sabato 1 marzo 2025

LA GUERRA SECONDO TRUMP E L’EUROPA CHE CI MANCA

'L’attacco russo in Ucraina conviene a tutti tranne che all’umanità'

 – Editoriale Effimera  – 

[…] la probabilità di trovarsi nella fila giusta, visto il loro costante allungarsi, si riduce di giorno in giorno. abbiamo iniziato ad alzarci all’alba, a uscire di casa in anticipo, e c’è persino chi non dorme più, per mettersi in fila dalla sera precedente. ma il più delle volte, dopo una giornata di attesa, la fila risulta essere quella sbagliata […]

[“File” di Eda Özbakay, tratto da “Minimo strutturale”, Pièdimosca Ed., 2024]

Il 25 febbraio 2022, il giorno dopo l’attacco della Federazione Russa in Ucraina, Effimera pubblicava un commento a caldo dal titolo assai indicativo: L’attacco russo in Ucraina conviene a tutti tranne che all’umanità.

A tre anni di distanza, l’analisi contenuta in quello scritto si è rivelata spaventosamente corretta.

In particolare, scrivevamo: «Tuttavia l’Europa, parafrasando Metternich, è oggi, in campo internazionale, solo “un’espressione geografica” a conferma dell’incompiutezza del progetto di unificazione, carente non solo nella politica estera ma anche nella politica fiscale e di difesa. È auspicabile che la situazione possa rappresentare un campanello d’allarme in grado di stimolare un processo di liberazione dalla sudditanza agli Usa, nata dopo la II Guerra Mondiale».

L’auspicio non si verificato, anzi. La scelta sciagurata della Commissione Van der Leyen con l’appoggio di tutti i governi nazionali, di destra come di centro-sinistra, di perseguire la più ottusa politica guerrafondaia, per di più in posizione subalterna rispetto alle strategie espansioniste verso Est della Nato in funzione non solo anti-russa ma soprattutto anti-cinese, ha ridotto il peso politico dell’Europa e ne ha, di fatto, sancito il fallimento sul piano internazionale.

Un tracollo che ha radici lontane e sconta il peccato originale alla base dello stesso processo di costruzione europea: lo strabismo ideologico che ha accompagnato l’adozione delle politiche monetariste negli anni Ottanta e Novanta. Si tratta di politiche che hanno avuto, come primo obiettivo, il controllo del tasso d’inflazione. In realtà, lo scopo di questo disegno iniziale è stato riportare il mondo delle imprese a livelli accettabili di profittabilità grazie alla compressione dei costi del lavoro, alla contemporanea diffusione della condizione di precarietà e allo smantellamento dei sistemi nazionali di welfare. Insomma, l’Europa ha riaffermato la centralità della logica del profitto pagando un caro prezzo: il venir meno della coesione politica e sociale europea.

Aver perseguito l’Unione Europea solo dal punto di vista monetario ha infatti aumentato le fratture nazionalistiche all’interno del vecchio continente, annichilendo il più piccolo sussulto di solidarietà, come ben evidenziato dalla crisi dei debiti sovrani del biennio 2011 – 2012 (vi ricordate, per caso, la vicenda greca?); ha acuito i differenziali territoriali tra un’Europa Centrale e un’Europa periferica-mediterranea; ha fatto aumentare il dumping fiscale e salariale tra i paesi membri; ha di fatto accelerato il grado di instabilità, già strutturale, del capitalismo contemporaneo finanziarizzato.

E, ciò che è ancor più importante, ha minato le possibilità di giungere a una reale Unione Europea, fondata su un’idea di politica che nasce da un’etica pubblica condivisa, ovvero fondata sulla politicizzazione di valori che considerano determinante farsi carico di aspetti relativi alla vita reale delle genti d’Europa e al loro benessere. La giustizia sociale, la libertà di parola, il diritto all’informazione corretta, il rispetto per le differenze e per l’ambiente, il fondamento dell’accoglienza sono tutti temi – nominati da svariate commissioni e da cataste di documenti, di carte, di pilastri, di moniti, addirittura di direttive – ma restano lettera morta e mai sono stati veramente perseguiti, poiché non se ne pretende veramente l’applicazione. Un intero sistema di valori e addirittura una postura che per lungo tempo ha visto i paesi europei come luoghi capaci di mettere al centro la politicizzazione di temi dirimenti come il diritto a una vita degna, l’accesso equanime ai servizi pubblici, la trasformazione progressiva verso condizioni di vita e di ambiente migliori per le generazioni a venire, sono stati ribaltati. I venti di destra che attraversano l’Europa sono il segnale (il sintomo, in effetti) inequivocabile di questa incompiutezza che si è trasformata in una sorta di resa: la politica di destra, che prevale, è una politica di “ristrutturazione” delle vite: i poveri, i migranti, gli anziani, gli inabili, gli inessenziali vanno espulsi, deportati altrove, cacciati dalle città, rispediti indietro, lasciati morire, rimossi dagli sguardi.

Da tempo si segnala questa essenziale (esiziale) aporia della politica europea e i nodi, insomma, sono venuti al pettine.

Il nuovo millennio sta vivendo, allora, una fase storica fondamentale: la transizione dal vecchio ordine unipolare made in Usa a un nuovo ordine multipolare. La politica economica dei vari governi americani a trazione democratica ha dovuto fronteggiare all’indomani della crisi finanziaria globale del 2007-08 due questioni fondamentali per garantire la stabilità e la supremazia dell’economia statunitense: il mantenimento del dominio del dollaro come valuta di riferimento internazionale e l’impedimento di un processo di globalizzazione che sfuggisse al controllo del Washington Consensus.

A tal fine, per gli Stati Uniti, il mantenimento dell’egemonia economica degli apparati militari-industriale è strategica, perché è l’unico strumento per impedire il default dell’economia. Al crescente debito interno, causato dalle politiche fiscali espansive di Biden (in seguito all’emergenza Covid), si aggiunge una bilancia commerciale strutturalmente in deficit che necessita un continuo rifinanziamento grazie agli avanzi dei movimenti di capitali. Di fatto, sono le economie dei paesi esteri a pagare i debiti Usa e ciò è possibile solo se il dollaro mantiene la sua autorevolezza come valuta di riserva internazionale e le borse statunitensi mantengono la loro egemonia sui mercati finanziari globali. La politica di alti tassi d’interesse (formalmente giustificata dall’aumento dei prezzi in seguito alla ripresa post-covid e alle dinamiche speculative sui prezzi energetici) aveva infatti come primo obiettivo il rafforzamento del dollaro, senza che ciò andasse scapito degli indici azionari.

A ciò si aggiunge l’adozione, già a partire dall’Amministrazione Biden ma anche prima dello scoppio della guerra russo-ucraina, di politiche protezionistiche basate sul concetto di friend-shoring o di sanzioni: ovvero il consolidamento di relazioni economiche con i paesi “amici” e, contemporaneamente, l’istituzione di barriere di separazione, commerciali e finanziarie, nei confronti di paesi considerati “avversari esteri” (ad esempio minacciando l’istituzione di dazi). L’intento, non riuscito (vedi ad esempio gli effetti perversi delle sanzioni contro la Russia), era di tenere sotto controllo le catene internazionali del valore, sottraendole, illusoriamente, alla governance cinese e dei paesi BRICS+.

La realtà economica che più ha subito in termini economici le conseguenze di questa strategia è stata proprio l’Europa.

L’aumento dei prezzi energetici ha messo in ginocchio le più importanti economie europee, a partire da Francia e Germania, ha compresso ulteriormente i salari reali e la domanda aggregata e ha ridimensionato i già timidi segnali di ripresa economica.

L’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha accelerato il processo, già in corso, di ristabilire il primato Usa a livello globale. Ma con una differenza sostanziale rispetto alle amministrazioni precedenti. Fino a ieri esisteva, almeno, una democrazia formale, che a parole si rifaceva a una qualche carta costituzionale, sempre più stracciata. Con Trump tutto ciò è finito. Crediamo infatti di poter affermare che si sia entrati in una fase post-costituzionale, dove il neo autoritarismo si basa sulla negazione dell’approccio costituzionale e della separazione dei poteri. Con l’avvento delle piattaforme tecnologiche, come nuovo modello organizzativo del capitalismo, salta completamente la separazione tra potere economico e potere politico. Se il neo-liberismo aveva sancito la supremazia del potere economico di mercato sul potere politico dello stato, comunque demandando a quest’ultimo alcuni compiti regolativi o deregolativi (flessibilizzazione del mercato del lavoro, difesa formale della concorrenza – antitrust, autonomia fiscale, ecc. -), oggi, con il duo Musk-Trump, il potere politico viene annullato e la politica è direttamente svolta dalla tecnocrazia economica che governa e comanda le piattaforme digitali.

Ed è in tale contesto che, al fine di garantire la supremazia del dollaro come valuta di riferimento internazionale, diventa necessario operare almeno su tre livelli: finanziario, logistico, tecnologico.

Sul piano finanziario, gli indici di borsa statunitensi da quando è stato eletto il duo Trump-Musk hanno registrato i massimi storici. Ma tale situazione non potrà durare in eterno e il rischio è che scoppi una nuova bolla speculativa con effetti disastrosi sulla tenuta del dollaro. Per evitare questo è possibile che la nuova amministrazione americana converga verso l’istituzionalizzazione di una criptomoneta (il bitcoin ad esempio) che svolga la funzione di “ancora di salvataggio” a protezione del dollaro (e non semplicemente bene rifugio, come l’oro).

Sul piano della logistica, le dichiarazioni di Trump sul Canale di Panama, sulla futura annessione della Groenlandia, sulla ricostruzione di Gaza (sic) e sulla richiesta di indennizzo all’Ucraina svelano l’intenzione di competere in modo più deciso con la Cina nel controllo delle reti di trasporto e nell’estrazione di quei minerali (dal litio, al tungsteno, alle terre rare) che sono oggi fondamentali per l’innovazione tecnologica.

Sul piano tecnologico, è in atto una dura competizione, sempre con la Cina, sull’Intelligenza Artificiale, sui nuovi algoritmi di terza generazione (in grado di incrementare i processi di automazione, in diversi campi, a partire dal trasporto), sulle bio-tecnologie, sulle tecnologie verdi e sulle tecnologie di calcolo.

Sul piano politico, il voltafaccia di Trump nei confronti del governo ucraino rappresenta un’altra mossa sullo scacchiere internazionale. Seguendo la vecchia logica del divide et impera, la nuova amministrazione americana ha più che mai interesse ad allontanare la Russia di Putin (con la cui ideologia sovranista e reazionaria Trump ha molti punti in comune) dall’abbraccio della Cina: un abbraccio che era cresciuto di intensità, grazie proprio alle sanzioni imposte all’economia russa. Soprattutto in un momento nel quale l’Europa, il più fedele alleato di Kiev (sulla base di supposti ideali di libertà, autodeterminazione e democrazia che, come si è detto sopra, non garantisce affatto alle popolazioni dei suoi stati membri) non ha alcuna capacità politica di dettare l’agenda internazionale.

Il fallimento europeo si è fatto del tutto evidente con l’incontro, non aperto a tutti i paesi europei membri dell’Unione, convocato da Macron a Parigi il 18 febbraio, all’indomani delle sferzanti dichiarazioni del vice presidente americano Vance al summit sulla sicurezza di Monaco, due giorni prima e dell’inizio di trattative dirette tra Washington a Mosca.

Se il leader ucraino Volodymyr Zelensky è stato sacrificato sull’altare dello scontro internazionale tra economia Usa e economia dei BRICS+, con una certa corresponsabilità in seguito all’insistenza della richiesta di aderire alla Nato, le strategie dell’Europa sono da subito apparse caratterizzate da una specie di velleitarismo servile nei confronti della Nato, sterile ideologismo, completa mancanza di autonomia e di prospettiva comune

Forse, questa volta, è davvero troppo tardi: crediamo che ci siano solo poche possibilità perché l’Europa possa recuperare un ruolo politico autonomo in questa complessa fase di transizione. In primo luogo, sarebbe necessario uscire dalla Nato e chiederne lo smantellamento; in secondo luogo, completare, definendo una road map adeguata, la costruzione federativa dell’Europa, definendo un’unica politica fiscale, sociale, tecnologica, industriale e di difesa. In terzo luogo, sviluppare una politica commerciale più inclusiva dei paesi dell’area BRICS+, anche ripensando la decisione (frutto della cieca obbedienza ai diktat degli Usa) di uscire dagli accordi economici della “Nuova via della seta” – il piano commerciale cinese per aprire le rotte nel continente eurasiatico.

Infine – ma non possiamo dilungarci, sarebbe necessario un intero altro capitolo – molte cose si potrebbero aggiungere su come questo infelice paese conduce l’informazione. E, in particolare, su come ci ha restituito la narrazione delle guerre in corso, questa tra le altre: parzialità, omissioni, retoriche, pornografia del dramma e del dolore, silenzio, servilismo. Cosicché, di queste guerre terribili, colme di conseguenze non solo perché causano un’enormità di morti ma anche perché impongono lo smantellamento di ogni forma di diritto (stato di guerra), il comune essere umano è messo nelle condizioni di non capire niente. All’arrancare di libertà, democrazia, giustizia aggiungiamo anche la difficoltà di creare un autonomo punto di vista e l’impossibilità di sviluppare coscienza critica. Non è tema di poco conto.

“Lei si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento, posso illuminarla, io sono un’autorità su come far pensare la gente. Ci sono i giornali e io sono proprietario di molti giornali!” (Charles Foster Kane, Quarto Potere, 1941) 

Immagine in apertura: Jackson Pollock, Guardians of the Secret, 1943, Museum of Modern Art di San Francisco

-effimera-