Maria
Concetta Sala1
Rosa Luxemburg
la militante protesa verso
«tutto il mondo ridente dei fenomeni»
La
sua «inesauribile letizia interiore» si è tradotta in amore per il mondo che è di per sé politica, una politica rivoluzionaria che si radica nelle condizioni materiali e simboliche delle e dei singoli e dei contesti
È questa l’eredità che raccogliamo dalla sua
vita e dalla sua opera e che la colloca nel novero delle donne a cui dobbiamo
una re-visione delle categorie della conoscenza non disgiunta dalla percezione
e dall’azione
Al contrario di tanti capi del movimento operaio, e soprattutto dei bolscevichi, in particolare Lenin, Rosa non ha ristretto la propria vita entro i limiti dell’attività politica. Fu un essere completo, aperto a ogni cosa, e al quale non era estraneo alcunché di umano. La sua azione politica era solo una delle espressioni della sua natura generosa. Da questa differenza tra lei e i bolscevichi riguardo all’atteggiamento interiore del militante nei confronti dell’azione rivoluzionaria derivarono anche i grandi disaccordi politici che nacquero tra loro, e forse, se Rosa fosse vissuta, il tempo non avrebbe fatto altro che acuirli. È grazie al carattere profondamente umano di Rosa che la sua corrispondenza conserverà sempre un interesse attuale, qualunque cosa apporti il corso della storia»[2] – così leggiamo in una stringata recensione che la filosofa Simone Weil scrisse subito dopo aver letto la traduzione francese di una raccolta di lettere dalla prigione della rivoluzionaria polacca. Ed è proprio in virtù dell’umanità intrinseca al temperamento di una delle grandi personalità della tradizione marxista che sarebbe quanto mai necessario,a cento anni di distanza dal suo assassinio durante la repressione del moto spartachista (gennaio del 1919), leggerne e rileggerne le raccolte epistolari, giacché lo esigono questi nostri tempi, in cui siamo legni vieppiù storti. Una lettura che non può condursi se non riconoscendo la soggettività sessuata di chi scrive e di chi legge, soggettività sessuata che è una faccenda inerente non all’ontologia ma alla materia di cui siamo fatti, al nostro essere corpi sessuati dotati di cuore e di mente.
La
corrispondenza qui presa in considerazione è quella apparsa in modo poco
lineare e non sempre accurato nelle diverse traduzioni italiane. Essa copre un
arco temporale che va dal 1894 all’11 gennaio 1919, e ne sono destinatari,fra
gli altri, i compagni di vita e di lotta come Leo Jogiches, Kostja Zetkin, Paul
Levi, Hans Diefenbach e alcuni esponenti della socialdemocrazia come Karl
Kautsky, il giornalista Konrad Haenisch,
lo storico Franz Mehring, il pedagogista Robert Seidel, il politico Walter
Stoecker che morirà a Buchenwald, il coredattore della «Neue Zeit» Emmanuel
Wurm. E le amiche e compagne di lotta, quali, ad esempio,Louise Kautsky, Eva
Mehring, Mathilde Seidel, la collaboratrice domestica Gertrud Zlottko,la
traduttrice Mathilde Jacob, la storica dell’arte Sophie Liebknecht, la fondatrice
del partito comunista olandese Henriette Roland-Holst, la militante del movimento
delle donne socialdemocratiche Marta Rosenbaum, la giornalista Mathilde Wurm,
la dirigente dell’ala sinistra SPD e delle donne socialdemocratiche Clara
Zetkin, cofondatrice della lega di Spartaco e del Partito comunista di
Germania. Dalle lettere emerge non solo il suo legame «da ogni parte, con sottili
fili diretti, a mille creature grandi e piccole», con le quali vibra
intimamente,[3]
ma anche la sua risolutezza a vivere la propria vita secondo una visione che
evoca nel suo aspetto più profondo quella di una Simone Weil o di una Etty
Hillesum. Lo si può costatare nelle parole con cui Rosa Luxemburg risponde alla
questione «Perché è tutto così?» postale da Sophie Liebknecht: «Bambina mia,
“così” la vita lo è da sempre, vi rientra tutto: dolore e distacco e ansia.
Bisogna sempre prenderla con tutto ciò che comporta, e bisogna trovare tutto
bello e buono. Io almeno faccio così per mia natura. Io sento istintivamente
che questa è l’unica maniera giusta di prendere la vita, e perciò mi sento
veramente felice in ogni situazione. Neppure vorrei essere privata di niente
della mia vita, né vorrei avere nient’altro da quello che questa è stata ed è».[4] Ciò non significa che nel suo intimo non si diano passaggi
improvvisi di «vento glaciale» e che la «raggiante serenità» non si trasformi talvolta
in «profondissima desolazione», ma in casi simili dalle sue labbra non esce «neppure
un suono»; proprio per questo ha deciso di rinunciare alla gattina Mimi, una
«bestiolina abituata all’allegria», che in cella sarebbe precipitata nella
malinconia.[5] Al temperamento di Rosa è «avverso tutto ciò
che è decadente e perverso», come «le leggiadre marchesine incipriate del
rococo» inquietanti al pari delle orchidee che, pur «nella loro grazia leggera
e nelle forme fantastiche»denotano qualcosa di artificioso, di innaturale; a
lei procura molto più piacere «il dente di leone» che si apre«con pienezza e
riconoscenza alla luce del sole» e si richiude«con timidezza alla minima ombra».[6] La donna decisa a coltivare i propri
amori, ostinata nel combattere per la propria quotidiana felicità si dichiara consapevole
delle proprie risorse interiori e della propria autonomia, tanto da ribattere più
volte all’amato Leo Jogiches che è in grado, pur dipendendo dalle entrate di
lui, «di guadagnare» per vivere e, quando e se avrà un figlio,di «educarlo anche
da sola».[7]
Si respira in molti luoghi della vasta corrispondenza l’incrollabile fiducia
che Rosa Luxemburg ha nel valore dell’umano, ovvero nel saper «rimanere saldi e
sereni » e, quando è necessario, nel «gettare con gioia la propria vita “sulla grande
bilancia del destino”», anche se dichiara di non poter trasmettere alcuna
«ricetta per essere umani» e di sapere
«soltanto come si è umani».[8]
Costretta a trascorrere il terzo
Natale in galera, in un’oscura cella di Breslavia, distesa su un duro materasso
in un silenzio cimiteriale, malgrado la desolazione comunica a Sophie la
propria «incomprensibile, sconosciuta gioia intima» e le suggerisce la via per
accedere al bello e agli aspetti lieti della vita, ovvero saper guardare e
ascoltare nel modo giusto ciò che ci circonda. Non si tratta però di
appagamenti ascetici o immaginari, bensì di gioie sensibili e reali, perché si
può andare «attraverso la vita in un mantello stellato» che protegga «da tutto
ciò che è meschino, triviale e pauroso».[9] Dalla
lettura delle sue lettere e nel contempo dei suoi scritti teorici emerge con
evidenza che non c’è, da una parte, la donna singolare più o meno fragile e
stoica e, dall’altra, la militante rivoluzionaria più o meno rigorosa e
inflessibile che riversa nella politica, nella palestra della pluralità, il
proprio desiderio di vita. Il suo modo di
occuparsi delle questioni dell’epoca e di schierarsi contro le
ingiustizie a favore della costruzione di un ordine sociale totalmente nuovo attraverso
una rivoluzione di lunga lena è il riflesso di un’attitudine interiore pervasa
da un’intima gioia che si effonde nell’amore per la vita e gli esseri umani e
che ineluttabilmente la porta a gettarsi nella mischia.[10]
Non dettata dalla semplice adesione al marxismo è pertanto la scelta di Rosa
di militare a fianco degli oppressi, e non casuale è il fatto che nella
militanza si esponga caparbia e tenace,sicura di sé e dei propri talenti,
eppure mai saccente o opportunista e in ogni occasione schietta e coerente. La
sua franchezza è netta: si scaglia senza ricorrere a circonlocuzioni contro il
“cretinismo parlamentare diffuso all’interno del partito”[11],
proclama un’indefessa resistenza al gioco dei «bonzi ufficiali del partito»;[12]
e risponde con il «muto disprezzo» ai volgari attacchi ricevuti da amici
e avversari, perché le diffamazioni personali nei suoi riguardi non sono altro
che «una manovra per eludere le divergenze d’ordine politico».[13]
Fin dal suo ingresso nel partito
tedesco (1898) dimostra di essere lucida sui rapporti di forza al suo interno e
sulle «tante debolezze di carattere» che vi circolano, così da desiderare dopo
ogni riunione di tornarsene in fretta nella sua «tana di topo».[14]
A questo proposito confessa a
Robert Seidel che le è impossibile «stare un solo giorno tra la folla» senza
avvertire la perdita di qualche
particella di sé, ma che le è sufficiente trascorrere una sola giornata in
solitudine per ritrovarsi;[15]
altrove gli confida di essere uscita da una «grave crisi morale»
rimanendo fedele a sé stessa, vale a dire protesa verso
«tutto il mondo ridente dei fenomeni, che sta al di là delle forme statuali
e dei doveri del cittadino».[16]
E a Leo dichiara che la «suprema ratio» alla quale è arrivata attraverso la sua
esperienza rivoluzionaria polacco-tedesca «è quella di essere sempre se stessi,
completamente, senza tener conto dell’ambiente e degli altri».[17]
Anche nella ricerca di uno stile espressivo si rivela questo esserci
tutt’intera di Rosa Luxemburg, come trapela non solo dalle sue rimostranze nei
confronti della maniera convenzionale, legnosa, stereotipata «in cui la
maggioranza dei membri del partito scrive i propri articoli», ma anche dalla
sua presa d’atto «che in effetti il mondo è cambiato e tempi nuovi richiedono nuovi
canti ; ma richiedono appunto “canti”» e non uno scribacchiare che emette «un
grigio e sordo ronzio, il suono di un ingranaggio», perché «ci si abitua così
tanto a un concetto che si finisce per ripetere a pappagallo come un
padrenostro anche le verità più grandi e profonde».[18] È
un insegnamento che bisognerebbe accogliere, dato lo straripare di frasi fatte,
di slogan, di ripetizioni assordanti, di menzogne in cui annaspiamo. La ricerca
di uno stile espressivo consonante con il proprio sentire e con quello altrui
balza evidente allorché Rosa, dopo aver spedito le bozze dell’opuscolo Sozialreform oder Revolution?, scrive a
Leo che è posseduta dal bisogno di una forma dello scrivere incurante delle
regole e degli stereotipi «in virtù della forza del pensiero e della
convinzione», e che avverte l’esigenza di uno stile che incida«sulla gente come
un fulmine», non con i mezzi della retorica«ma con l’ampiezza delle idee,con la
forza della convinzione e con la forza dell’espressione».[19] E
in qualche modo avrebbe raggiunto questo traguardo nell’opera nota come Die
Antikritik, e ne è consapevole: «la forma è stata portata alla massima
semplicità, senza più accessori, senza più civetterie e sfavillii, piana,
ridotta solo alle grandi linee, vorrei dire “nuda” come un blocco di marmo.
Questo è adesso l’indirizzo del mio gusto in generale che apprezza nei lavori
scientifici come nell’arte solo la semplicità, la calma e la grandiosità, per
cui ad esempio il famosissimo primo volume del Capitale di Marx, con il suo
sovraccarico di ornamenti rococo in stile hegeliano, per me adesso è un orrore
(cosa per cui meriterei, secondo il partito, cinque anni di carcere duro e
dieci di perdita dell’onore...)»; sottolinea tuttavia che, per entrare nel
merito delle sue critiche agli epigoni del marxismo, bisogna conoscere
benissimo l’economia politica, in particolare quella di Marx, ma che di simili
mortali ce ne sono davvero pochissimi e in tal senso i suoi lavori sono «merci
di lusso e potrebbero essere stampati su carta a mano».[20] Per
questa nudità Rosa Luxemburg ha nondimeno vissuto e sentito fino in fondo
l’oggetto della sua ricerca abbandonandovisi tutt’intera: «Il periodo in cui
scrissi l’Accumulazione [Die Akkumulationdes Kapitals] è stato uno dei più
felici della mia vita», rivela all’ultimo compagno di vita Hans Diefenbach,«e
non so dire che cosa mi abbia procurato una gioia più intensa: il processo del
pensiero, quando rimuginavo una questione intricata andando lentamente su e giù
per la stanza, osservata con attenzione da Mimiche se ne stava a zampette
incrociate sul tavolo con la felpa rossa, e la testina intelligente andava in
su e in giù appresso a me, oppure la
strutturazione, la ricerca, penna alla mano, d’una forma letteraria. Sa che
allora scrissi d’un fiato, in quattro mesi – cosa inaudita! – tutt’e trenta i fogli, e che consegnai
direttamente per la stampa la brutta copia senza neppure rileggerla? In modo
simile m’è andata alla Barnimstrasse con l’Anticritica [Die Antikritik]. Ma
dopo un lavoro tanto appassionato io ho perso ogni interesse».[21]
Ciò che l’avrebbe accompagnata senza stacco è invece l’amore travolgente per la
poesia tale da esercitare su di lei un’azione profonda «quasi fisiologica»,
come se con labbra arse dalla sete sorseggiasse una bevanda così quisita da
percepire subito un’intima frescura e la guarigione di «corpo e anima».[22]
E a proposito delle sue passioni confida all’amica Luise Kautsky la frenetica
ebbrezza che ogni volta l’assale, sia che si tratti di scrittura, sia nel caso
della pittura, sia nel corso della raccolta delle piante e della loro
catalogazione in ben dodici erbari, e sembra concluderne che soltanto per una
svista si è trovata a girare «nel turbine della storia mondiale», mentre in
realtà era nata «per fare la guardiana delle oche».[23] Vissuta in un contesto di delitti e idiozie enormi,
in tempi da lei tuttavia giudicati
«meravigliosi» perché ponevano «problemi giganteschi» che stimolavano i
pensieri, risvegliavano «la critica, l’ironia e la ricerca di un significato
più profondo»,[24]
Rosa Luxemburg ebbe coscienza del «crollo gigantesco del vecchio mondo» a cui
stava assistendo, al contrario della maggior parte dei suoi contemporanei convinti
«di continuare a camminare sulla terraferma».[25] Non
c’è forse in questo un’analogia con quanto ci sta capitando oggi? Non stiamo
forse partecipando più o meno passivamente al tonfo rischioso ma decisivo del
vecchio mondo ormai decrepito, mentre già e da lungo tempo avanza qualcosa di
nuovo che affascina e ottenebra perché non riusciamo a metterne a fuoco e a
leggerne le molteplici sfaccettature? È vero, nella mente e nel cuore echeggia l’esortazione
della rivoluzionaria polacca a rimanere esseri umani nonostante tutto e a sorridere
di tutte le miserie, le quali «sono tali e tante che la storia stessa si deve
mettere in marcia per farle fuori. E lo farà».[26] Ma a
quante e quanti non abbiano compiuto un percorso di trasformazione interiore la
sua sollecitazione, a distanza di cento anni dalla sua tragica fine, appare inadeguata,
anche perché non si coltiva più la sua stessa fede nel procedere storico o nei
processi di fermentazione dello spirito rivoluzionario dal basso. Eppure
sappiamo che non dalle speranze dimostratesi fallaci nel gennaio del 1919 Rosa
Luxemburg «attingeva la sua gioia e il suo amore compassionevole nei confronti
della vita e del mondo».[27]
Lei li attinse dal suo esserci tutt’intera nelle condizioni di esistenza che le
toccarono in sorte, dal suo fare assegnamento sull’autonoma capacità di
giudizio di ciascuno/a, dal suo aderire a una concezione della libertà come
sorgente vitale necessaria al risanamento di tutte le istituzioni sociali. La
sua «inesauribile letizia interiore» si è tradotta in amore per il mondo che è
di per sé politica, una politica rivoluzionaria che si radica nelle condizioni
materiali e simboliche delle e dei singoli e dei contesti. È questa l’eredità che
raccogliamo dalla sua vita e dalla sua opera e che la colloca nel novero delle
donne a cui dobbiamo una re-visione delle categorie della conoscenza non
disgiunta dalla percezione e dall’azione; i suoi scritti teorici appartengono
alla storia della critica dell’economia politica e alla storia del pensiero politico
europeo, è indubbio, ma il dato più rilevante concerne quel suo come continuare
a essere umani, dispensato in modo semplice e grandioso ai destinatari e alle
destinatarie delle sue lettere e a noi lettrici e lettori di oggi.
[1] Questo scritto
riprende in parte un mio intervento nel corso di una «conversazione» sulla
figura di Rosa Luxemburg tenutasi con Ida La Porta presso la biblioteca di
Villa Trabia il 14 giugno 2019 e promossa dalla Biblioteca delle donne
UDIPALERMO.
[2]Simone
Weil, Rose Luxemburg: “Lettres de la prison”[Paris, 1933], in «La Critique
sociale» (la rivista del Cercle communiste démocratique, fondato nel 1930 da
Boris Souvarine), n. 10, novembre 1933, ora in Oeuvres complètes, II/1, L’engagement
syndical(1927-juillet 1934), a cura di Géraldi Leroy, Gallimard, 1988, pp.
301-302.
[3]Lettera a Sophie
Liebknecht,cella di Breslavia, 12 maggio del 1918, in Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, Lettere.
1915-1918, trad. it. di Quidam e di E. Scarponi, Editori Riuniti, 1967, p. 181
sg.; cfr. anche Rosa Luxemburg, Dappertutto è la felicità, trad. it. di E.
Trabucchi, L’orma editore, 2019, pp. 59-60.
[4] Lettera a Sophie, carcere
di Wronke, 19 aprile 1917circa, in Lettere. 1915-1918, cit., p. 149.
[5] Lettera a Sophie, 23 maggio
1917, ibid., p. 157.
[6] Lettera a Sophie, carcere di Wronke,
1 giugno 1917, ibid., pp. 160 sg.
[7]Lettera a Leo, 27 maggio 1899, in
Lettere 1893-1919, trad. it. di G.
Bonacchi, O. Viegoz e C. Zawadzka, Editori Riuniti, 1979, p. 63.
[8] Lettera a Mathilde Wurm, carcere
di Wronke, 28 dicembre 1916,ibid., pp.212-213; cfr. anche Dappertutto è lafelicità, cit., pp. 43
sgg.
[9]Lettera a Sophie, Breslavia, metà
dicembre 1917, ibid., p.173.
[10] Giovanissima, scrive sul retro
di una sua foto a una compagna di scuola: «Il
mio ideale è il regime sociale in cui si potrebbe, con tranquilla coscienza,
amare tutti quanti. Tendendo a questo fine e in nome di questo ideale, saprò
forse un giorno anche odiare» (riportato nella Prefazione di Lelio Basso, ibid.,
p. 10).
[11] Lettera ai Kautsky, 13 luglio
1900, in Dappertutto è la felicità, cit.,
p.26.
[12] Lettera a Franz Mehring, 19
aprile 1912, in Lettere 1893-1919, cit.,
p. 169.
[13] Lettera a Conrad Haenisch, 2
dicembre 1911, ibid., p. 165.
[14]Lettera a Leo Jogiches, Berlino,
19 aprile 1899, in Rosa Luxemburg, Lettere di lotta e
disperato amore, a cura di F. Tych e L. Basso, Trad. it. di Br. Norton,
UE Feltrinelli, 2019, p. 157; si veda anche pp. 158 e 185.
[15]Lettera a Robert Seidel, 23
giugno 1898, in Lettere
1893-1919, cit., p. 24.
[16]Lettera a Robert Seidel, 11
agosto 1898, ibid., p. 28.
[17]Lettera
a Leo Jogiches, Berlino, 1 maggio 1899, in Lettere
di lotta e disperato amore, cit., p. 161.
[19]Lettera a Leo Jogiches, Berlino, 19 aprile 1899, in Lettere di lotta e disperato amore,
cit., pp. 156-157; cfr. Dappertutto è la
felicità, cit., p.22.
[20]Lettera
a Hans Diefenbach, carcere di Wronke, 8 marzo 1917, cfr. Lettere
1915-1918, cit., p.198 eDappertutto è lafelicità, cit., p. 50.
[21]Lettera a Hans Diefenbach, carcere di Wronke, 12 maggio
1917, cfr.Lettere 1915-1918, cit., p. 218.
[22]Lettera a Sophie, carcere di Wronke,
20 luglio 1917, ibid., p. 163.
[23]Lettera a Luise Kautsky, prigione
di Barnimstrasse, 18 settembre 1915, in Lettere ai Kautsky, a cura di L.
Basso, Editori Riuniti, 1971, p. 236.
[24]Lettera
ai coniugi Wurm, Varsavia,18 luglio 1906, cfr. Dappertutto
è la felicità, cit., p. 30.
[25]Lettera
a Sophie, Breslavia, 12 maggio 1918, in Dappertutto è la felicità, cit.,
p. 60.
[26]Lettera
a Marta Rosenbaum, Breslavia, febbraio 1918, in Lettere 1893-1919, cit.,
p. 256.
[27]Simone Weil, Rose Luxemburg: “Lettres de la prison”, cit., p. 302.