-Antonio Minaldi - Un fantasma si aggira per l’Europa e per l’intero Occidente
ma non è quello del comunismo
Un fantasma si aggira per l’Europa e per l’intero Occidente, ma non è quello del comunismo. La tragedia prossima ventura che viene paventata e che toglie il sonno alle nostre classi dirigenti, (ma che come un virus malevolo si insinua in ogni dove, anche tra i meno abbienti), porta il nome di “grande sostituzione”. Si tratterebbe del pericolo ritenuto ormai imminente, di una vera e propria sostituzione etnica come esito finale della grande pressione migratoria che spinge ormai da tempo i neri africani verso l’Europa, ma che per altri versi riguarda anche gli Stati Uniti alle prese con la frontiera messicana_
Prima di
ogni altra considerazione ci piace sottolineare come, per certi versi le
attuali preoccupazioni rappresentino una sorta di nemesi storica. È stato
proprio l’uomo bianco ed europeo che a partire dagli inizi della modernità,
dalla cosiddetta scoperta dell’America in poi, ha globalizzato il mondo
imponendo la propria presenza in ogni angolo della terra, e condizionando in
modo determinante la storia dell’intera umanità e dei singoli popoli, a volte
perpetrando dei veri e propri etnocidi come nel caso dei nativi americani,
altre volte entrando in rotta di collisione con grandi civiltà come ad esempio
quelle del profondo oriente o del mondo islamico, in un tentativo di imporre i
propri modelli culturali mai andato completamente in porto, e determinando un
rapporto di incontro scontro che è tuttora in corso.
Sin
dall’inizio della modernità, e parallelamente allo svolgersi di tali eventi, ci
si è interrogati su due grandi questioni. La prima riguardava la domanda:
“Esiste un diritto a migrare?”. Inutile dire che fin tanto che a spostarsi (e
nel caso specifico a conquistare e devastare) erano i bianchi europei, la
risposta non poteva che essere positiva, motivata o con la pretesa di “portare
la civiltà” (anzi alle origini la “vera religione”) a popolazioni ritenute
inferiori, oppure col diritto di occupare ciò che era considerato res nullius, nel
caso in cui quelle popolazioni, più che come inferiori, fossero pensate come
sostanzialmente inesistenti, o irrilevanti, rispetto ad una qualche presunta
idea di “civiltà umana”. Fatto sta che la possibilità di migrare era ancora considerata
un diritto all’inizio del secolo scorso, quando si facevano piani che
prevedevano l’occupazione in massa delle terre africane da parte delle
popolazioni bianche europee, in una situazione demografica che era l’esatto
opposto di quella attuale. (120 milioni la popolazione dell’Africa nel 1900 a
fronte di 425 milioni di europei. Oggi in Africa sono 1,4 miliardi e sono in
costante crescita, mentre l’Europa è praticamente ferma al
palo).
. L’altra domanda,
strettamente legata alla prima sul diritto a migrare, che gli invasori bianchi
si ponevano era “Chi è l’altro, col quale devo confrontarmi?”. “Chi sono i
barbari o i selvaggi?” “Sono uomini come lo siamo noi o sono qualcosa di
diverso?”. Tutte le diverse visioni che ancora oggi animano il dibattito
culturale e lo scontro politico, erano già tutte presenti sin da quei tempi
lontani. Dal razzismo all’identitarismo escludente, fino al relativismo
culturale con la sola esclusione del meticciato culturale. Cosa, quest’ultima,
che per la verità può apparire alquanto strana se solo si considera che proprio
la civiltà europea, che diveniva allora egemone a livello globale, in realtà
era nata da un grande incontro tra culture diverse. Ci riferiamo a quella
fusione tra mondo romano e mondo barbarico, che, agevolata dalla diffusione del
cristianesimo, fu talmente radicale da rendere indistinguibili i popoli
d’origine, dando inizio alla moderna civiltà occidentale con tutti i suoi mali,
ma anche con la sua intrinseca grandezza.
Aprirsi
oggi al confronto con l’altro, sostanzialmente rappresentato dalla figura del
“migrante”, sarebbe questione fondamentale ma pure irta di difficoltà, anche a
prescindere dalla possibilità del realizzarsi di un vero e proprio meticciato
culturale, o addirittura del caso limite della nascita di un mondo totalmente
nuovo, figlio di una positiva fusione “bastarda”. Una immagine, quest’ultima,
che fa pensare a come si genera la vita, quando due genitori tra loro molto
differenti mettono insieme il loro patrimonio genetico per dare alla luce un
essere che gli somiglia, ma che è anche da loro sostanzialmente diverso. Nel
mondo delle appartenenze sociali e culturali, che generano quegli aggregati
chiamati in genere “popoli” o “etnie”, termini per altro alquanto amkbigui, le
cose sono però più difficili e complesse. A differenza dello stare insieme
della procreazione che, proiettandosi verso il futuro, fa pensare alla
riproduzione, seppure mediata, di sé, l’incontro con l’altro rimanendo legato
alla contingenza del presente, genera la paura della perdita in termini di
valori, di cultura e di identità.
In
verità questa attenzione alla salvaguardia di sé, in quanto tale, è un dato
naturale, e può dunque essere coniugato sia in senso positivo che in senso
negativo. In ogni caso l’incontro con l’altro non può essere determinato da una
totale messa in discussione di sé, figlia di un completo darsi. In gioco vi è
sempre, e necessariamente, un rapporto dialettico di incontro e scontro, di
dare ed avere, di perdita e di acquisizione. Se considerato nella sua
prospettiva astrattamente ed idealmente più positiva, e dunque nel suo esito
migliore, è come se, oltre le soggettività in gioco e le loro scelte
particolaristiche e spesso antagoniste, si determinasse un processo in cui, nel
darsi dei tempi lunghi della relazione, il meglio, o solo ciò che è possibile e
più adatto, finisse per prevalere sul meno buono, o su ciò che è semplicemente
più difficile e meno fattibile. Un processo al cui punto d’arrivo ideale non
sta la semplice tolleranza, intesa come sola accettazione e convivenza, ma il
coesistere delle diversità entro un quadro che deve essere necessariamente di
comune e convinta adesione a valori etici primari, universalmente acquisiti
come indisponibili e costitutivi. Valori che non possono mai essere oggetto di
possibili contrattazioni, in quanto da considerare come le basi fondative della
comunità, o dell’insieme plurale delle comunità coesistenti e in qualche modo
tra loro confederate.
La
possibilità che l’incontro con l’altro possa produrre i suoi esiti più
positivi, anche oltre le difficoltà e le incomprensioni che sempre si generano
lungo il cammino, deve comunque fare i conti con due macro problematiche, che
usualmente si pongono, anche variamente intrecciandosi tra loro.
La
prima riguarda il fatto che lo scontro non si genera solo rispetto ai grandi
valori ideali, ma anche in riferimento agli interessi materiali, in relazione
ai quali c’è sempre qualcuno che ha qualcosa da perdere più dell’altro. La
seconda questione riguarda il fatto che in ogni processo che non può cancellare
a priori la possibilità di potere degenerare in scontro, c’è sempre qualcuno
che ha il vantaggio di essere più forte (o di credere di esserlo) e di potere
pensare di fare valere questo suo privilegio.
Tutte
queste questioni entrano oggi in gioco rispetto all’attuale panico da Grande
Sostituzione che attanaglia l’Occidente. Alla base di tutto credo ci sia la
crisi che inevitabilmente e progressivamente attanaglia il mondo occidentale
che sempre più si rende conto di vivere la propria decadenza attraverso la
perdita di quella centralità che ne ha fatto per più di cinque secoli il
padrone del mondo. Si tratta di qualcosa che nella sua essenzialità appare come
inevitabile. In fondo la superiorità dell’Occidente e la sua capacità di porsi
come dominatore incontrastato, si sono storicamente determinate grazie alle
dinamiche legate alla nascita e allo sviluppo della moderna società
capitalista, al suo modo di produrre, appropriarsi e accumulare la ricchezza,
allo sviluppo del sapere scientifico e della tecnologia, agli strumenti di
comando e controllo sociale legati alla nascita dello Stato moderno. Ma nulla
di tutto questo rappresenta oggi un vantaggio esclusivo. Il resto del mondo, a
cominciare dalle élites che si sono formate inizialmente come complici del
dominio occidentale, ha imparato la lezione, e come sempre è avvenuto nella
storia, ha copiato il più forte per rubargli l’arte e gli strumenti che
rendevano possibile la sua forza. I modi della produzione e della rapina della
ricchezza, la scienza e la tecnologia più avanzate, l’arte del dominio
statalista fino alla guerra come sua estrema conseguenza, non sono più
esclusivo monopolio dell’Occidente, e non possono perciò rappresentare armi
decisive della sua volontà di perpetrare il suo dominio e il suo controllo su
tutte le cose.
Le
dinamiche tipiche della geopolitica contemporanea vedono la costante crescita
di nuove potenze rispetto all’Occidente, e agli USA che ne rappresentano il
cuore pulsante a datare dalla fine del secondo conflitto mondiale. Il dominio
americano nello specifico è stato in grado di perpetrare da allora il proprio
posizionamento dominante nel contesto globale, grazie al ruolo incrociato e
centrale del dollaro sui mercati finanziari e del proprio esercito negli
scenari di guerra. Si dice a questo proposito che lo strapotere dell’esercito
si basa sul dollaro e quello del dollaro sulla forza militare. A tal riguardo è
oggi plausibile dire che l’attuale crisi dell’Occidente si può misurare dalle
crescenti difficolta che il dollaro sta da tempo palesando come moneta degli
scambi internazionali e come riserva di valore dei singoli Stati. Segno
evidente del venire meno della illusione, figlia della fine dell’URSS e del
blocco sovietico, di un mondo unipolare a dominio USA capace di perpetrarsi
indefinitivamente nel tempo. La nascita dei BRICS+ e la sempre maggiore
spregiudicatezza da parte dei paesi emergenti di sapere giocare su più tavoli
nella difesa dei propri interessi ne sono la dimostrazione.
Sembrerebbe
che oggi il vero campo in cui forse è possibile marcare una reale superiorità
strategica dell’Occidente a trazione USA sia quello della potenza militare, e
dunque quello che in ultima istanza porta alla guerra come strumento estremo di
dominio. Non sarà certamente un caso se gli USA con circa il 4% della
popolazione mondiale hanno una spesa militare che sfiora il 40% di una spesa
globale che è costantemente in crescita, soprattutto in Europa (dati 2022. fonte
SIPRI). Una costatazione che appare veramente inquietante, anche perché la
guerra può sortire tutto il suo potenziale di riaffermazione della propria
forza dominante, anche venendo semplicemente minacciata come possibilità,
quando il proprio dominio globale non è messo in discussione. Ben altra è la
questione quando la situazione è tale che la potenza militare è tendenzialmente
la sola o la principale arma che rimane da mettere in campo. In questo caso la
guerra non puoi solo minacciarla per riaffermare lo status quo che ti vede
dominante, ma devi farla effettivamente per ribadire il tuo ruolo di potere,
che ti sta sfuggendo di mano. L’attuale situazione di crisi che attraversa
l’Occidente, e gli USA in particolare, fanno pensare più alla possibilità della
guerra come soluzione di un incerto equilibrio geopolitico, piuttosto che ad
una pace armata segno di precise e consolidate gerarchie tra Stati.
Sin
dall’epoca del mondo bipolare, quando ancora l’Unione Sovietica era una grande
potenza, si pensa che il migliore antidoto contro la guerra sia
l’irreparabilità del suo potenziale distruttivo. Ma questa è sostanzialmente
una illusione. Innanzitutto perché la pura razionalità non è mai stata il vero
motore della storia (della guerra poi neanche a parlarne!). In secondo luogo
perché comunque sia, “l’equilibrio del terrore”, come si diceva una volta, come
si evince dallo stesso significato macabro delle parole, non potrà mai essere
il fondamento di una vera pace duratura. Infine perché i modi in cui si può
dare una guerra mondiale non sono univoci, e possono prevedere per esempio
l’uso di armi nucleari tattiche, oppure il prodursi della cosiddetta “guerra a
pezzi” o della guerra decentrata ecc. Tutto questo senza considerare che
comunque pare molto difficile pensare che in situazioni estreme chi possiede
armi nucleari decida di non usarle quando la possibilità della sconfitta
dovesse farsi concreta.
In fin
dei conti l’unico vero e definitivo ostacolo alla guerra è il suo esatto
contrario, vale a dire la rivoluzione, qui intesa come la forza ideale di un
desiderio di ribaltamento globale dell’esistente e delle sue contraddizioni
legate alle pratiche di dominio e di guerra, che si materializza in qualche
modo come capacità vincente. Tuttavia anche a prescindere da questa estrema e
definitiva ipotesi di soluzione ai mali del presente, resta il fatto che
nessuna guerra sarà mai possibile se non sarà in grado di avere dalla sua parte
una opinione pubblica favorevole, o quanto meno incerta o spaccata, o anche
solamente passiva. La questione del formarsi dell’opinione pubblica e del
comune sentire nell’ambito del mondo Occidentale è questione complessa che
mette in gioco il ruolo ormai storico dei media e quello più recente dei social,
rispetto al controllo sul modo di formarsi delle idee e sulla loro
circolazione. Tuttavia, al di là delle tecniche e degli artifici della
comunicazione, ciò che in ultima analisi rende possibile il formarsi di un
pensiero condiviso è la comune appartenenza ad un contesto sociale dato e di
conseguenza ad un comune modello antropologico che definisce e regola credenze
e comportamenti. È a questo modello antropologico diffuso che dedicheremo ora
le nostre attenzioni per comprendere fino a che punto esso possa essere
antagonista o complice delle élites occidentali e della loro propensione verso
la guerra e la catastrofe come risposta alla crisi e alla decadenza. Lo
chiameremo homo occidentalis.
Chiariamo
subito che l’idea stessa di un modello antropologico di riferimento comportamentale
socialmente diffuso, è per sua natura interclassista e generica. La sua
specificità e forza euristica sta proprio nella capacità di sapere cogliere i
tratti comuni del sentire e del fare che sono capaci di imporsi oltre le
differenze di status, di classe, di appartenenza sociale, ma anche di credenze
politiche e religiose e di altre e più particolari caratterizzazioni culturali.
Va da sé che questo tipo di appartenenza che si manifesta spesso attraverso
atteggiamenti spontanei e poco consapevoli, può entrare in crisi, e a limite ed
in gran parte dissolversi, di fronte alla consapevolezza della scelta
soggettiva di tipo etico o politico che muta lo stato di cose di cui siamo
parte, ponendosi innanzitutto come capacità di cambiare se stessi. L’homo occidentalis
è dunque un modello astratto che indica una precondizione comune e irriflessa
che in qualche modo condiziona comunque le soggettività sociali, e che può
divenire più o meno centrale, ed al limite tendere ad assolutizzarsi, in
situazioni di scarsa consapevolezza delle proprie scelte.
Il
volto più noto che a partire dagli anni ottanta del secolo scorso ha assunto l’homo
occidentalis è quello conosciuto come homo oeconomicus, l’imprenditore di se
stesso che interpreta la vita come un luogo di guerra continua con l’altro per
l’affermazione egoistica di sé. L’autoriconoscimento come semplice espressione
del successo e del prevalere in un mondo ridotto a puro scontro tra
competitori. La logica della competizione di mercato posta fuori di sé come modello
universale delle relazioni umane. Un tipo di involuzione che ha segnato la
vittoria del neo liberismo e che è stata possibile radicalizzando in senso
egoistico quella tensione verso la valorizzazione e l’autovalorizzazione delle
singolarità che è effettivamente una caratteristica del modello antropologico
prodotto dalla storia dell’Occidente. Gli stessi diritti umani, vanto e fiore
all’occhiello del mondo occidentale, sono il prodotto di questa attenzione nei
confronti dell’individuo e della sua realizzazione sociale. Tuttavia, nel corso
della storia essi sono stati oggetto di scontro tra diverse interpretazioni,
che possiamo schematizzare in due diverse tendenze: da un lato sta una lettura
laico rivoluzionaria che vede i diritti della persona come processo di
liberazione dai condizionamenti sociali e dall’oppressione classista, sessista
e d’ogni altro tipo, verso il definirsi di una libertà che pone l’individuo di
fronte al dovere di essere responsabile nei confronti della comunità ai fini di
una crescita collettiva. Un percorso lungo il quale i diritti di libertà e di
partecipazione politica democratica non possono non trovare necessario
compimento nell’affermazione dei diritti sociali, attraverso i quali l’idea di
libertà si incontra in un reciproco realizzarsi, con l’idea d’uguaglianza.
Dall’altro lato, da parte delle forze della conservazione, si è sempre data una
lettura dei diritti di libertà che ne facevano delle semplici regole del gioco
della competizione sociale, una sorta di pari opportunità formali tra
concorrenti.
Questo
scontro tra differenti visioni del mondo, anche radicalmente contrapposte,
seppure all’interno del costituirsi di uno stesso modello culturale e
antropologico che ha il suo riferimento nella comunità d’appartenenza, non si
determina solo attraverso il prodursi della piena consapevolezza della
coscienza, ma anche grazie alla forza mitica e irrazionale del costituirsi di
un immaginario collettivo proiettato nella speranza di un futuro migliore da
conquistare. L’homo oeconomicus, ad esempio, si è imposto trovando la sua forza
nell’ipotesi, illusoria per la stragrande maggioranza dei soggetti, che una
società aperta possa dare a tutti una opportunità di affermazione e di successo
personale, con la conseguenza che la mancata scalata sociale, ma anche il
semplice permanere in una condizione di minorità e di esclusione, venga
tendenzialmente percepito, in un’ottica di solipsismo sociale, come una
sconfitta personale di cui si portano da soli la colpa e le conseguenze.
Dinamiche
in qualche modo simili hanno agito anche rispetto alle ipotesi di cambiamento
rivoluzionario, entro le quali l’autovalorizzazione individuale di sé, tipica
espressione storica del mondo occidentale, era coniugata in modo da essere
proiettata verso una dimensione di realizzazione collettiva ed egualitaria.
Anche le ipotesi di trasformazione radicale hanno potuto avvalersi in un
passato, ancora relativamente recente, dei loro miti che possono essere
esemplificati da espressioni come ad esempio l’agognato “Sol dell’avvenir”, a
marcare il sentimento di una speranza poi venuta meno insieme alla fine
dell’esperienza del socialismo sovietico.
Di fronte
alla percezione della decadenza che affligge, in modo ormai fortemente
significativo, il mondo occidentale, anche la paura per la grande sostituzione
etnica che viene annunciata, tende ad occupare l’immaginario collettivo, con
una caratterizzazione fortemente mitica ed irrazionale. Un processo che può
contare su diverse circostanze che tendono a favorirlo.
Va
Innanzitutto sottolineato come nei periodi di crisi e di maggiore incertezza
verso il futuro, il sentire comune e l’opinione pubblica media che ne è la più
immediata manifestazione, tendono a reagire ai pericoli attraverso la
radicalizzazione di idee e sentimenti, e infine di posizioni politiche. In
questo quadro la crisi della sinistra storica e il crollo di un immaginario
rivoluzionario giocano un ruolo centrale, lasciando campo libero all’affermarsi
di valori (o meglio disvalori), posture culturali e ipotesi politiche sempre
più tendenti verso una destra estrema, seppure per molti versi di tipo
nuovo.
Il
concetto stesso di sostituzione etnica è di destra.
È
certamente vero che l’identità come sentimento di appartenenza è questione
fondante e irrinunciabile dell’esistenza umana. Tuttavia se tale riconoscimento
di sé e del proprio ambito d’esistenza, sente la necessità di ricorrere ad una
riaffermazione radicalizzata dei caratteri, vero o presunti, della propria
etnia, allora, il più delle volte, l’identità si trasforma in pretesa di
superiorità e di esclusione dell’altro e del diverso, considerato inferiore o
comunque portatore di valori incompatibili.
Chiariamo
che il concetto di etnia va oltre il riconoscimento di sé del soggetto e delle
sue appartenenze valutate innanzitutto su basi etiche e razionali. L’etnia, nel
modo con cui viene comunemente considerata (e spesso politicamente usata e
strumentalizzata), è un concetto che mette in gioco aspetti mitici che in molti
casi non hanno nulla a che fare con il prodursi dell’identità. Ci riferiamo per
esempio alla pretesa di determinare l’appartenenza di un soggetto ad un
contesto sociale o ad un (presunto) popolo attraverso la comunanza dei tratti
somatici, piuttosto che rispetto a considerazioni di ordine culturale, per cui
spesso chi ha la pelle di un colore diverso viene considerato “straniero” anche
se nato e vissuto nello stesso contesto di chi pretende di escluderlo. Oppure
all’idea che un popolo si definisca attraverso la continuità dell’appartenenza
ad un territorio, per cui a volte (giusto per dire) qualcuno pretende di
considerare gli italiani discendenti diretti dell’impero romano. Si tratta in
fondo della vecchia concezione del nazionalismo militarista e imperiale della
comunità “del sangue e del suolo” (blut und buden), che rivive in ogni pretesa
che pone al centro ed esalta l’etnia come fattore di esclusione. Ribadiamo che
l’unica identità concepibile e accettabile è, in ultima analisi, di ordine
culturale, anche oltre la consapevolezza che possano averne i soggetti
coinvolti.
Le
difficoltà del presente tendono a radicalizzare e moltiplicare gli aspetti
negativi di quello che abbiamo definito l’homo occidentalis. La percezione
della crisi accompagnata dalla mancanza di una valida e credibile alternativa
sociale e politica, spingono verso un accentuato senso di perdita che non si
manifesta solo sul piano ideale e valoriale. È un dato di fatto
incontrovertibile che il cittadino che abita la parte ricca del mondo, anche
quando appartiene alle classi più povere e della ricchezza è destinato a
raccogliere solo qualche occasionale briciola, in fondo non è mai l’ultimo
della fila. Qui da noi, in Occidente, nessuno muore letteralmente di fame, come
avviene in altre parti del mondo. Qui in fondo tutti (anche gli ultimi) hanno
(o semplicemente temono d’avere) qualcosa da perdere. Uno stato delle cose che
infine spinge verso un atteggiamento difensivo e fortemente pessimista nei
riguardi del futuro. Due condizioni che sommandosi creano un vicendevole e
nefasto effetto moltiplicatore.
L’homo
occidentalis nella sua ultima e compiuta espressione ha ormai ampiamente
travalicato i confini e i limiti dello homo oeconomicus, assumendo i caratteri
del “libertariano”, punto d’arrivo e figura tipica di un neoliberismo estremo
che si è fatto vero e proprio progetto di ingegneria sociale trovando il
proprio approdo nelle varie concezioni che costituiscono le teorie del
cosiddetto anarco capitalismo. Una concezione della società capitalista il cui
presupposto è che il gioco delle parti nel darsi della competizione e dei
conflitti, oltre a moltiplicare la ricchezza prodotta, sia anche in grado di
determinare a tutti i livelli una completa autoregolazione capace di assicurare
l’ordine sociale al punto da rendere superflua ogni istituzione pubblica,
compresi polizia e sistema giudiziario di cui si ipotizza la gestione privata e
concorrenziale. A questo punto lo stesso Stato diviene superfluo di fronte alla
compiutezza della macchina capitalista, anche quello “Stato minimo” ipotizzato
dal neo liberismo meno estremo come semplice “guardiano notturno”, col solo
compito, cioè, di essere garante dell’ordine stabilito.
Il
libertariano dunque non conosce limiti all’espressione della propria egoistica
libertà. Nessuna preoccupazione di doversi districare tra vizi privati e
pubbliche virtù. Il proprio interesse egoistico rappresenta il massimo
dell’altruismo possibile. Più si è efficienti nel curare il proprio tornaconto
più si fa il bene collettivo, nella illusione che la somma di tutti gli
interessi, divergenti ed in competizione, produce sempre il bene comune.
L’unica condizione è il rispetto di poche regole del gioco, per le quali non
serve neppure la presenza di un arbitro indipendente. Basta rivolgersi a delle
agenzie private.
Il
libertariano è dunque una sorta di riscoperta della assoluta libertà dell’uomo
allo stato di natura ma con esiti diametralmente opposti rispetto a quelli
ipotizzati da Hobbes. Non l’uomo che costretto a scontrarsi con i suoi simili,
si riduce alla più miserevole delle condizioni, dovendo costantemente temere
per la propria vita, quanto piuttosto un uomo che vive di competizione e che da
questa trova sempre vantaggio, senza neppure dovere mettere in discussione
l’ordine stabilito. Miracoli di uno stato di natura di nuovo tipo, figlio delle
presunte virtù taumaturgiche del capitalismo trionfante.
Si tratta
in fondo della radicalizzazione, portata alle estreme conseguenze, del concetto
di libera concorrenza in quanto capace di massimizzare l’utile generale, e
dunque vista sempre come giusta e necessaria, anche e malgrado i suoi effetti
collaterali negativi, come quello di creare gerarchie tra i forti e i meno
forti, o di minimizzare costantemente gli interessi degli ultimi.
Uno
stato di natura che trasborda dalla società civile allo Stato rendendolo
superfluo. Il privato che si erge ad ordine supremo fagocitando la sfera
pubblica. Ma si noti a questo punto come questa riscoperta della positività
progressiva del libero scontro tra le parti, può tranquillamente essere
trasferita dalla dimensione nazionale a quella internazionale della
geopolitica. In questo modo qualsiasi considerazione riguardante l’etica, o
qualsiasi principio di giustizia tendente alla equa distribuzione delle risorse
e della ricchezza prodotta, verrebbe azzerato in nome del diritto del più
forte, derubricato da atto di imperio a prodotto del libero gioco delle parti e
degli interessi in campo, che sul lungo periodo ed in ultima analisi
finirebbero col fare gli interessi dell’intera umanità. Il libero mercato
globale della geopolitica. In sostanza nulla di nuovo rispetto a quanto già
c’è, ma con un surplus ideologico di giustificazione e di presunta
legittimazione.
In questo
modo nell’immaginario culturale e nelle credenze e ed aspettative del cittadino
dei paesi occidentali (almeno nel modello propugnato dalle forze del dominio),
accanto ad una tendenza libertariana di autonomia personale senza limiti nella
difesa dei propri interessi, tende ad insinuarsi la propensione verso uno Stato
forte capace di difendere il nostro stile di vita e i nostri valori (ma in
realtà soprattutto i nostri privilegi), dall’attacco di altri paesi e di altre
culture che non conoscono “le nostre libertà”. Uno Stato forte in politica
estera, ma anche uno Stato capace di difendere i confini dalla guerra subdola e
silenziosa portata avanti con l’insinuarsi dei migranti nel giardino di casa
nostra.
Il
modello dello homo occidentalis, almeno così come si configura nelle
aspettative del sistema e nella propaganda di regime, tende a definirsi infine
come un ibrido, per certi versi mostruoso, tra lo homo oeconomicus, ormai
giunto alla sua estrema rappresentazione nel libertariano, e il cittadino
identitario fortemente abbarbicato nella difesa dei valori tradizionali
dell’Occidente, tendenzialmente non visti come un patrimonio da socializzare
con altri, ma come una dote da preservare gelosamente in quanto privilegio al
servizio di una ricchezza che ci rende superiori. Spesso l’espressione politica
di questo modello antropologico è il militante o l’elettore di estrema destra,
neo fascista o post fascista in molti casi (ma non sempre), sicuramente
sovranista e caratterizzato da una forte propensione verso la difesa dei
caratteri etnici del popolo nazione, sistematicamente enfatizzati e quasi
sempre frutto di “invenzione storica” o di distorsione scientifica.
Questa
tendenza ad una riaffermazione di stampo nazionalista non deve però ingannare.
Non si tratta di un semplice ritorno al passato. Se è vero che alla base sta il
bisogno di riconoscersi entro un luogo difensivo e fortificato, che escluda
l’altro come inferiore e pericoloso per la propria sopravvivenza, è altrettanto
vero che questo spazio rassicurante ha travalicato i confini del vecchio Stato
nazione, ormai (quasi sempre) troppo angusto per essere credibile come fortezza
inespugnabile. La propaganda politica, specialmente delle forze più reazionarie
non manca di esaltare i valori della patria, del suo popolo e dello Stato
nazione che li rappresenta, ma in realtà l’Occidente altre guerre in famiglia,
sul modello dei due conflitti mondiali del secolo scorso, non se li può più
permettere. Si da ormai per scontato che il modello della massificazione
democratica ha prevalso sulla massificazione totalitaria nazi fascista. La
democrazia, con i suoi riti e con tutte le sue mancate promesse, è ormai
iscritta nelle bandiere dell’Occidente unito. Credo si possa ormai ben dire che
al nazionalismo legato ai valori dello Stato nazione, si è infine sostituito il
nazionalismo dell’Occidente nazione. Un unico indirizzo di riferimento storico,
politico e culturale. Un immaginario collettivo che tende ad unificarsi oltre
le residue differenze locali. Il nazionalismo di vecchio stampo, legato
all’ambito ristretto dello Stato nazione, rimane in vita, e sembra a volte
addirittura rafforzarsi come strumento di controllo interno e come sostegno
alle politiche anti migratorie, ma anche come pura ideologia consolatoria e
machista. Sul piano globale invece l’identitarismo nazionalista si dà ormai
come un dato unico con riferimento all’intero Occidente a guida politica e
militare statunitense. È questa la ragione per la quale la possibilità della
guerra, che come abbiamo visto è la concreta e realistica extrema ratio
dell’Occidente in risposta alla propria decadenza, non è questione che possa
riguardare le scelte dei singoli Stati, ma qualcosa che coinvolge tutti a
seguito di una scelta che, in tutta evenienza, non potrà che venire dagli Stati
Uniti. Non è un caso, d’altra parte, che ciò che abbiamo chiamato homo
occidentalis, come indicato dal nome stesso, è qualcosa di comune ad una intera
area geografica e storico politica, ed è esattamente lui che esprimendosi come
soggetto sociale e politico, più o meno condizionato dalla forza del potere,
dovrà in ultima analisi decidere a favore o contro la guerra, perché resta
comunque inteso che nessun governo potrà mai intraprendere un conflitto armato,
in qualunque forma esso si possa realizzare, senza avere dalla sua un qualche
significativo consenso popolare.
Riuscirà il
cittadino europeo e americano, nella molteplicità delle sue forme, a partire
dagli strati più sfruttati oppressi o marginalizzati, a liberarsi dell’abito
dello homo occidentalis, che le mani del potere gli hanno cucito addosso? Non è
facile, ma certamente sarebbe giusto, ed è infine indispensabile!
Il
passato di quella che chiameremo “La civiltà europea occidentale”, e di cui ci
sentiamo eredi e difensori presenta due facce interconnesse ma contrapposte. Da
una parte ci sta la colonizzazione del mondo, il dominio e il privilegio
esclusivo della ricchezza. Per un altro verso questa stessa forza dominante è
stata resa possibile grazie ad una inestimabile, e mi permetto di dire
straordinaria, ricchezza di tipo culturale, artistica e letteraria, filosofica
e scientifica, ed anche sociale. Sta a noi figli di questo Occidente così
complesso e contraddittorio decidere da che parte stare. Arroccarsi nella
difesa del privilegio inseguendo un ruolo dominante che ormai non c’è più,
oppure considerare il nostro passato non come qualcosa di esclusivo da chiudere
in cassaforte, ma come un patrimonio da consegnare all’intera umanità, senza
imporlo ma cercando la socializzazione e l’incontro con l’altro e col diverso,
dando ma anche prendendo. La conservazione del nostro grande patrimonio
culturale sarà possibile solo arricchendolo, e in parte trasformandolo, grazie
all’incontro con le altre culture.
È
bene chiarire che questo processo rispetto ai tempi lunghi della storia non ha
alternativa. Non si tratta solo di una questione etica che porta a considerare
ingiusto volere difendere una condizione di privilegio, ma anche una
constatazione di ordine fattuale. La pretesa di arroccarsi in difesa della
nostra cittadella è destinata comunque alla sconfitta. L’homo occidentalis ha
già perso la sua battaglia. Di fronte a lui si pone un modello antropologico
diverso, dinamico e vincente: quello del migrante.
Il
migrante, nella sua considerazione astratta ed idialtipica, oltre la
contingenza e il sentire dei migranti reali, è colui che viene non per operare
inverosimili sostituzioni etniche, ma per diventare parte di noi. Egli ha
certamente una sua identità culturale, ma ugualmente giunge da noi a mani nude.
La sua prima preoccupazione sarà conoscere capire ed adattarsi. Manterrà per
quanto possibile tutto ciò che caratterizzava il suo passato, ma
inevitabilmente dovrà adattare il suo stile di vita al nostro. Che il nostro
mondo gli si sveli è per lui una questione di sopravvivenza, mentre noi
possiamo anche, fino ad un certo punto, considerarlo un estraneo che si aggira
per casa. È lui dunque, il migrante, il soggetto di ogni possibile incontro e
reciproco arricchimento culturale. Colui che venendo non porta con sé il
pericolo di sostituirci, ma, almeno sul lungo periodo, la possibilità di
salvare la civiltà europea occidentale sottraendola dall’impoverimento e dalla
sclerosi a cui sarebbe condannata nelle mani dell’homo occidentalis.
D’altra
parte è sempre così che è funzionata la storia. Le civiltà, grandi o piccole
che siano, prima o dopo, si sono sempre estinte. Una civiltà si caratterizza
innanzitutto in ragione dei valori e dei contenuti culturali che le sono
costitutivi, in secondo luogo (in senso logico e non di importanza gerarchica)
essa è anche definita da uno stile di vita e da una capacità di
autorappresentazione e di senso di appartenenza da parte della comunità di
riferimento. Queste cose insieme definiscono ciò che con termini molto generici
viene chiamato “popolo” o “etnia”. Col tempo immancabilmente gli stili di vita
e il cemento delle appartenenze si logorano e si perdono. Le civiltà crollano e
i “popoli” e le “etnie” svaniscono. Al contrario avviene spesso che i valori e
i contenuti culturali di una civiltà si salvino e rivivano anche col mutare dei
modi d’esistenza, delle abitudini, del senso di appartenenza, col mutare in
sostanza del “nome” che indica una civiltà o un popolo. Le grandi civiltà
mediterranee del passato, quella greca e quella latino romana, sono scomparse
da millenni, eppure senza la loro eredità il mondo attuale non sarebbe neppure
pensabile.
Potremmo
dire, a questo punto in modo paradossale e provocatorio, che “la sostituzione
etnica” è storicamente inevitabile, perché nulla si ripete invariato nel tempo.
Essa è sempre il prodotto della fine di una civiltà, o per cause endogene o per
cause esogene, o per l’interagire di cause di diversa natura. Spesso, ed in
modo che può apparire paradossale, quando a prevalere sono i fattori di crisi
interna, senza che vi sia l’intervento determinante di una mano estranea, il
crollo è tendenzialmente più catastrofico e quasi nulla si salva. Quando invece
la fine è prevalentemente provocata da un contatto esterno gli esiti possono
essere diversi, ma la storia ce ne indica due radicalmente opposti. Il primo è
quello, già citato, delle cosiddette invasioni barbariche, conclusosi con una
perfetta simbiosi tra invasori ed invasi, e col sostanziale recupero e
salvataggio dei valori e della cultura degli sconfitti, che rivive entro un
quadro storico totalmente mutato. L’altro esempio è quello della colonizzazione
delle Americhe che ha portato ad un vero e proprio etnocidio con la scomparsa
delle civiltà autoctone e l’affermarsi, senza mediazioni, del modello sociale e
culturale dei conquistatori.
Appare
subito evidente che quella che qualcuno indica e paventa come “l’invasione del
migrante” non somiglia né alle invasioni barbariche, né alla conquista delle
Americhe, in quanto essa non è neppure una vera invasione e non si avvale dei
mezzi cruenti della conquista, ma di quelli pacifici della migrazione. Per
questa ragione, ed anche per il grande spessore storico della civiltà europea
ed occidentale, che non è facile da cancellare, né è pensabile che qualcuno
possa avere un reale interesse a farlo, il migrante non può che porsi, come
abbiamo già detto, almeno idealmente e tendenzialmente, come il soggetto
imputato a guidare un processo di incontro e di mediazione positiva tra diversi
per storia e cultura. Le condizioni materiali sono favorevoli ad un tale
possibilità.
Il
migrante innanzitutto, venendo a noi, è costretto ad apprendere la nostra
lingua per potere comunicare. Questo potrebbe essere già una sorta di garanzia
per la riproduzione dei contenuti di civiltà del nostro mondo. La lingua è il
luogo della comunicazione e dello scambio e socializzazione dei beni materiali
e immateriali. Essa non è mai un semplice strumento neutro e puramente tecnico.
La cultura di un popolo vive e si riproduce dinamicamente nelle cose che
vengono dette e nel modo in cui sono dette. Il migrante attraverso l’uso della
nostra lingua entra nella nostra vita e nei meandri del nostro vissuto. Ci
conosce e può interagire con noi. Egli vivendo tra noi e parlando con noi con
il nostro linguaggio, diviene il punto di incontro tra diverse identità, la sua
e la nostra, che contemporaneamente lo attraversano come parte della sua
personalità e che in lui per forza devono trovare un punto di congiunzione e di
ricomposizione, a meno del prodursi di una doppiezza patologica. Egli ha dunque
tutte le possibilità (ovviamente ipotetiche) di farsi guida e promotore di un
processo di assimilazione, conservazione e trasformazione di valori, contenuti
culturali, abitudini e stili di vita, anche molteplici e diversi, che lo
caratterizzano innanzitutto come parte del suo vissuto. Noi al contrario non
conosciamo il migrante. Non parliamo la sua lingua e tendiamo sempre a vederlo
come un estraneo, se non come un vero e proprio pericolo. Al massimo
interagiamo con lui tramite il “noi” che è divenuto parte della sua esistenza.
Il migrante è straniero ma diviene già nativo grazie ai suoi figli. Vive a
cavallo di due mondi e almeno potenzialmente può riunirli in un mondo nuovo, a
differenza dell’europeo di lunga generazione, che spesso vive nel disagio di un
mondo che gli appare spesso (io credo erroneamente) preda di una crisi senza
soluzioni.
La
possibilità del concreto realizzarsi di un mondo futuribile, e sperabilmente
migliore, legato alle dinamiche messe in atto dalla presenza del migrante, si
può avvalere di un altro importantissimo dato oggettivo. Si tratta della
questione che riguarda l’età media della popolazione. Il migrante è giovane,
l’europeo di antica origine è anziano.
La cosa è
complessa e occorre fare chiarezza. È noto come sia tipico di una visione
politica di destra lamentare il calo demografico e la costante crescita
dell’età media della popolazione europea come una delle cause che agevolano il
presunto processo di sostituzione etnica che ci porterà ad un futuro, per loro
inconcepibile e terrificante, in cui i neri saranno la maggioranza in casa
nostra. Al contrario la cultura di sinistra ritiene che una propensione verso
il calo delle nascite sia assolutamente necessaria per cercare di evitare quel
disastro ambientale che vede tra le sue possibili cause proprio il costante crescere
degli abitanti del pianeta.
È ovvio che le
preoccupazioni degli ambientalisti sono corrette e che il colore della pelle
dei futuri abitanti del nostro continente è questione ininfluente rispetto ai
problemi che riguardano il nostro futuro. Aggiungiamo che il controllo
delle nascite sarebbe certamente necessario ma esso comporterebbe enormi
problemi, legati intanto al prodursi di una coscienza generalizzata a livello
globale onde evitare inaccettabili imposizioni. Si tenga inoltre conto che il calo
demografico dovrebbe essere sostanzialmente omogeneo tra le varie popolazioni
onde evitare cambiamenti negli assetti geopolitici globali, e soprattutto che
esso dovrebbe essere lento (e forse anche molto lento) e progressivo onde
evitare un invecchiamento generalizzato della popolazione mondiale che
rappresenterebbe una vera catastrofe per i destini dell’intera umanità.
Problema enorme e che nella sua generalità, esula dai fini di questo lavoro.
Qui basterà tenere conto solo di quegli aspetti demografici che riguardano
attualmente il nostro continente e la questione migratoria evitando di entrare
in questioni e prospettive di ordine generale.
È
mia personale convinzione che il calo demografico, che riguarda ormai da tempo
l’Europa, non sia dovuto ad una generalizzata presa di coscienza della esigenza
di ristabilire un corretto rapporto tra la presenza dell’uomo e le esigenze
della natura. Non credo neppure che la causa, almeno non quella principale, sia
la crisi della famiglia, che in effetti nella società industriale e post
industriale perde quella funzione di unità produttiva di base che aveva in
genere nelle società contadine e tradizionali. Penso piuttosto che il calo
della popolazione sia dovuto in maggior misura ad una visione fortemente pessimista
nei confronti del nostro futuro. Una percezione della crisi non del tutto
razionalizzata, che noi noi europei riferiamo spesso all’intera umanità, ed in
cui hanno certo parte anche le questioni ambientali, ma che riflette, io credo
soprattutto ed in modo largamente inconsapevole, il senso della decadenza del
ruolo egemone dell’Occidente e dell’Europa, e che spesso, in mancanza di
alternative credibili, vira anche verso forme di edonismo individualista.
Al
contrario l’eccezionale crescita demografica che ha portato il continente
africano a moltiplicare di dodici volte la sua popolazione in poco più di un
secolo, è dovuta, mi azzardo a dire, probabilmente ed in modo prioritario, ad
un atteggiamento difensivo di lotta per la sopravvivenza nei confronti della
colonizzazione dell’Occidente. Fossero rimasti poco più di cento milioni in
tutto il continente come erano all’alba del 900, oggi sarebbero a rischio di
estinzione e probabilmente sarebbero rinchiusi in riserve appositamente
istituite come succede da tempo ai discendenti dei nativi americani. Fare figli
e moltiplicarsi per affermare il potere del numero e della giovinezza come arma
politica di lotta, di resistenza e di sopravvivenza, in un processo che si dà
spontaneamente, senza alcuna programmazione politica o di altro genere.
Di fronte
a questo urlare il proprio diritto alla vita l’Europa farebbe volentieri
orecchie da mercante, ma purtroppo per lei il nostro continente è invecchiato
ed è edonista e per queste ragioni del migrante ha bisogno. Ne ha bisogno per i
lavori che nessuno da noi vuol fare e ne ha bisogno per tenere bassi i salari.
Ne ha bisogno per produrre ricchezza in un mondo ormai pieno di pensionati,
giustamente improduttivi. Il nostro vecchio mondo respinge il migrante fintanto
che può, ma infine è costretto ad accettarlo senza accoglierlo mai veramente.
Lo lascia morire in mare quando giunge inaspettato, ma vorrebbe programmarne i
flussi a partire dai luoghi di origine, in modo da renderlo schiavo prima
ancora che abbia messo piede a casa nostra, in modo da farne per sempre uno
estraneo.
In questo
modo il migrante, escluso ed umiliato ma assolutamente indispensabile, entra
nei meccanismi del sistema. Li apprende e li valuta con l’occhio di colui che
non ha nulla da perdere. Senza saperlo e senza volerlo si ripete qui la vecchia
dialettica tra il servo e il padrone che Hegel per la prima volta immaginò, e
che già Marx utilizzò per mostrare come il proletariato poteva impossessarsi
del mondo del capitalista per utilizzarlo ai propri fini, escludendone il
vecchio padrone. Allo stesso modo oggi il migrante può impossessarsi del mondo
che lo opprime, può fagocitarlo e farlo suo, e così facendo può farlo rivivere,
recuperandone gli aspetti più sani e più vivi e dando loro una nuova
prospettiva, aperta alle diversità etniche e culturali che lo stesso migrante,
per sua storia pregressa, rappresenta. Il migrante può divenire il nostro
salvatore, l’erede e il continuatore che tiene in vita la grande tradizione
dell’Occidente, liberata dagli altrettanto grandi suoi mali.
Sarà
così? Non lo so! Ho usato toni troppo ottimistici? Può darsi. D’altra parte
questa è solo la sintesi semplificata di una prospettiva ideale, spurgata da
tutti i suoi possibili accidenti e possibili difficoltà. Inoltre bisogna anche
tener conto che neppure in questo senso generale si può dare nulla per scontato.
La storia non la si può mai scrivere in anticipo e spesso prende vie
imprevedibili.
Se
il futuro c’è complessivamente ignoto, tuttavia qualcosa, a partire dall’oggi,
la possiamo pure pensare.
Abbiamo
immaginato la figura ideale del migrante come un possibile ponte gettato tra
l’Occidente, innanzitutto europeo, e il resto del mondo capace di produrre una
sorta di pacificazione valoriale e culturale di lungo periodo, fondata su un
incontro dialogante e produttivo di reciproche acquisizioni e trasformazioni.
In questa prospettiva una delle maggiori difficoltà potrebbe essere
rappresentata dalle diverse appartenenze religiose. La credenza religiosa,
nella sua veste moderna rappresentata dalle grandi religioni monoteiste, si
pone come elemento identitario estremo, spesso una barriera gettata tra “il
noi” e il resto del mondo. Per la verità nella storia la funzione delle
religioni non sempre è stata negativa, ed ha avuto anzi un valore fortemente
propulsivo specialmente rispetto alla nascita delle grandi civiltà. Abbiamo già
detto di come la stessa Europa sia nata da una fusione tra l’antico mondo
mediterraneo, già unificato dall’impero romano, con le popolazioni barbariche,
e di come tale esito estremo fu possibile solo grazie alla comune adesione al
cristianesimo. Vale per il cristianesimo a casa nostra e qualcosa di simile
vale anche per l’Islam rispetto al mondo arabo.
Non
ho spazio, né interesse specifico ad approfondire l’argomento ai fini del
nostro discorso, mi limito allora a dire che il vero problema che può dividere
i popoli non è la religione in sé, ma l’integralismo religioso. Quella forma di
dogmatismo assolutizzante che non ammette altro da sé e che si chiude rispetto
a qualsiasi tipo di ipotesi dialogante. È mia convinzione, (che affido al
vostro giudizio senza darne particolari spiegazioni), che l’integralismo
religioso, (ma non solo religioso) sia l’esito finale della percezione di una
crisi estrema e di un disagio fortemente sentito. Un modo di chiudersi in se
stessi nella consapevolezza che la propria fragilità rende particolarmente
vulnerabili nel rapporto con l’altro. Credo che sia questa la genesi attuale
dell’integralismo islamico, o forse sarebbe meglio dire del suo successo, di
fronte allo strapotere dell’Occidente armato, percepito legittimamente come
ingiusto ed invasivo. Creare quanto meno le premesse per abbattere ogni forma
di integralismo è possibile solo se ci si pone su di un piano di uguaglianza e
di pari dignità.
L’Occidente
è fino ad ora rimasto abbastanza immune dal prodursi dell’integralismo
religioso proprio in ragione della sua posizione dominante che gli ha permesso
di esportare la propria intransigenza oltre i propri confini sotto forma di
(finta) “democrazia”, da imporre con la forza ai popoli e agli Stati
riluttanti. In passato l’estremismo integralista si era espresso in forma
politica e non religiosa, attraverso il totalitarismo nazi- fascista, come
risposta alle contraddizioni inter-imperialiste all’interno stesso del mondo
occidentale. Oggi lo spettro potrebbe riapparire in forma di integralismo
religioso, con possibilità di penetrazione di massa, proprio in virtù della
profonda crisi e senso di perdita che attanaglia le popolazioni europee ed
occidentale. Una pericolosissima avvisaglia potrebbe essere rappresentata dal
sempre maggiore successo che hanno, soprattutto nelle Americhe, le chiese
evangeliche, specialmente quelle più radicalmente orientate verso il
fondamentalismo cristiano. Uno scontro tra opposti integralismi religiosi rappresenterebbe
l’esatto contrario di quanto abbiamo fino ad ora ipotizzato come la possibile
rivoluzione del migrante. Ci troveremmo, al contrario, di fronte
all’approfondirsi della attuale spaccatura tra l’Occidente ed il resto del
mondo, aggravata da presupposti falsificanti e puramente ideologici, senza
fondamento costruttivo e senza prospettive di pacifica risoluzione.
Mi
pare ovvio che per opporsi al prodursi di una simile nefasta possibilità, non
sia affatto necessario ricorrere agli strumenti di un razionalismo ateo ed
estremo nel suo essere anti religioso, e che pure è in qualche modo parte della
nostra cultura, creando in questo modo ulteriori tensioni e spaccature sia
dentro che fuori le mura di casa nostra. Realisticamente il problema non è la
religione in sé, ma la sua deriva integralista. L’antidoto non è l’anti
religiosità di principio, ma la riscoperta dei vecchi valori della laicità, che
guarda caso è uno degli aspetti più tipici e positivi del bagaglio di
tradizioni culturali del nostro Occidente, e che può ora risultare utile, se
non essenziale, anche per il migrante e per la sua rivoluzione.
Proprio
il tema della laicità necessaria al cambiamento mi permette di introdurre
un’ultima questione che mi pare fondamentale trattare.
Quanto
abbiamo fin qui detto potrebbe fare pensare ad uno scontro tra il migrante e la
totalità dei soggetti che trova nel nuovo mondo in cui aqpproda. Tra colui che
viene da lontano e chi invece ha costruito, o si è trovato ad avere da lungo
tempo, casa in Occidente. Ma le cose non stanno propriamente in questo modo, e
il bisogno di laicità come valore che attiene più alla nostra cultura che a
quella del migrante serve a riaprire le questioni.
Fin qui ho
costruito il discorso intorno alla contrapposizione tra homo occidentalis e
migrante, ma si tratta con tutta evidenza di due astrazioni tipizzanti,
utilizzate solo per semplificare le cose e porre le questioni nella loro
generalità ed essenzialità costitutiva. Ora occorre fare un passo avanti e frantumare
l’homo occidentalis in tutte le sue concrete realtà esistenziali, negandolo
nella sola astrattezza del servo fedele nei confronti dei padroni del mondo di
cui si fa parte, che per l’appunto è l’Occidente. È ora di andare più a fondo e
riscoprire le differenze che ci parlano di uno specificarsi e moltiplicarsi
delle appartenenze, che danno conto e risignificano le distanze che dividono le
classi sociali, i sessi, le razze, il cerchio dei visibili di successo da
quello degli invisibili, i ricchi e i forti dai poveri e dai fragili ed
esclusi. In sintesi fare a pezzi l’illusione che il solo fatto di appartenere
all’Europa o al mondo occidentale, significhi essere invitati al banchetto dei
ricchi e di quelli che comandano. Riscoprire il senso dell’alleanza
intersezionale per la costruzione del fronte dell’essere contro e della
rivolta. Incontrarsi col migrante e divenire parte della sua rivoluzione. Anzi
di più: fondersi con lui, portando il nostro contributo di storia e di idee (la
laicità e i diritti, per esempio), e trasformare la “rivoluzione del migrante”
in “rivoluzione degli esclusi”.
Questo il
possibile cammino di liberazione che mi sento di immaginare. Ma non fatevi
ingannare dalla perentorietà dei toni, usati per rendere incisiva l’esposizione
e chiari gli intenti. In realtà non sono affatto ottimista. (La guerra potrebbe
essere vicina e a noi non resta molto altro se non sperare nei migranti e negli
esclusi….per
l’appunto!).