Podemos torni a fare opposizione
Eoghan Gilmartin \ Tommy Greene
nelle elezioni generali
di aprile, Unidos Podemos era andata sopra le aspettative, pur avendo perso
circa un terzo dei parlamentari rispetto alla tornata elettorale precedente. Ma
alle europee ha riportato sconfitte significative su tutti i fronti
nelle «Città senza
paura», ad eccezione di Cadice e con difficoltà Barcellona, la sinistra
spagnola ha subito un ulteriore colpo, non è riuscita riconquistare città come
Madrid, Santiago de Compostela e Saragozza
Nel 2015 abbiamo assistito alla vittoria di una
serie di coalizioni locali radicali in diversi municipi in tutto il paese,
mentre a livello nazionale Podemos minacciava di soffiare l’egemonia a sinistra
al Psoe. Dopo la perdita di consensi di Podemos nelle elezioni politiche, la
sconfitta di maggio subita dalle coalizioni radicali in molti municipi è
sembrata una conferma della fine del momento post-Indignados nella politica spagnola. Come spiegheresti la
fase di risacca di questo movimento?
Per spiegarlo dobbiamo
considerare gli sviluppi di due movimenti differenti. Il primo copre un ciclo
più lungo, ed è legato alla reazione democratica della società spagnola alla
rottura del contratto sociale dopo la crisi del 2008. Il movimento degli Indignados aveva
richieste simili a quelle di Occupy Wall Street, ma [a differenza del movimento
americano] riuscì a mobilitare milioni di persone, dando vita a un vero e
proprio movimento di massa fondato sull’alleanza tra una gioventù precaria e
una generazione più vecchia, politicizzatasi durante il passaggio alla
democrazia negli anni Settanta. La generazione di mezzo fu meno attiva.
Grazie soprattutto
all’intelligenza e all’audacia di Pablo Iglesias, così come a quella di Ada
Colau, questa indignazione è riuscita a esprimersi in maniera politicamente
organizzata. Nel 2014, l’ingresso di Podemos nella vita politica ha portato, a
sua volta, all’apertura di un secondo ciclo, più piccolo, nel quale le élite
hanno provato a neutralizzare la minaccia al regime esistente.
Questo contro-movimento
all’inizio è stato composto di tre cose. Primo, una campagna di diffamazione
contro Podemos, con tanto di azioni illegali di spionaggio politico e
collusione tra politici di alto livello, polizia e media corporativi. Secondo,
la comparsa di un nuovo partito di centrodestra, Ciudadanos. Originariamente
piccolo partito regionale della Catalogna, è stato pesantemente finanziato
dalle potenze economiche col fine di ostacolare dal centro la crescita di
Podemos. Terzo, le dimissioni del re [Juan Carlos de Bourbon] un mese dopo
l’irruzione di Podemos [dopo quasi quarant’anni di regno] e il tentativo di
rinnovare le istituzioni attorno a suo figlio Felipe.
Chiaramente ci sono
stati anche altri elementi che sono entrati in gioco in questa campagna di
contenimento. Fra questi figurano la ripresa parziale della crescita economica
e – probabilmente il più decisivo – la crisi catalana nel 2017. Questi vari
elementi, messi insieme, hanno prodotto un nuovo scenario con coordinate
diverse da quelle del 2014-16 – uno scenario a cui Podemos non è stato capace
di adattarsi. E così il partito ha cominciato a commettere degli errori, il più
importante dei quali è stato l’incapacità di gestire le divergenze politiche
interne alla leadership. Il cuore del gruppo dirigente del partito non è stato
capace di fare quadrato attorno alle proposte politiche, non per via di
fondamentali differenze strategiche ma per una lotta di potere intestina.
La spinta democratica si
è infine placata con la caduta del governo del Partido Popular lo scorso anno,
mentre il sistema si stabilizzava attorno alla figura di Pedro Sánchez. Quando
è subentrato il Psoe [con il supporto del partito di Pablo Iglesias nel
decisivo voto di fiducia] Podemos ha definitivamente perso il controllo del
processo. Da questo punto di vista possiamo parlare della fine di un ciclo
apertosi con le rivolte degli Indignados.
Ma c’era una qualche alternativa al supporto alla
mozione di sfiducia al governo di Mariano Rajoy che ha portato Sánchez al
potere? Come avrebbe potuto Podemos impostare diversamente la propria relazione
con lui e con i Socialisti?
No, hai ragione, non c’era
nessuna alternativa reale se non supportare Sánchez. Ma avremmo dovuto
ripensare totalmente la nostra tattica, e invece non l’abbiamo fatto. Entrando
in una relazione di cooperazione conflittuale con il governo del Psoe, era
essenziale rafforzare l’autonomia dell’identità e del progetto politico di
Podemos. Non avremmo dovuto continuare come prima, con un’organizzazione di
partito debole e ignorando la necessità di costruire anche strutture
extra-istituzionali.
Al contrario, quando ha
assunto l’incarico la tattica di Pedro Sánchez per il Psoe è stata molto
chiara. Consisteva in quello che il Partito Socialista ha sempre fatto –
neutralizzare tutto ciò che c’è alla sua sinistra per poter guardare al centro
in cerca di una maggioranza. Sin dall’inizio, ha voluto ridurre il più
possibile il supporto elettorale di Podemos. Solo così il Psoe sarebbe stato
libero di realizzare la propria agenda.
Ma quello che non avrei
mai potuto immaginare è che, messa di fronte a queste contraddizioni, la
leadership di Podemos avrebbe deciso di adottare come proprio slogan elettorale
la promessa di governare con il Psoe. È per questo che non mi sono ricandidato
– non volevo governare con i Socialisti. E non perché sono settario. Un’alleanza
social-democratica come quella del Partito Laburista di Jeremy Corbyn mi
sarebbe piaciuta, ma il Psoe è legato al sistema esistente ed è incapace di
rompere con il regime neoliberista spagnolo.
Inoltre, come abbiamo
visto dai risultati elettorali, avvicinarsi al Psoe con l’obiettivo di
governare è, in ultima analisi, controproducente. Il nostro progetto perde la
sua indipendenza mentre il voto utile favorisce il partito più forte della
coalizione. Questa dinamica fa parte di quella che io chiamo il «prigionieri
problema Iu», per esempio, la trappola in cui Izquierda Unida è sempre caduta:
ogni volta che si è avvicinata ai Socialisti sperando di governare, ha finito
per perdere voti e di conseguenza per perdere peso politico e dunque influenza
sul governo.
Questo è il dilemma di
Podemos oggi, quando ormai la possibilità che potesse rivaleggiare con il Psoe
per l’egemonia è svanita. Dato l’attuale rapporto di forze, sembra difficile
immaginare di poter raggiungere un accordo soddisfacente su un programma di
governo. Se i Socialisti non erano disposti ad accettare una coalizione ad armi
pari prima, perché dovrebbero accettarla adesso che hanno riguadagnato il
vantaggio? Perché Sánchez dovrebbe accettare di entrare in coalizione con un
Podemos indebolito?
Hai fatto cenno prima al fatto che Podemos ha
faticato a risolvere il problema dell’organizzazione. Un fatto evidenziato
dagli scarsi risultati nelle elezioni di maggio, notevolmente inferiori
rispetto ai numeri portati a casa nelle elezioni politiche di solo un mese
prima. Il voto nazionale ha reso evidente che una campagna incentrata sulla
figura di Iglesias può ancora mobilitare una fetta consistente di elettorato,
mentre le elezioni regionali hanno sottolineato la mancanza di un radicamento
territoriale del partito. Fino a che punto ritieni che ciò sia dovuto alle
scelte della leadership di Podemos? Ed è giusto collegare il suo fallimento al
fallimento più generale di tutte le organizzazioni emerse dopo la crisi del
2008? Sto pensando a France Insoumise o anche a Barcelona en Comú, che pur
avendo un’organizzazione interna più sana non è un partito di massa
Come ha spiegato
l’analista politico irlandese Peter Mair, confrontando questo fenomeno con
l’epoca della democrazia dei partiti di massa – nell’Europa contemporanea c’è
un vuoto tra la società e i partiti politici. Non ci sono più corpi intermedi a
organizzare e mediare tra la vita di tutti i giorni e le istituzioni politiche
formali. Questo contesto chiaramente porta al tipo di struttura partitica che
abbiamo visto con Podemos e France Insoumise, dove conta molto la relazione tra
il leader carismatico e l’elettorato.
Ma per me la leadership
di Podemos è riuscita a trasformare questo vizio in una virtù: partendo dal
presupposto che le persone non si sarebbero mai dedicate all’attivismo di
partito, si sono concentrati sul creare un piccolo gruppo di quadri dirigenti
in grado di intervenire nelle istituzioni. Non sono mai stati davvero
interessati al difficile lavoro di ricostruzione di un partito di massa dalla
testa ai piedi. Il risultato è stato che in un paio d’anni Podemos è diventato
ciò che Mair chiama un «partito cartello» – un corpo centralizzato e
professionalizzato che dipende dalle risorse statali per finanziarsi ed è privo
di democrazia interna in termini sostanziali.
Pablo Iglesias ha
guadagnato legittimità dalla relazione diretta e non mediata con la base del
partito. Periodicamente si votano le proposte che avanza Iglesias, ma senza che
ci sia un vero e proprio contraddittorio o un dibattito interno agli organi del
partito. La base non ha i mezzi per avanzare proposte dentro le strutture
partitiche. Nel voto per i candidati alle elezioni politiche, ad esempio,
Iglesias ha proposto la sua lista senza che ci fossero però alternative, e così
i membri si sono limitati a votare sì o no a quella lista.
Ma al momento della
verità, il maggior radicamento sul territorio dei partiti tradizionali è emerso
con chiarezza. Il Psoe continua ad avere una base di attivisti organizzata che,
seppur un po’ vecchia, si estende per tutta la Spagna fino all’ultimo villaggio
o cittadina. Ed essendo ritornato al potere, il partito sta anche conquistando
nuovi membri. È questo che conta nelle elezioni locali e regionali.
Senza l’alleanza con
Izquierda Unida, sostenuta dai Comunisti, per Podemos sarebbe andata ancora
peggio. La ragione per cui in Andalusia siamo andati meglio che alle politiche
è che abbiamo potuto sfruttare l’organizzazione e l’attivismo del Partito
Comunista nella regione. Sono stato eletto deputato a Córdoba, e in tutta la
provincia Podemos ha soltanto 120 attivisti, ma i Comunisti avevano abbastanza
persone sul campo da riuscire a conquistare il consiglio municipale di ben
quindici città. Questa situazione non è responsabilità esclusiva di Pablo, ma anche
della leadership regionale dell’Andalusia.
La perdita della maggior parte delle città
ribelli della Spagna – conosciute come «Città senza paura» – è stato un altro
duro colpo per la sinistra. Nelle città più grandi, dove la posta in gioco era
più alta, le amministrazioni municipali sono state sottoposte a grosse
pressioni e hanno fatto fatica a fare passi in avanti. Madrid è l’esempio più
chiaro del tentativo delle élite di sabotare l’agenda del consiglio, ma è
giusto dire che, alla fine, è stata la sindaca Manuela Carmena a non voler
combattere contro le maggiori potenze economiche della città?
Certo, lo si può dire di
Carmena, ma anche di Ada Colau a Barcellona – così come dell’amministrazione di
Santiago de Compostela, La Coruña, Cadice, ecc. Il problema principale è che,
dopo la crisi finanziaria, in Spagna la capacità di gestire efficacemente e
governare le città si è fortemente ridotta. Solo nell’ultimo anno o anno e
mezzo queste amministrazioni hanno avuto dei soldi da spendere. Il consiglio
comunale di Madrid aveva un grosso disavanzo di soldi da poter investire ma le
leggi finanziarie dello stato le impedivano di farlo. Quei soldi sono serviti a
ripagare gli enormi debiti contratti dal precedente governo cittadino del
Partido Popular.
La critica che fai –
avanzata da molti settori di Podemos e da alcuni di Izquierda Unida – è
sicuramente vera, secondo me. Però è davvero difficile governare una città
quando i conflitti interni ai partiti politici vengono scaricati sulle spalle
dell’amministrazione municipale. Credo che nel consiglio municipale di Madrid
ci sia stata troppa partigianeria e non abbastanza coerenza nella gestione.
Questo ha generato divisioni, portando a posizioni in cui ci si trovava di
fronte a scelte binarie: o sei dalla parte di Carmena in tutto e per tutto, o
sei contro di lei.
La coalizione di Carmena
era molto variegata, e includeva diversi partiti e gruppi dei movimenti
sociali. I vari attori coinvolti non hanno provato a trovare dei compromessi,
per non parlare di sviluppare meccanismi capaci di superare queste divisioni.
L’unica cosa a cui puntavano era essenzialmente la redistribuzione del potere
all’interno dell’organizzazione. È stato così stupido, così miope. Per esempio,
Pablo Iglesias non ha ostacolato l’inversione a U di Carmena sull’Operazione
Charmartin [lo sblocco del piano di costruzione di un enorme distretto
finanziario a nord di Madrid] – ma si è scontrato con lei per il controllo
delle liste elettorali! Se c’è un problema politico, lo devi sollevare e
discuterlo come tale. Ma quello che non puoi fare è lasciare che tutti si
facciano la guerra tra di loro e arrivare cinque minuti prima delle elezioni e
dire: «Comunque sia, dovete inserire in lista questi cinque candidati».
Esiste una cosa chiamata
gestione del conflitto, e Pablo non è riuscito a gestire bene il conflitto
interno a Podemos, dato che punta sempre a stabilire relazioni dirette con i
suoi sostenitori.
L’ex-vice leader di Podemos Iñigo Errejón a
febbraio ha scelto di dare vita a una nuova piattaforma elettorale con Carmena,
Más Madrid. Mentre Carmena si ricandidava sindaca, Errejón si è candidato per
la presidenza della regione, dove ha ottenuto un buon risultato. Quale sarà la
sua prossima mossa?
Credo che abbia lasciato
Podemos per sempre. La rottura è definitiva, e lui e i suoi uomini vorranno
creare un partito a livello nazionale. Non ci sono elezioni all’orizzonte, e
dunque si prenderanno il loro tempo e costruiranno con calma questa nuova
organizzazione, più simile a una federazione, con l’obiettivo di attrarre
alcuni degli altri gruppi regionali che si sono divisi da Podemos.
E quale dovrebbe essere il prossimo passo di
Podemos?
C’è un sacco da fare!
Per quanto riguarda la sinistra radicale spagnola, in una prospettiva storica,
abbiamo più deputati che mai – quarantadue. Ma ci sono tanti problemi tra
Izquierda Unita (Iu) e noi, e molte persone se ne sono andate. Quello di cui
abbiamo bisogno è accumulare forze. Questo significa lasciare da solo il
governo del Psoe e andare all’opposizione, mentre ricostruiamo il progetto dal
basso.
In questo senso ho
proposto due cose: una è di indire gli stati generali della sinistra spagnola –
non solo un congresso di partito di Podemos o di Izquierda Unida – così da
ritornare a una politica di massa che metta le persone di nuovo al centro, e
concentri il dibattito sulla necessità di un progetto nazionale alternativo.
Secondo poi, dobbiamo rafforzare il progetto creando assemblee congiunte e
commissioni aperte al pubblico. Durante gli ultimi anni Izquierda Unida ha
perso sia membri che attivisti. Ora è più debole di quanto non fosse quando
stava sola, senza Podemos, e gli attivisti rimasti stanno diventando sempre più
irrequieti su quest’alleanza.
Ma non dobbiamo essere
pessimisti. Il Psoe è più debole che in passato – la sua forza adesso è quasi
interamente virtuale. Il partito si presenta come la nuova forza guida
dell’Europa socialdemocratica e, chiaramente, rispetto al 2015-2016 ha
riguadagnato forze. Ma bisogna tener presente che ha comunque ottenuto il terzo
peggior risultato della sua storia! Il progetto di restaurazione portato avanti
dall’establishment spagnolo è dovuto più alle nostre debolezze e miopie che
alla propria forza. E per questo motivo è possibile per noi andare avanti.
Questo momento di stabilità non è destinato a
durare – basta guardare all’Europa…
Sì, una piccola crisi
economica, o un atto di aggressione internazionale nel Medio Oriente potrebbero
aprire di nuovo la partita. E anche se in Spagna l’establishment ritrovasse una
parvenza di stabilità, il mondo sta andando verso uno stato di caos quasi
permanente. È questa per me la chiave. Pablo ha insegnato geopolitica ma non
sembra comprenderla, non sembra capire cosa sta succedendo nel mondo. Il mondo
sta andando verso il caos, verso una nuova grande transizione che è già
cominciata. Stiamo per entrare in un periodo simile a quello che l’Europa ha
vissuto tra il 1875 e il 1914 – che ha visto il fallimento della prima grande
ondata di globalizzazione. Ora stiamo per entrare nel periodo di fallimento
della seconda grande ondata di globalizzazione. E questo è qualcosa che Podemos
ancora non capisce.
*Manolo Monereo è un
ex-deputato di Podemos. Voce chiave della sinistra spagnola per oltre
trent’anni, è un autore, un attivista, e un avvocato del lavoro. È stato
imprigionato molte volte sotto il regime di Franco per via del suo ruolo nella
Gioventù Comunista
Eoghan Gilmartin è uno
scrittore, un traduttore e un collaboratore di Jacobin di stanza a Madrid. È anche un
membro di Podemos
Tommy Greene è un
giornalista freelance e un traduttore di stanza a Madrid
Questo articolo è uscito
su Jacobinmag.com
La traduzione è di Gaia
Benzi