- Marco A. Pirrone -
l’ossessione securitaria
e la guerra alla migrazione
le politiche restrittive nei
confronti delle migrazioni sono sempre più crudeli
e sempre più spesso danno luogo -simbolicamente e fisicamente-
a muri e barriere
ai confini dei paesi riceventi uomini
e donne migranti in fuga
da varie parti del mondo
a muri e barriere
qual è l'origine di questa guerra al migrante ?
il liberismo ha utilizzato ad arte il
«panico da migrazione», sia per celare i disastri sociali, economici ed
ecologici da esso generati, sia per disciplinare la forza lavoro mondiale, inferiorizzando e schiavizzando uomini e donne migranti
Esiste un nesso molto forte tra le trasformazioni dell’economia e
della società nell’epoca della globalizzazione liberista e il senso diffuso di
insicurezza sociale ed economica, dovuto primariamente all’aumento delle
diseguaglianze economiche e sociali. Questa insicurezza viene socialmente e
politicamente convogliata sulle migrazioni internazionali, le quali ultime,
effetto anch’esse delle crescenti disuguaglianze mondiali, sono rappresentate,
attraverso un abile gioco di manipolazione informativa e politica, quali cause
o concause dei problemi del mondo più ricco e sviluppato o come una minaccia
verso di esso [1].
L’intento principale di questo intervento è dunque
quello di smascherare ciò che sta dietro al “panico da migrazione”, come lo
definì qualche anno fa Zygmunt Bauman, che caratterizza la nostra epoca,
offrendo al contempo strumenti di comprensione di questo fenomeno e delle
trasformazioni della società contemporanea.
L’attuale scenario delle politiche
migratorie europee e internazionali, con il suo portato razzista e, ahimè,
anche fascista, appare particolarmente preoccupante. Dagli Stati Uniti di Trump
all’Ungheria di Orban sino all'Australia di Turnbull (e prima di lui Abbott) le
politiche restrittive nei confronti delle migrazioni sono sempre più crudeli e
sempre più spesso danno luogo, sia simbolicamente che fisicamente, a muri e
barriere ai confini dei paesi riceventi uomini e donne migranti in fuga da
varie parti del mondo.
Anche l’Italia si è mossa sullo stesso solco. Pochi mesi dopo il
suo insediamento il nuovo governo italiano, in perfetta continuità con le
misure dei governi precedenti (di destra e dell’ex-sinistra), ha posto in
essere una linea politica «ostentatamente disumana» (Ferrajoli, 2018) nei confronti dei migranti, decidendo la chiusura
dei porti per impedirne gli sbarchi e approvando il decreto legge “sicurezza”,
contenente norme persecutorie e vessatorie nei loro riguardi.
L’Italia si è così confermata come il paese europeo all’avanguardia tra
quelli che con più accanimento si stanno impegnando nella «guerra alle
migrazioni» (Palidda, 2018) in nome
della “sicurezza”.
Ma
dove ha origine questa guerra alle migrazioni?
Confini, muri, atteggiamenti xenofobi,
razzismo sono tutti termini che stridono pesantemente con le parole d'ordine
della ideologia della globalizzazione capitalista/liberista: mobilità, libertà,
inclusione, integrazione, ricchezza, prosperità, sviluppo. L'economia
capitalista in questa fase di sfrenato liberismo ha veicolato fin dall'inizio
della sua affermazione parole d'ordine ispirate alla libertà e alla mobilità
(di merci, capitali, conoscenze, persone), quando in realtà le politiche della
maggior parte degli stati - ma anche di alcuni enti o organismi sovranazionali
- negano la libertà di movimento a molte persone in fuga dalle diseguaglianze
dei loro paesi o dai conflitti militari e politici o semplicemente perché
aspirano all’emancipazione e a una vita migliore.
A nostro parere esiste una relazione
inversamente proporzionale tra le parole d'ordine dell’ideologia liberista e le
politiche concrete di “guerra alle migrazioni” applicate dagli Stati. Essa ha
origine proprio a far data dalla “controrivoluzione” liberista, cioè sul finire
degli anni ’70, quando prende corpo la grande reazione dei dominanti contro le
conquiste operaie e popolari del decennio ’68-’78 e si aprono grandi scenari di
nuova accumulazione dei profitti da capitale dovuti alla liberalizzazione dei
mercati, soprattutto finanziari, e alla liberalizzazione del mercato del lavoro
su scala mondiale.
Il liberismo, attraverso i
suoi think tank, ha utilizzato ad
arte il «panico da migrazione», sia per celare i disastri sociali, economici ed
ecologici da esso generati, sia per disciplinare la forza lavoro mondiale,
inferiorizzando e schiavizzando uomini e donne migranti.
Fin dal suo inizio la vicenda delle migrazioni internazionali viene rappresentata
come una “invasione di massa” ed è associata, non solo in Europa, a termini, che ormai albergano nell’immaginario collettivo dei paesi
occidentali,
quali “insicurezza” e “paura”(come vedremo più avanti, osservando le cifre
delle migrazioni internazionali, si tratta di una vera e propria
mistificazione).
Tale rappresentazione ha ispirato, per converso, una
retorica della “sicurezza” nei confronti di uomini e donne migranti, “percepiti”,
come scrive Saskia Sassen,“per lo più come una minaccia: stranieri che vogliono
entrare in paesi più ricchi di quelli da cui provengono e chiedono che siano
loro aperti i cancelli, e che in caso di rifiuto li abbattono con la violenza,
oppure li varcano surrettiziamente”.
Sempre più amplificata dalla retorica pubblica e dai
media, oltre che alimentata ad arte dalle forze politiche razziste e fasciste,
tale rappresentazione ha trovato fondamento nella insicurezza degli
individui all’interno di quel fenomeno definito globalizzazione, che altro non
è l’espansione globale del capitalismo nella sua fase neoliberista.Tale
rappresentazione è funzionale all’individuazione delle migrazioni come una delle
cause dell’insicurezza sociale, celando così il fatto che esse stesse sono il
risultato degli effetti di erosione delle fondamenta della sicurezza sociale
determinati dal capitalismo neoliberista: flessibilità e precarietà
lavorativa, diffusione del lavoro in nero, disoccupazione, distruzione dei
sistemi di protezione sociale, redditi sempre più bassi, condizioni di lavoro
rischiose e pericolose, sistemi sanitari sempre meno accessibili ed efficaci,
cioè tutti quei processi che conducono alla disgregazione
del legame sociale - estendendo peraltro
la precarietà e l’insicurezza a tutto il mondo della vita–e a una società sempre più individualizzata
e competitiva. Le
restrizioni alla libertà di movimento delle persone si sono così rivelate funzionali
alle nuove dinamiche dell’accumulazione capitalistica e alle nuove forme di
disciplinamento della forza lavoro su scala globale.
Se la
paura verso lo straniero ha una molteplicità di ragioni sociologicamente
“comprensibili“ (Simmel, 1998, particolarmente
le pp. 580-584), la sua trasformazione in razzismo, nel frattempo
diventato un fiume sempre più gonfio e inarrestabile, che tracima in retoriche
e azioni violente, ha dunque dietro di sé precise ragioni.
In primo luogo l’affermazione del capitalismo neoliberista,
cominciata a fine anni Settanta del secolo scorso; in secondo luogo l’azione di
veri e propri impresari “morali”, non sempre coincidenti con gli attori
politici, che hanno alimentato il fuoco dell’odio e del razzismo nei confronti
dei migranti, additandoli come “causa” della presunta “crisi” economica, nonché
come nemici e minaccia per il nostro “stile di vita” (Bauman, 2016, p. 3); infine, la necessità di inferiorizzare e
criminalizzare i migranti con l’obiettivo sia di poterli governare meglio in
quanto forza lavoro (Pirrone 2007, 2013;
Palidda, 2008; Dal Lago, 1999) – privandoli di diritti e sottopagandoli,
cioè schiavizzandoli – sia di separare politicamente, e mettere gli uni contro
gli altri, gli sfruttati e gli esclusi autoctoni dagli stranieri e ottenere
così il consenso politico e la legittimazione alle politiche persecutorie nei
confronti dei migranti.
Rappresentare i migranti come i nemici dello
stile di vita e del benessere dei paesi ricchi, accusandoli di tutti i malesseri
e i problemi economici e sociali, consente ai dominanti dunque di raggiungere
il duplice scopo di nascondere lo sfacelo indotto dal dominio neoliberista e di
precarizzare e schiavizzare, oppure escludere completamente, la forza lavoro sia
straniera che, sempre di più, anche autoctona.
Veicolando tale rappresentazione si ottiene inoltre
l’obiettivo di
spostare altrove lo sguardo della società rispetto alla vera natura dei
problemi economici e sociali, facendo di alcuni soggetti (in questo caso i
migranti) – come già tragicamente successo in passato: i lavoratori nel XIX
secolo, le “classi pericolose”, viste come minaccia all’ordine industriale e
capitalistico, o gli ebrei nel XX secolo, “razza” inquinante e maligna – i
capri espiatori di situazioni molto più complesse, come quelle relative
all’economia capitalistica nella attuale fase di sfrenato liberismo globale.
Come numerosi dati e studi empirici dimostrano, cito per tutti
il World inequality report (Alvaredo, Chancel, Piketty, Saez,
&Zucman, 2018), la globalizzazione liberista ha acuito la
polarizzazione fra lo strato più ricco della popolazione mondiale, sempre più
concentrato in poche unità, e quello più povero, determinando così una più
accentuata e veloce proletarizzazione, impoverimento e precarizzazione sia
della classe media che della classe operaia nel suo complesso. È all’interno di
questo quadro di processi dell’economia capitalistica che ha origine l’insicurezza
sociale, sfruttata sia dalle istituzioni politiche che dagli attori economici
per convogliare «l’ansia, estesa e diffusa, verso una solo componente della Unsichereit
[incertezza,ndr], quella della sicurezza personale, l’unico ambito
in cui qualcosa può essere fatto e viene effettivamente fatto» (cfr. Bauman, 2000, p. 13) e quella dei
confini nazionali. L’altro, lo straniero, il diverso, il migrante è il perfetto
capro espiatorio per questa insicurezza e ansia. Il contraltare di questa
ossessione per la sicurezza, in un mondo in cui la circolazione di capitali e
merci è incontrollabile da parte degli stati, è il sovranismo, declinato in
termini di «padroni a casa nostra», «l’Italia agli italiani» o «prima gli
italiani», che diventa l’unica illusione di poter controllare qualcosa in un
mondo in cui i processi economici sono diventati estremamente difficili da governare
da parte di singoli paesi. È in tale contesto che si radica l’ossessione per la
sicurezza che caratterizza le società europee e quella italiana.
Del resto, il concetto di sicurezza, che indica la condizione che
rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di
prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze
spiacevoli, e simili, potrebbe essere declinato in tanti modi (sicurezza
alimentare, collettiva, del lavoro e sul lavoro, personale, sociale, economica,
sanitaria e della salute, informatica, tecnica, ambientale). Coloro che
invocano la sicurezza, non parlano mai, né si occupano di alcuna di queste
declinazioni della sicurezza (ed in campo sanitario e ambientale - pensiamo ai
disastri nucleari, al problema delle radiazioni elettromagnetiche o agli
effetti dello smaltimento dei rifiuti su territori e popolazione - i dati sono preoccupanti, solo per fare un
esempio), invocano invece solo quella che ha accompagnato la vicenda dello
stato moderno: il concetto di sicurezza
nazionale relativo alla sicurezza interna dello stato (non a caso il decreto
sicurezza bis di Salvini si occupa di migranti e di manifestazioni pubbliche
per controllare i movimenti di protesta) e alla sicurezza dello stato dalle
minacce esterne.
Che tali preoccupazioni dunque, e il «panico da migrazione» che ne
deriva, siano il risultato di una grande mistificazione, funzionale a gestire
la forza lavoro mondiale, nonché a contenere il disordine politico e sociale,
attraverso xenofobia e razzismo, è evidente anche osservando i numeri della
migrazione internazionale. Infatti, sia in termini di unità assolute che
percentuali, l’evoluzione delle migrazioni internazionali nell’ultimo cinquantennio,
oltre ad essere estremamente differenziata sul pianeta, appare molto distante
dal quadro cristallizzatosi nell’immaginario collettivo del mondo europeo e
occidentale. Se da un lato, come si può vedere nella tabella 1, il volume complessivo delle migrazioni internazionali
nel mondo, in termini assoluti, è quasi triplicato, tale dimensione va messa in
relazione alla crescita, nello stesso periodo, della popolazione mondiale, che
è più che raddoppiata (Tab. 2),
tanto è vero che – vedi tabella 3 –
il volume della mobilità umana nel pianeta, in termini percentuali, aumenta dal
1970 al 2017 solo del 1,2%. E ciò pur in presenza di un mercato del lavoro
divenuto effettivamente globale e di aree di conflitto sempre più disseminate
nel globo da cui fuggono molti uomini e donne. Se riflettiamo poi sul fatto che
all’interno delle cifre assolute dei migranti internazionali devono anche
essere considerati i rifugiati e gli sfollati di varie aree del pianeta,
estremamente variabili a seconda delle circostanze e contingenze politiche e
belliche, e che molti dei movimenti migratori interessano orizzontalmente le
aree di più recente sviluppo o le aree meno sviluppate del pianeta, ci si rende
conto che il quadro di allarme disegnato da politici, media e popolazioni
autoctone, in ambito europeo e italiano, poggia su fondamenta se non proprio
di argilla quanto meno molto fragili.
Anche a
livello europeo (Tab. 4), specificando
che stiamo utilizzando i dati ONU sullo stock dei migranti, senza fare alcuna
distinzione tra cittadini comunitari, non comunitari, cittadini nati in un
paese ma residenti in un altro, possiamo notare che, tranne poche eccezioni,
che riguardano alcuni paesi molto piccoli – come Lussemburgo, Austria e Irlanda
– la maggior parte dei paesi europei ha una quota di immigrati che si discosta
poco, in alto o in basso, dalla media europea che è del 10,9%. Notiamo anche
che i paesi che hanno oggi retoriche securitarie più allarmate e politiche
migratorie più restrittive e disumane, come Italia e Ungheria, hanno numeri di
immigrati, sia in termini assoluti che percentuali, al di sotto della media
europea.
Tabella 1. Migranti nel mondo 1960-2017 (entrambi
i sessi)
|
|
Anno
|
|
1960
|
75 463 352
|
1965
|
78 443 933
|
1970
|
81 335 779
|
1975
|
86 789 304
|
1980
|
99 275 898
|
1985
|
111 013 230
|
1990
|
152.542.373
|
1995
|
160.700.028
|
2000
|
172.604.257
|
2005
|
190.531.600
|
2010
|
220.019.266
|
2015
|
247.585.744
|
2017
|
257.715.425
|
Fonte:
United Nations [*]
|
Tabella 2. Popolazione mondiale
1960-2017
|
|
Anno
|
|
1960
|
3 023 670
|
1965
|
3 338 041
|
1970
|
3 696 128
|
1975
|
4 073 745
|
1980
|
4 442 309
|
1985
|
4 843 930
|
1990
|
5.330.943
|
1995
|
5.751.474
|
2000
|
6.145.007
|
2005
|
6.542.159
|
2010
|
6.958.169
|
2015
|
7.383.009
|
2017
|
7.550.262
|
Fonte:
United Nations
|
Tabella
3. Percentuale dei migranti internazionali sul totale della popolazione
1960-2017
|
|
Anno
|
|
1960
|
2,5%
|
1965
|
2,4%
|
1970
|
2,2%
|
1975
|
2,1%
|
1980
|
2,2%
|
1985
|
2,3%
|
1990
|
2,9%
|
1995
|
2,8%
|
2000
|
2,8%
|
2005
|
2,9%
|
2010
|
3,2%
|
2015
|
3,4%
|
2017
|
3,4%
|
Fonte:
United Nations
|
[*] I dati riportati
nelle tabelle sono estratti dal database delle Nazioni Unite consultabile a
questo indirizzo web: http://esa.un.org/unpd/wpp/index.htm
Tabella 4 Europa: presenza di immigrati per paese,
popolazione totale per paese, incidenza di immigrati sulla popolazione totale
per paese
|
|||
Paese
|
Popolazionestraniera
|
Popolazionetotale del paese
|
Incidenza % stranierisupopolazione
|
Austria
|
1.660.283
|
8.735.000
|
19,1%
|
Belgio
|
1.268.411
|
11.429.000
|
11,1%
|
Bulgaria
|
153.803
|
7.085.000
|
2,2%
|
Cechia
|
433.290
|
10.618.000
|
4,1%
|
Croazia
|
560.483
|
4.189.000
|
13,4%
|
Danimarca
|
656.789
|
5.734.000
|
11,4%
|
Estonia
|
192.962
|
1.310.000
|
14,7%
|
Finlandia
|
343.582
|
5.523
|
6,22%
|
Francia
|
7.902.783
|
64.980.000
|
12,2%
|
Germania
|
12.165.083
|
82.114.000
|
14,8%
|
Grecia
|
1.220.395
|
11.160.000
|
10,9%
|
Irlanda
|
806.549
|
4.762.000
|
16,9%
|
Italia
|
5.907.461
|
59.360.000
|
9,9%
|
Lettonia
|
256.889
|
1.950.000
|
13,1%
|
Lituania
|
124.706
|
2.890.000
|
4,3%
|
Lussemburgo
|
264.073
|
583.000
|
45,2%
|
Malta
|
45.539
|
431.000
|
10,6%
|
PaesiBassi
|
2.056.520
|
17.036.000
|
12,1%
|
Polonia
|
640.937
|
38.171.000
|
1,7%
|
Portogallo
|
880.188
|
10.330.000
|
8,5%
|
RegnoUnito
|
8.411.021
|
66.182.000
|
12,7%
|
Romania
|
370.753
|
19.679.000
|
1,9%
|
Slovacchia
|
184.642
|
5.448.000
|
3,3%
|
Slovenia
|
244.790
|
2.080.000
|
11,7%
|
Spagna
|
5.947.106
|
46.354.000
|
12,8%
|
Svezia
|
1.747.710
|
9.911.000
|
17,6%
|
Ungheria
|
503.787
|
9.722.000
|
5,2%
|
Totale
|
54.950.535
|
502.248.523
|
10,9%
|
Di conseguenza, il ragionamento fatto prima a livello di mondo
sulla paura dell’invasione ci sembra valga ancor di più nel caso europeo,
senza voler minimizzare le trasformazioni sociali e culturali che la presenza
di stranieri ha determinato e determina sul nostro continente.
Il
razzismo dilagante è dunque il risultato non dell’ignoranza ma di rapporti
sociali di dominio, anche di tipo neocoloniale, dei paesi più ricchi nei
confronti degli altri. Del resto, come sosteneva Immanuel Wallerstein:
Il razzismo
interno al capitalismo non ha niente a che fare con gli «stranieri». Tutto al
contrario. Il razzismo è stato il modo con cui vari segmenti di forza-lavoro
interni alla stessa struttura economica sono stati costretti a porsi in
relazione gli uni agli altri. Il razzismo è stata la giustificazione ideologica
per la gerarchizzazione della forza-lavoro e per una distribuzione fortemente
diseguale delle ricompense. [...] Le affermazioni ideologiche sono state la
forma assunta dalle accuse secondo le quali i tratti genetici e/o «culturali»
di lungo periodo dei vari gruppi erano in realtà la causa principale della
differente distribuzione delle posizioni all’interno delle strutture
economiche. Tuttavia, la convinzione che certi gruppi fossero «superiori» ad
altri, in certi connotati importanti al fine di avere successo in campo economico,
si è sempre concretizzata dopo che questi gruppi avevano assunto un posto
all’interno della forza-lavoro, e non prima. Il razzismo è sempre venuto post
hoc. Quelli che sono stati economicamente e politicamente oppressi sono
stati dichiarati culturalmente «inferiori» (Wallerstein, 1985, p. 62).
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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Chancel, L., Piketty, T., Saez, E., &Zucman, G. (Eds.) 2018, World
inequality report 2018, Belknap, Press of Harvard University Press,
interamente consultabile e scaricabile alla url: https://wir2018.wid.world/
Bauman,
Z., 2000, La solitudine del cittadino
globale, Feltrinelli, Milano
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Z. 2016, Stranieri alle porte, Laterza, Bari-Roma
Dal
Lago, A. 1999, Non persone. L’esclusione dei migranti nella società globale,
Feltrinelli, Milano
Ferrajoli,
L. 2018, La questione migranti: Italia incivile, Europa incivile,
Critica marxista, 5
Palidda,
S. 2008, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni,
Raffaello Cortina Editore, Milano
Palidda,
S. 2018, La guerra alle migrazioni ovvero la sussunzione di tutti i disastri
della deriva neo-liberista: il fatto politico totale, in Effimera,
consultabile alla url: http://effimera.org/la-guerra-alle-migrazioni-ovvero-la-sussunzione-tutti-disastri-della-deriva-neo-liberista-politico-totale-salvatore-palidda/
Pirrone,
M.A. 2007, La flessibilità. Ma di che parliamo?, in Grasso, M. 2007 (a
cura di), Migranti tra flessibilità e possibilità. Occupazione,
integrazione e relazioni familiari in Sicilia, Carocci, Roma
Pirrone,
M.A. 2013, Razzismo, razzializzazione e valorizzazione del capitale
all’epoca del capitalismo globale, in Grasso, M. 2013, Razzismi, discriminazioni e confinamenti, Ediesse, Roma, pp. 55-82
Simmel,
G. 1998, Sociologia, Edizioni di Comunità, Torino
Wallerstein,
I. 1985, Il capitalismo storico,
Einaudi, Torino.Razzismi, discriminazioni e confinamenti, Ediesse, Roma,
pp. 55-82
[1] Si vedano le dichiarazioni di
Donald Trump all’apertura della nuova campagna elettorale 2020 per le
presidenziali in Usa. Il Presidente americano ha dichiarato di voler continuare
la guerra ai migranti perché essi “spogliano gli americani dei loro diritti
costituzionali”
l'articolo è stato pubblicato in contemporanea su OSSERVATORIO . MdP-Mediterraneo di Pace
l'articolo è stato pubblicato in contemporanea su OSSERVATORIO .