’Africa è nota per violenti conflitti che fanno regredire il
continente: pensa che ci sia la possibilità che gli africani superino questo
tipo di politica violenta?
r.
Non lo so. Può darsi che dovremo
convivere con la violenza, proprio come abbiamo visto altre comunità politiche
convivere con essa per un periodo di tempo molto, molto lungo. La Colombia è in
uno stato di guerra interna da un lungo periodo. In Messico è più o meno la
stessa cosa, lì la violenza sta assumendo forme diverse. In posti come il Brasile,
l’India o il Pakistan c’è un livello di violenza sociale piuttosto elevato e va
di pari passo con le istituzioni della politica civile, se si vuole usare
questo termine. Se dunque assumiamo un punto di vista storico, non ci sarà mai
un momento in cui saremo in pace con noi stessi e con i nostri vicini, e il
tipo di formazioni sociali, economiche e politiche che stanno emergendo nel
continente e anche altrove saranno sempre un miscuglio di pace civile e
violenza. Ma una volta detto questo, mi sembra che una delle principali sfide
nel continente sia la demilitarizzazione della politica. Il progetto della
demilitarizzazione della politica è una precondizione per un regime di crescita
economica da cui possano trarre beneficio il maggior numero di persone. Per il
momento, della combinazione di militarismo e mercantilismo in posti come il
Congo, anche in regimi plutocratici come la Nigeria, stanno beneficiando
esclusivamente le èlites predatorie e le multinazionali.
d.
Lei è stato un critico del ruolo dell’Europa e dei continui rapporti
coloniali che ha mantenuto. Allo stesso tempo, l’Europa si sta quasi spegnendo,
e come ha scritto sta provincializzando se stessa. Questa Europa che sta
emergendo è in duro contrasto con l’Africa e gli altri paesi in via di sviluppo
che stanno avanzando economicamente, socialmente e politicamente, creando così
il proprio mondo?
r.
In rapporto al continente, nel corso
degli ultimi 25 anni o giù di lì l’Europa ha sviluppato un’attitudine al
contenimento, nel senso che la sua maggiore preoccupazione è quella di essere
sicuri che gli africani stiano dove sono. La fissazione con la questione
dell’immigrazione ha compromesso in larga misura lo sviluppo di relazioni più
dinamiche tra Africa ed Europa. L’ossessione con i confini e i visti, l’emergere
del razzismo in varie parti d’Europa, il rafforzamento dei partiti di destra
nel contesto della crisi economica, tutto ciò è stato dannoso per lo sviluppo
di relazioni produttive e di mutuo beneficio tra Africa ed Europa. L’Europa ha
teso a chiudersi in se stessa, mentre gioca ancora un ruolo importante nella
politica mondiale, soprattutto quando si tratta di condurre guerre
imperialiste. Al contempo, abbiamo visto in quale misura nuovi attori come
Cina, India, Turchia, Brasile e qualche altro paese hanno provato a giocare un
ruolo nella riconfigurazione politica in corso. Tuttavia, in ultima analisi la
sfida per l’Africa è di diventare il centro di se stessa. Per farlo, come ho
detto prima, è necessario demilitarizzare la politica come precondizione per la
democratizzazione dell’economia. Il continente dovrà diventare un vasto spazio
regionale di circolazione, il che significa che dovrà smantellare i propri
confini interni, aprirsi a nuove forme di migrazione, interne ed esterne, come
in certa misura sta succedendo in Mozambico e in Angola, dove stanno facendo
ritorno alcuni portoghesi. Mentre l’Europa chiude i suoi confini, l’Africa deve
aprire i propri. Mi sembra quindi che solo nel divenire un vasto spazio di
circolazione l’Africa possa beneficiare positivamente dell’attuale
riconfigurazione geopolitica del mondo.
d.
In questa riconfigurazione, ciò che sta bloccando il continente è forse
l’immagine stereotipata che europei e americano hanno dell’Africa e del suo
popolo. Di recente, quando il sociologo Jean Ziegler ha presentato il suo libro
sulla crisi alimentare globale, un giornalista svizzero gli ha chiesto se la
bassa produttività dell’agricoltura in Africa dipenda dalla pigrizia dei
contadini africani: si tratta davvero di uno stereotipo, se non di un’affermazione
razzista, ma mi sembra che un simile pregiudizio sia comune tra gli europei.
Gli africani dovrebbero preoccuparsi di questa immagine oppure ignorarla?
r.
Penso che dovremmo lasciare agli europei
il problema di affrontare le loro stupidaggini, perché noi dobbiamo affrontare
compiti e progetti più urgenti. Non possiamo permetterci di perdere le nostre
preziose energie con il tipo di malattia mentale che l’Europa ha causato in
Africa e altrove. Deve essere l’Europa a fare i conti con le proprie malattie
mentali, prima tra tutte il razzismo. Quello su cui dobbiamo concentrarci è
l’agenda africana nel mondo che si sta plasmando di fronte a noi, un mondo in
cui la Cina sta emergendo come un attore di primaria importanza, un mondo in
cui l’unica proposta che viene dal morente impero americano è più militarismo,
un mondo in cui la sola idea che arriva dall’Europa è il ritrarsi e la
costruzione di una fortezza che la circonda. L’Africa ha bisogno di diventare
il centro di se stessa, mettendo la sua gente a lavorare per questo obiettivo.
Come dicevo, re-immaginare una nuova politica della mobilità con migrazioni
interne, formazioni di nuove diaspore, collegamenti con quelle vecchie, un
ridirezionamento delle energie al fine di attingere quelle provenienti da altri
posti nel mondo, come il Brasile, l’India e la Cina. Tutto ciò mi sembra più
eccitante rispetto al vecchio e fallito tentativo di portare l’Europa a vedere
se stessa come qualcosa di più che una semplice provincia di un pianeta più
ampio.
d.
Qual è allora il contributo africano al mondo futuro? Specialmente
avendo in mente l’idea che ci stiamo allontanando da un mondo in cui l’Africa
dipende da altri. Quali vie diverse può offrire l’Africa al mondo (prima
parlava dei modi di circolazione)? In questo movimento, quale ruolo giocano le
concezioni indigene di umanità, come quella Ubuntu?
r.
Da un punto di vista teorico, ci sono
numerose possibilità. Quando guardiamo alla storia culturale del continente, mi
sembra che sia caratterizzata da almeno tre attributi che possono essere
considerati concettualmente creativi. Il primo è l’idea di molteplicità. Ogni
singola cosa del continente è nel segno del molteplice: l’idea di un dio è
totalmente estranea al continente, ci sono sempre stati molti dei; le forme del
matrimonio; le forme delle valute; le stesse forme sociali sono sempre nel
segno della molteplicità. Una delle tragedie del colonialismo è stata di
cancellare quell’elemento di molteplicità che era sempre stato una risorsa
dello sviluppo sociale nell’Africa pre-coloniale e che è stato rimpiazzato dal
paradigma dell'“uno”, il tipo di paradigma monoteistico. Dunque, come possiamo
ritrovare l’idea di molteplicità appunto come risorsa per il farsi del
continente, il suo ricrearsi, ma anche per la formazione del mondo? Un altro
importante concetto che non abbiamo esplorato molto, ma che viene dalle
esperienze culturali della storia africana, è quello dei modi di circolazione e
della mobilità, del movimento. Non era affatto vero, come sostenevano Hegel e
coloro che l’hanno seguito, che l’Africa fosse un continente chiuso, per nulla.
É sempre stato un continente in movimento. Quel concetto di circolazione è
dunque qualcosa che può essere mobilitato per mostrare cosa può venire fuori da
questa esperienza. Ho parlato prima di molteplicità, poi di circolazione: il
terzo elemento è la composizione. Tutto è composizionale, nel modo in cui
l’economia è quotidianamente vissuta. Lei ha citato Ubuntu: significa il
processo di diventare una persona, una certa proposizione, non è l’identità in
quanto categoria metafisica o ontologica come nella tradizione occidentale, ma
un processo del divenire come relazione; una relazione in cui l’“io”, cioè il
soggetto, è fatto e rifatto attraverso l’interazione etica con quello o con chi
non è lui. É l’idea per cui l’altro è un altro me, l’altro è l’altro solo nella
misura in cui lui o lei è un altro me. Perciò l’altro non è fuori da me, in un
certo senso io sono il mio altro. C’è quindi un intero insieme di aree in cui
il contributo dell’Africa al mondo delle idee e della prassi può essere
evidenziato a beneficio del mondo, che implicano tutte queste cose: teorie
dello scambio, teorie della democrazia, teorie dei diritti umani, i diritti
delle altre specie, incluse le specie naturali in questa età di crisi
ecologica. É un lavoro che non è stato fatto, ma è tempo di iniziare a farlo.
* Pubblicato su Africa is a Country. Traduzione di commonware