UNA LENTE PER INDAGARE IL POSTFORDISMO
Il lavoro autonomo di seconda generazione, le sue caratteristiche rispetto al lavoro salariato e l’organizzazione dei freelance
1. Introduzione
L’operaismo si sviluppa in un contesto in cui era credenza comune l’idea che non ci fossero alternative alla grande fabbrica fordista dove migliaia di lavoratori svolgevano le loro mansioni ripetitive mentre le macchine erano adibite a quelle più complesse. A ciò si affiancava il consumo di massa, altro elemento chiave di questa fase del capitalismo. Per gli operaisti la fabbrica era il terreno fertile della lotta di classe dove inchiodare i padroni e costruire uno spazio libero dall’oppressione capitalista. Lo stesso fordismo, con la sua organizzazione del lavoro, produceva il soggetto rivoluzionario, l’operaio-massa, che era un salariato con una parte fissa, di base, una variabile, fornita dall’aumento della produttività del lavoro e dal welfare. Il fordismo, inoltre, non era confinato alla fabbrica ma si era esteso a tutta la città, per esempio nella mobilità urbana o nella regolazione degli orari dei negozi. L’operaismo era l’immagine rovesciata del fordismo e con l’avvento del postfordismo doveva lentamente sparire. Invece gli intellettuali che si rifacevano all’operaismo hanno provato ad aggiornare la teoria a partire dalla nuova situazione, questo perché gli operaisti non hanno mai sottovalutato i padroni. Alla retorica populista hanno sempre preferito scandagliare in profondità la realtà. Questo è facilmente rilevabile nell’attenzione posta al tema della tecnologia. Essa è intesa da Panzieri, uno dei padri nobili di questa lettura del marxismo, come lavoro incorporato che libera il lavoratore dalla fatica ma allo stesso tempo impone un controllo ancora più rigido sulla forza lavoro. La tecnologia plasma la forza lavoro determinando la sua composizione tecnica che si traduce in una specifica mentalità, cultura o agire politico.
Sergio Bologna fa degli esempi per spiegare ciò nel libro Knowledge workers. Dall’operaio massa al freelance che stiamo seguendo in questo saggio. Nelle fabbriche di auto degli anni ‘70 troviamo i reparti in cui gli operai hanno sviluppato un rapporto individuale con la macchina, di cui conoscevano ogni segreto, ed erano capaci di ricostruire in ogni minimo dettaglio il processo produttivo per poter organizzare uno sciopero in maniera efficace. Solitamente erano operai specializzati di provata fede comunista ma erano attaccati, allo stesso tempo, alla gerarchia e a un sistema salariale fortemente differenziato. Ogni giovane operaio doveva passare per lo stesso percorso formativo per arrivare al loro livello, anche sé si dimostrarono fortemente propensi alla trasmissione del loro sapere operaio alle generazioni più giovani. Nella stessa fabbrica trovavamo la catena di montaggio, una tecnologia che non permette un approccio individuale, ed è funzionale all’inserimento di operai senza qualifiche. Questi operai erano l’operaio-massa, con una mentalità diversa da quella dell’aristocrazia operaia comunista e che lottava per l’abolizione del cottimo individuale e per aumenti uguali per tutti. Qualcosa di incomprensibile per il primo tipo di lavoratore. Negli anni ‘80 questo mondo collassa. Dilagano le tecnologie dell’informazione, gli operai specializzati sono sostituiti dai robot oppure la delocalizzazione sposta in altri paesi la produzione. La sinistra tradizionale resta spiazzata davanti a questo mutamento ma non gli operaisti. Davanti al lavoratore che si guadagna da vivere con il computer si chiedono:
1. Si tratta di un lavoratore più libero?
2. Ha maggiore potere negoziale rispetto all’operaio fordista?
Le risposte sono negative. Apparentemente è più libero ma da solo non ha sufficiente potere per negoziare con il padrone. L’accesso alle informazioni garantito da internet e da un computer gli consentono al massimo di scegliere di non essere più un salariato ma di trasformarsi in un lavoratore autonomo.
“L’uomo con il personal computer, in quanto lavoratore, cioè persona che cede un determinato prodotto intellettuale a terzi in cambio di una retribuzione per poter sopravvivere, doveva presentare la stessa, se non maggiore, complessità [della classe operaia]. Cominciamo dalle cose più semplici. Per esempio: quale forma assume la sua retribuzione? La vecchia forma del salario oppure la forma dell’onorario? Viene pagato a ore o a prestazione professionale? Ha un orario di lavoro? I parametri fondamentali per definire un lavoratore sono il salario e l’orario, la sua vita privata, la sua esistenza personale, la sua quotidianità, i suoi consumi, i suoi rapporti di coppia, il suo standard di vita sono determinati in tutto o in parte da questi due parametri”1.
Questi Knowledge worker sono simili ai vecchi white collar? Per rispondere a questa domanda Sergio Bologna riprende le inchieste di Classe Operaia sui tecnici di produzione. Quanto più è complessa la tecnologia, tanto più diventano sofisticate le macchine e tanto più diventa essenziale la forza lavoro che le sa utilizzare. Siccome il capitalismo incorpora i contenuti scientifici nel processo produttivo, i tecnici potevano essere rappresentati come una nuova classe che avrebbe avuto uno sviluppo simile a quello della classe operaia. Tuttavia i tecnici, i white collar, condividevano lo stesso spazio, gli stessi problemi della produzione e lo stesso orario degli operai. Invece i lavoratori del personal computer sono spesso lavoratori indipendenti che lavorano per un solo committente e in spazi di coworking.
Occorre analizzare il knowledge work con la prospettiva operaista della composizione tecnica della classe, altrimenti non capiremo molto di questa nuova middle class che non è capace di sfruttare il lavoro altrui perché incapace di non sfruttare se stessa.
2. Il lavoro autonomo di seconda generazione
In La new workforce. Il movimento dei freelance Sergio Bologna sostiene che nella civiltà occidentale il lavoro è considerato un’attività svolta per terzi in cambio dei mezzi di sussistenza, cioè di un salario. Il lavoratore in questione è subordinato ad un’organizzazione chiamata impresa, in cui svolge una mansione assegnata da colui che la dirige e può essere manuale o intellettuale. Lo sviluppo, a fine Ottocento, del lavoro salariato ha reso necessario lo sviluppo dei diritti del lavoro accanto a quello civile. Lo Stato iniziò a farsi garante della sicurezza materiale dei lavoratori, ad esempio delle assicurazioni in caso di infortunio o quando il lavoratore non poteva, per ragioni anagrafiche, svolgere la sua mansione. Era la base del welfare state che si sviluppò con maggiore forze laddove erano più forti i partiti operai e i sindacati. I modelli con cui si affermò furono universalistici, come in Inghilterra, oppure occupazionale, come in Francia e Germania. Nel primo caso lo Stato si fa carico delle necessità dei lavoratori indipendentemente dall’occupazione mentre nel secondo caso dipende dalla sua capacità contributiva. Tuttavia questo schema esclude il lavoro autonomo.
Questa tipologia di lavoro viene svolta da chi lavora per conto proprio, non percepisce un salario visto che non dipende da nessuna impresa privata o amministrazione pubblica, non ha collaboratori salariati. Storicamente questa categoria è stata occupata da commercianti, artigiani, contadini piccoli proprietari e coloro che svolgono le professioni liberali. Non sono mai stati visti come una classe omogenea. Gli artigiani erano pensati come un residuo della produzione precapitalista destinato a sparire con l’assorbimento della loro attività da parte della grande industria. Le professioni liberali erano viste come una componente della media borghesia che svolgevano una funzione di sussidiarietà rispetto allo Stato. Il resto componeva la piccola borghesia che non ha mai raggiunto quel livello di omogeneità tipico del proletariato industriale. Progressivamente vennero tutti inclusi nel sistema di sicurezza sociale, ad esempio in Italia negli anni ‘50 arrivò l’obbligo di un’assicurazione pensionistica per contadini diretti e artigiani. Dagli anni ‘70 però, dice Bologna, emerge tutta una serie di professioni, di lavoro autonomo, nuovo e legato alla creatività e al lavoro digitale che non riescono ad essere categorizzati nei vecchi Ordini professionali. Si tratta del lavoro autonomo di seconda generazione. Con gli anni ‘80 e la controrivoluzione neoliberalista il welfare state venne inteso sempre più come una serie di servizi di mercato da sottoporre alle regole della concorrenza. Bologna cita il caso inglese dove sia i governi conservatori che laburisti incentivarono l’uscita dalle assicurazioni obbligatorie pubbliche per sostituirle con quelle private. La reazione dei sindacati e dei partiti di sinistra è stata la difesa dei diritti dei soli lavori salariati mentre il lavoro autonomo di seconda generazione veniva escluso dal welfare state ma questo non bastava. Questi lavoratori dovevano essere considerati come delle imprese.
“Più dei giuristi tuttavia ha potuto l’ideologia individualistica inculcata sistematicamente dai media e dalle scuole di management negli Anni 80, che hanno creato un archetipo di lavoratore indipendente, un cliché del freelance, come eroe solitario che, appoggiandosi esclusivamente sulle proprie doti individuali di carattere, aggressività, flessibilità, voglia di successo, desiderio di emergere e in parte anche sulle sue risorse intellettuali e skill professionali, si fa largo nel mercato globale con il suo personal computer e il suo I Phone, come un Tarzan che si muove nella giungla appeso a una liana col suo coltello alla cintola. Questa immagine neoliberale del lavoratore postfordista assomigliava assai più a quella di un imprenditore che a quella di un lavoratore conto terzi. Quindi era facile convincere i freelance che essi non erano lavoratori bensì imprese, microscopiche ma pur sempre imprese”2.
Per Bologna il termine impresa individuale è un non senso visto che secondo l’economia classica l’impresa è un’organizzazione complessa con molti ruoli ricoperti da figure professionali diverse che non possono essere coperte da una singola persona. Siamo davanti ad un discorso ideologico molto pervasivo e con uno scopo ben preciso: mascherare il lavoro autonomo da impresa individuale negando che sia un lavoratore per conto terzi e dentro l’ordine simbolico del lavoro.
A partire dagli anni ‘90 i cambiamenti incorsi nella tecnologia, negli stili di vita e nell’organizzazione hanno prodotto il già citato lavoro autonomo di seconda generazione. È utile ricostruire brevemente la sua genesi. Per quanto riguarda il primo elemento, esso coincide con la rivoluzione della produzione snella con cui le imprese hanno voluto ottenere una nuova flessibilità e rapidità nel rispondere alla domanda di mercato. A questo scopo era funzionale un massiccio processo di outsourcing che ha prodotto l’esternalizzazione di molte mansioni un tempo svolte all’interno dell’impresa. Non parliamo solamente del servizio mensa o degli addetti alle pulizie ma anche di attività che danno da lavorare a microimprese di artigiani per quanto riguardo il lavoro manuale e a liberi professionisti per quanto riguarda il lavoro intellettuale. Con la globalizzazione, dice Bologna, tutte le imprese sono andate incontro ad un processo di downsizing che ha espulso molti professionisti che si sono trasformati in lavoratori autonomi. Qui arriva il secondo elemento di svolta, ovvero la nascita di internet e del personal computer come lo intendiamo noi.
“La persona singola quindi ha potuto dotarsi di una macchina con la quale poteva svolgere da qualunque punto e con costi tendenti allo zero una serie di attività prima riservate esclusivamente a un’organizzazione d’impresa. La Rete globale consentiva di restare connessi con banche dati, istituzioni, partner commerciali, di accedere a un mercato globale senza intermediari, di porre le basi di un business individuale, di un’attività che poteva diventare ragione di sopravvivenza. Il lavoro autonomo poteva essere svolto in maniera più semplice, più efficace e meno costosa. Venivano abbassate fortemente le barriere all’ingresso, veniva abbattuto il costo dell’informazione, si poteva iniziare un’attività di lavoro indipendente con un minore investimento di capitale. Nascevano molte “nuove” professioni, non solo nel campo dell’informatica (analisti, programmatori, web designer ecc.), mentre alcune professioni esistenti da tempo venivano completamente trasformate (si pensi all’introduzione delle tecniche digitali nel campo dell’immagine e del suono)”3.
Il terzo elemento riguarda gli stili di vita. Sono aumentate le persone che vivono da sole, è aumentata, grazie all’abbattimento dei suoi costi, la mobilità fisica delle persone, si sono sviluppati i settori del benessere, del turismo, della ristorazione e sono nati nuovi media. Questo ha portato alla creazione di nuove professioni alternative a quelle del tradizionale settore manifatturiero. Anche lo smantellamento del settore pubblico ha contribuito alla nascita di nuove figure del lavoro autonomo. Per un periodo compreso tra gli anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90 sembrava, in alcune professioni come quelle informatiche, una scelta ottimale per racimolare un reddito paragonabile a quello di un manager ma con la crisi del 2007-2008 questa illusione è definitivamente caduta. Il mondo del lavoro autonomo è sempre più polarizzato tra pochi professionisti capaci di guadagnare cifre da top manager e molti freelance che davanti alla crisi si sono ritrovati senza tutele, senza protezioni, ignorati dalla politica e con la prospettiva di non avere una pensione. Tutto ciò condito dall’idea che si trattasse di imprese individuali e non di lavoratori. Questa fu la molla per l’autorganizzazione di questi lavoratori.
3. Le caratteristiche del lavoro autonomo rispetto al lavoro salariato
Spazio
I lavoratori salariati dividono la loro vita tra ambiente familiare e di lavoro mentre il lavoro autonomo spesso, soprattutto all’inizio della sua carriera, non ha a disposizione i soldi per mantenere un ufficio. Di conseguenza fa coincidere la propria casa con il proprio ufficio. Questo ha come conseguenza il suo isolamento e lo sviluppo di una mentalità individualistica. Questo elemento sarebbe più forte in assenza di internet che sopperisce all’assenza di un luogo fisico di ritrovo tipico dei lavoratori salariati. Un altro luogo che ha contribuito a superare l’isolamento dei lavoratori autonomi, oltre a fornire connessione e ufficio a basso costo, sono gli spazi di coworking che sono utili anche per una loro organizzatore poiché consentono di superare la loro dispersione fisica sul territorio.
Tempo
Il lavoratore salariato è pagato ad ora ed ha delle rigidità nell’organizzazione della giornata lavorativa da rispettare mentre il lavoro autonomo può scegliere quando iniziare a lavorare e come gestire il proprio tempo. Tuttavia deve rispettare le scadenze, solitamente rigide, del suo committente senza contare che il mercato impone l’autosfruttamento a questa categoria di lavoratori, specialmente nei settori con una barriera d’ingresso nulla, per evitare di fallire.
Salario
Il lavoratore salariato è pagato con un importo mensile anticipato dal padrone per garantire la sua sopravvivenza e la possibilità di svolgere la propria mansione. Il lavoratore autonomo invece viene pagato dopo aver fornito la propria prestazione. Perciò il mantenimento della propria persona è totalmente a suo carico. Questa differenza è sostanziata dalla fattura che è allo stesso tempo un documento fiscale e una richiesta di pagamento.
Lavoro relazionale
Il lavoratore autonomo deve attivamente ricercare e costruire le relazioni con il mercato e tutto ciò che contribuisce alla creazione di un prodotto e di un servizio.
“Il freelance si trova da solo a risolvere i problemi, deve costruirsi da solo il suo database. Inoltre deve costruirsi da solo la domanda di mercato, all’inizio, ingenuamente, pensa di andare a caccia di clienti come fa il lavoratore aspirante salariato che manda in giro il suo cv, poi si accorge che deve entrare in certi network per poter accedere a un segmento di mercato, per poter conoscere i suoi possibili competitors”4.
Manutenzione delle competenze
La differenza è tra lavoro autonomo regolamentato e non. Spesso non esiste un percorso formativo prestabilito per essere un lavoratore autonomo e di conseguenza c’è molta flessibilità nella costruzione delle competenze per questo lavoro che di solito sono un mix di conoscenze formalizzate e informali nate dall’adattamento alle condizioni di mercato o alle occasioni presentatesi.
Negoziato
I lavoratori salariati per ottenere aumenti o migliori condizioni salariali possono ricorrere allo sciopero. I lavoratori autonomi non hanno questa possibilità visto che il loro non è un rapporto di subordinazione, stanno semplicemente vendendo un prodotto o servizio ad un committente. Il loro non è un contratto di lavoro ma commerciale. Se l’operaio può far valere le sue ragioni attraverso l’interruzione prolungata del lavoro, i freelance possono utilizzare l’arma delle lobby che è molto meno efficace ed esemplifica la loro debolezza nei confronti di chi richiede il loro lavoro.
4. L’organizzazione dei freelance
Una volta inquadrato il lavoro autonomo di seconda generazione, occorre studiare come si sono organizzati. In primo luogo, tre sono le strade che possono intraprendere. Rifugiarsi negli ordini professionali riconosciuti dallo Stato che contemplano anche i lavoratori salariati che svolgono la medesima professione, costituire un’organizzazione per soli freelance o iscriversi presso un sindacato che si dimostri attento alla loro situazione lavorativa. Bologna indaga soprattutto la seconda strada.
La prima esperienza analizzata è la Freelancers’ Union (FU) americana fondata da un’avvocatessa del lavoro, Sara Horowitz, che ha compreso il malessere dei suoi colleghi freelance a partire dai racconti raccolti nel suo blog “Working Today”. Emergeva un bisogno di tutele e protezione che sono state raccolte dal sindacato da lei fondato capace di raccogliere risorse da fondazioni private e costituire una Insurance Company autorizzata ad operare nello Stato di New York. In questo modo, a prezzi competitivi, offre ai suoi soci un contribuito alle spese mediche e protezioni per infortuni e malattie.
“I pilastri dell’azione della FU sono quattro: 1) creare community, mettere le persone assieme (put freelancers together), 2) offrire maggiore copertura dai rischi di malattia e infortunio, contribuire ad abbassare le spese mediche (offrendo i servizi della propria Insurance Company o firmando delle convenzioni con medici, es. dentisti), 3) offrire consulenza fiscale ed altri aspetti della vita del freelance (quali tariffe applicare, quali condizioni contrattuali proporre al committente), 4) arginare la diffusione dei mancati pagamenti o dei pagamenti molto ritardati”5.
In Italia nel 2004 viene fondata l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato (ACTA) da un gruppo di freelance che lavoravano per istituzioni ed imprese. Le critiche mosse ai vari governi che si sono succeduti in Italia da questa organizzazione sono molteplici. Si passa dall’assenza del coinvolgimento dei lavoratori autonomi dalle politiche attive e passive del lavoro al fatto che debbano pagare l’IVA prima di aver incassato il reddito sul quale pagano questa tassa. Altri elementi criticati sono l’idea che si tratta di contribuenti da cui lo Stato debba ricavare solo risorse economiche e non come produttori di ricchezza, il diverso e più incerto trattamento in caso di malattia o infortunio rispetto ai lavoratori salariati e infine l’assenza di sufficienti strumenti legali per recuperare i crediti dai committenti morosi.
“Non avendo altri modi per diffondere il proprio messaggio che il sito Internet, non disponendo di uno staff retribuito ma dovendo appoggiarsi interamente sul lavoro volontario, ACTA ha cercato visibilità anche con azioni simboliche e fantasiose, come l’occupazione di certi siti, performances teatrali, flash mob, manifestazioni di piazza”6.
L’analisi di questo particolare segmento del mondo del lavoro risulta essenziale per comprendere il funzionamento dell’economia postfordista ed è un tema destinato ad avere una maggiore centralità in futuro.
- Sergio Bologna, Knowledge workers. Dall’operaio massa al freelance, Asterios, Trieste 2015, p.22 ↩︎
- Sergio Bologna, La new workforce. Il movimento dei freelance, Asterios, Trieste 2015, p.15 ↩︎
- Ivi, p.21 ↩︎
- Ivi, p.28 ↩︎
- Ivi, p.37 ↩︎
- Ivi, pp.41-42 ↩︎