venerdì 14 giugno 2024

VERSO UNO STATO DI GUERRA PERMANENTE?

-Andrea Fumagalli- La logica dei conflitti capitalistici 

Eccesso di capacità produttiva, ripensamento della globalizzazione, nuovo paradigma tecnologico, inflazione e aumento dei tassi d’interesse, tentativo di rilancio della supremazia USA e di riorganizzazione dei paesi del Sud globale sono gli elementi che caratterizzano questa fase di transizione egemonica – o meglio, di più transizioni egemoniche –  in cui ci troviamo. E proprio queste sono le fasi in cui, storicamente, la guerra si acuisce. Il rischio, ci dice l’economista, è che questa transizione non veda la fine in tempi brevi e ci trascini in uno stato di guerra permanente: un regime di guerra in cui essa non è più un fatto eccezionale ma diventa un nuovo modo di produzione

 Il tema della violenza è intrinsecamente legato all’economia politica. Esso si dipana su vari livelli e si manifesta in modi tra loro diversi e anche contraddittori. Non sempre è stato così. Quando la condizione economica non dipendeva da un qualche potenziale elemento di autonomia dell’agire umano ma era essenzialmente dipendente dalla condizione socio-politica di appartenenza e dalla natura, l’agire economico non implicava necessariamente forme di violenza, poiché la costrizione della violenza era già predeterminata dalla religione, dal genere, dall’etnia, dalla casta, dalla governance politica e dalla natura stessa.

È dunque con la nascita del capitalismo e il «libero» scambio sul mercato del lavoro che comincia a delinearsi il connubio tra economia politica e violenza. Capitalismo e guerra sono due facce della stessa medaglia e si alimentano a vicenda.

Nella fase attuale assistiamo tuttavia ad un’escalation: la guerra diventa non un fatto eccezionale, finalizzato a sanare una crisi temporanea, strumento congiunturale per passare a una nuova fase di accumulazione, ma un fatto strutturale: un nuovo modo di produzione che si pone in alternativa al comune come modo di produzione, per dirla alla Vercellone et alii[1].

Al riguardo, il libro di Andrea Pannone Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo ci offre una lettura assai stimolante. A differenza di altri importanti saggi sulla situazione geopolitica attuale[2], il libro di Pannone abbraccia l’intero periodo del nuovo millennio, con incursioni anche nelle ultime decadi del secolo XX. E cerca di delineare un mosaico che comprenda anche le problematiche che travalicano gli aspetti puramente economici[3], in particolare quelle dettate dall’emergenza ecologica e sanitaria (Covid 19) (cap. 4 e cap. 5).

Uno dei primi aspetti analizzati (cap. 2) è l’eccesso cronico di capacità produttiva e di capitale, una caratteristica che sembra essere strutturale nella storia del capitalismo. Come è noto, tale eccesso è alla base delle teorie dell’imperialismo che fanno riferimento a Lenin e a Rosa Luxembourg, e a loro volta al Marx delle Teorie del Plusvalore.

Pannone riassume la questione nel seguente modo:

 

Se nell’economia ci fosse eccesso di capacità produttività, (…) il processo lavorativo verrebbe limitato e una parte di quel capitale fisso (macchinario) resterebbe inoperosa e il ritmo della produzione rallenterebbe (p. 40).

 

La conseguente mancanza di valorizzazione dell’investimento effettuato (congiuntamente al deperimento delle macchine) ha come conseguenza il rallentamento se non il blocco del processo di accumulazione dando forma a una crisi economica. Da qui l’esigenza da parte del capitale di cercare nuovi territori da sottomettere alla logica del capitale, per poter sfuggire alla crisi. La stessa situazione di potenziale crisi quindi mette in moto un processo di allargamento dell’accumulazione capitalista in senso imperialistico.

La globalizzazione cominciata negli anni Ottanta si può ascrivere a questo modello interpretativo? E quindi può essere analizzata come conseguenza della necessità di sviluppare politiche imperialiste alla stregua di quelle analizzate da Lenin e Luxemburg?

Al riguardo Pannone evidenzia una osservazione empirica relativa agli ultimi 20-25 anni. Con riferimento agli Stati Uniti:

 

La media (del grado di utilizzazione produttiva, ndr.) delle due ultime decadi (2000-2021) si attesta oramai intorno al 73-74% ‒ quindi persistentemente al di sotto della capacità considerata «normale» ‒ sia negli Usa che in Giappone e nella maggior parte dei paesi europei (p. 43).

 

Siamo quindi in presenza di un’eccedenza di capacità produttiva protratta nel tempo, quasi strutturale. Ma ciò, differentemente da quanto si potesse pensare, non ha implicato che le macchine (del tutto o in parte) inoperose non si siano deteriorate nel tempo sino a distruggersi.

La ragione sta nella nuova forma che il fattore produttivo capitale ha assunto. Dal 1985, l’indice azionario S&P500 (che raccoglie le 500 corporation americane a più elevata capitalizzazione di borsa) ha rilevato che la quota di capitale intangibile (brevetti, R&S, brand, formazione, comunicazione, ecc.) ha per la prima volta superato il capitale tangibile, quello dei macchinari, dei mezzi di trasporto, dei fabbricati.

Tale dinamica è stata favorita dalle caratteristiche del nuovo paradigma tecnologico dell’ICT, basato non più su tecnologie meccaniche, ripetitive e statiche (produzione a stock) ma piuttosto su tecnologie linguistiche e comunicative e dinamiche (produzione a flussi). Ciò che diventa importante non è più solo la proprietà dei mezzi di produzione ma sempre più la proprietà intellettuale (controllo della generazione e della diffusione di conoscenza) insieme alla governance dei flussi finanziari, come nuova fonte di finanziamento e di valorizzazione, all’indomani del crollo di Bretton Woods.

La flessibilità del fattore produttivo capitale induce al noleggio più che all’acquisto. Di conseguenza, anche se il grado di utilizzo degli impianti, si mantiene al di sotto del livello considerato normale, ciò non genera effetti distorsivi pesanti sulla dinamica dell’economia reale. Tali effetti, piuttosto, si riversano sull’economia monetaria e finanziaria e non è un caso che nel corso degli ultimi tre decenni i fattori di crisi siano più legati alla finanziarizzazione della produzione che alla struttura produttiva stessa. In altre parole, se nel fordismo la crisi era originata da sovra-produzione o da sotto-consumo per poi trasmettersi al credito e alla finanza, ora avviene il contrario. Si tratta di un ulteriore conferma del ruolo centrale dei mercati finanziari nel capitalismo contemporaneo.

Alla luce di queste considerazioni Pannone ritiene che la tesi della centralizzazione della ricchezza, avanzata da Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel libro La guerra capitalista, debba essere rivista. Il fenomeno è sicuramente rilevante ma non dipende, come avveniva nel secolo scorso, dalla «tendenza necessaria del capitalismo di eliminare imprese poco efficienti e capitale sovrabbondante» (p. 134), all’interno di una logica imperialista, ma

 

Sembra avere principalmente origine da un piano parallelo alla sfera della produzione: quello dell’enorme espansione dei guadagni derivanti dal possesso di asset non riproducibili (come ad esempio titoli, azioni, beni immobili, ecc.), gonfiato di valore per riflesso di una sorta di meccanismo d’asta che favorisce scommesse e strategie speculative (p. 135).

 

Tramite la gestione di questi patrimoni, spesso in aree offshore per sfuggire alla tassazione, le grandi corporation controllano le catene del valore e la logistica delle supply-chain. Secondo Pannone questo nuovo processo di valorizzazione «limita la rilevanza attuale del meccanismo marxiano di estrazione del plusvalore pur non potendone sopprimere l’esistenza» (p. 135).

Tuttavia, occorre ricordare che se, in teoria, la sfera produttiva potrebbe vivere senza il business dei mercati finanziari, tale business ha invece bisogno di un sottostante «produttivo» e dell’esistenza di un qualche investimento produttivo.

Secondo Pannone, si genera così un equilibrio asimmetrico tra poteri a prevalente trazione finanziaria, basati su processi di «estrattivismo» e di «despossession» per dirla alla Harvey e poteri a maggior trazione industriale. I primi hanno come riferimento gli Stati Uniti, i secondi la Cina e più in generale l’area dei BRICS+. Tale asimmetria genera tensioni e crisi costanti. Da un lato, gli Stati Uniti hanno bisogno di mantenere l’egemonia del dollaro come unica valuta di riferimento internazionale, dall’altro i paesi BRICS+ aspirano al controllo della logistica internazionale, non a caso oggi diventata il principale terreno di scontro tra Usa e Cina.

L’emergenza sanitaria del Covid19 (cap. 5) così come la problematica ecologica (cap. 4), diventano terreni di scontro nel determinare la direzione della transizione egemonica in corso. Entrambe rappresentano il campo di battaglia del nuovo paradigma tecnologico tra tecnologie della vita, tecnologie verdi e tecnologie dei dati (algoritmi, cloud computing, data mining).

Da un lato, gli Stati Uniti voglio mantenere la supremazia dell’Occidente nei nuovi settori della business intelligence e dell’intelligenza artificiale, che oggi rappresenta il terreno più avanzato dello sfruttamento a fini capitalistici non solo del lavoro ma soprattutto della vita degli esseri umani, in stretta simbiosi con la dinamica dei mercati finanziari. Qui non siamo in presenza di solo «estrattivismo», siamo in presenza anche di un nuovo modello di sussunzione (la sussunzione vitale) che rigenera la teoria classica del valore lavoro in teoria del valore-vita. È un aspetto che Pannone tende a considerare poco ma che, a mio avviso, oggi rappresenta la forma più avanzata dello sfruttamento del capitale e al centro della ridefinizione geo-economica e geo-politica con i paesi del Sud Globale.

Dall’altro lato, abbiamo proprio i paesi del Sud Globale, che si stanno organizzando nei BRICS+ e puntano a ridurre il peso del dollaro come valuta di riferimento e la sua capacità di condizionare l’autonomia economica prima e politica poi di molti paesi post-coloniali.

Al riguardo è interessante il capitolo sull’inflazione dove giustamente si mette in risalto che il vero obiettivo della politica monetaria restrittiva che ha portato all’aumento dei tassi d’interessi non è la riduzione dell’inflazione ma la protezione della profittabilità del settore finanziario e soprattutto industriale. L’aumento dei prezzi che si è registrato nei due anni passati non è l’effetto di tensioni sociali ma dell’ampliarsi dei colli di bottiglia nella logistica (che ha portato all’aumento dei costi di trasporto) e dell’aumento dei prodotti energetici, a partire dalla speculazione sul prezzo del gas. Negli Stati Uniti, tale politica restrittiva ha avuto anche lo scopo di raffreddare la ripresa dell’attività sindacale a favore di aumenti salariali per far fronte alla perdita del potere d’acquisto (che in alcuni casi, come nel settore dell’automotive, sono stati anche consistenti).

Nonostante la preoccupazione che un aumento dei tassì d’interessi potesse comprimere gli indici azionari, dopo un breve periodo di sbandamento, è successo l’opposto. Le aspettative sono rimaste favorevoli grazie ai forti utili delle grandi imprese Usa ed europee in alcuni settori, (creditizio, farmaceutico, apparato militare industriale, settori della riproduzione sociale, che hanno beneficiato della congiuntura favorevole, a differenza del settore della logistica, del trasporto, della distribuzione commerciale). Un fattore decisivo è stato anche la tenuta del dollaro sul mercato internazionale dei cambi. La riunione delle tre Banche Centrali dell’Occidente (Federal Reserve, Bank of England e Banca Centrale Europea) in contemporanea con l’incontro dei BRICS+ a Johannesburg dello scorso agosto 2023 ha voluto confermare il primato del dollaro sui mercati creditizi e finanziari, l’ultimo ambito (essendo problematico quello logistico e militare) che rimane agli Usa per ribadire la sua supremazia economica. In quest’ottica, la decisione di mantenere alti, se non aumentare ulteriormente, i tassi d’interesse sembra essere più finalizzata anche e soprattutto a mantenere elevato il valore del dollaro (condizione, anche, necessaria per far fronte all’indebitamento interno ed esterno dell’economia Usa) più che a raffreddare un’inflazione già declinante.

Capitalismo e guerra si confermano strutturalmente interdipendenti. Soprattutto in una fase di transizione egemonica, come quella in cui ci troviamo. Già Giovanni Arrighi faceva notare come il passaggio da un’egemonia all’altra era caratterizzato dall’acuirsi della guerra. Oggi, tuttavia, siamo in una situazione nuova. Siamo difronte non a una transizione egemonica (come quella dall’Olanda alla Gran Bretagna – guerre napoleoniche – o dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti – le due guerre mondiali del XX secolo) in grado di definire lo stato vincente. Siamo di fronte a più transizioni egemoniche (al plurale) che segnano il passaggio da un mondo unipolare a uno multipolare. Il rischio è che questa transizione non veda la fine in tempi brevi e ci trascini in uno stato di guerra permanente: un regime di guerra. Per questo, Pannone nelle pagine conclusive allude alla necessità di riappropriarsi della cooperazione sociale che oggi sta alla base della valorizzazione capitalistica:

 

Sebbene il compito possa apparire titanico e velleitario, riteniamo che solo nella costruzione di una cultura dell’ascolto, della collaborazione, della pace e della convivenza civile, come nel rifiuto della logica dello sfruttamento dell’uomo e delle risorse naturali a esclusivi fini di profitto, sia possibile individuare lo spazio che dovrebbe presidiare qualunque iniziativa politica e sociale volta a un reale cambiamento (p. 145).

 

Si fa riferimento qui al «comune come modo di produzione», che abbiamo citato all’inizio?




Note

[1] F. Brancaccio ‒ A. Giuliani ‒ P. Vattimo ‒  C. Vercellone, Il comune come modo di produzione, Ombre Corte, Verona 2017, A. Fumagalli, Economia Politica del Comune, DeriveApprodi, Roma 2017.

[2] E. Brancaccio ‒ R. Giammetti ‒ S. Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano 2022; G. Palermo, Il conflitto russo-ucraino. L'imperialismo Usa alla conquista dell'Europa, L'Antidiplomatico, Roma 2022; R. Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale.

Strutture, strategie, contingenza, Asterios, Trieste 2022.[3] Come scrive Giulio Palermo, rifacendosi alla Teoria dell’Imperialismo di Lenin: «Gli eserciti ovviamente contano ma il motore del processo è economico, non militare» (Palermo, cit., p.10 ripreso da Pannone, p. 10). 

immagine di Salvador Dalì, Composition avec tour, 1943


 Recensione a 'Che cosa è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo' di Andrea Pannone

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