SFIDA
AL SISTEMA DI SFRUTTAMENTO DELLE PIATTAFORME TRA NUOVI PERCORSI DI
ORGANIZZAZIONE E INNOVAZIONE DELLA CONTRATTAZIONE \ vi
sono ricorrenti caratteristiche deteriori in questo “nuovo lavoro” tipico
dell’economia di piattaforma lo segnalano -oltre ad analisti e ricercatori- le
tante mobilitazioni che dal 2016 a livello europeo hanno animato in maniera
intermittente ma crescente i principali centri urbani e metropolitani del
continente
Una
rinnovata attenzione mediatica si è riversata nella settimana passata intorno
alle vicende del settore della consegna del cibo a domicilio tramite
applicazioni digitali.
La
sentenza di rigetto del Tribunale di Torino nel ricorso di sei ex fattorini
contro Foodora prima, un primo esperimento di Carta dei diritti del lavoro
digitale a Bologna e l’assemblea nazionale dei/delle rider sempre nel capoluogo
emiliano poi, hanno riacceso i riflettori su questo mondo, tra i più attivi –
sia da un punto di vista di mercato, sia da quello delle mobilitazioni –
nell’arcipelago della cosiddetta gig economy, “economia dei lavoretti”.
A
dispetto del termine inglese che induce a pensare ad attività marginali, svolte
quasi per diletto e nei ritagli di tempi, il settore del food delivery digitale
è l’esempio migliore di quanto sia fuorviante questa definizione. A livello
mondiale infatti rappresenta un settore economico in rapida espansione con dei
volumi tutt’altro che marginali e continui investimenti da parte di venture
capital.
Solo
in Italia le previsioni davano un giro d’affari in impennata passando tra 400
milioni di euro del 2016 fino 90 miliardi di euro. In termini occupazionali si
stima che sono ormai tra le 3000 e le 5000 le persone impiegate in questa
attività, una buona parte delle quali ne trae la primaria fonte di reddito.
Alla
questione di un riconoscimento “culturale” del rider come vero e proprio
lavoratore o lavoratrice, se ne affianca una ben più seria in merito alle
condizioni contrattuali, salariali e di diritti secondo le quali materialmente questo
lavoro si svolge.
D’altra
parte, pure nella specificità, ciò che attualmente rende possibile
“squalificare” il lavoro dei rider alla stregua di un passatempo “addirittura
retribuito” per giovani studenti è lo stesso processo d’incessante frammentazione
dei cicli produttivi, che crea segmenti lavorativi sempre più atomizzati. E
dove, nel caso particolare, l’automazione del comando sulla produzione
attraverso l’utilizzo delle tecnologie algoritmiche s’innesta perfettamente
creando un rinnovato taylorismo digitale.
Al
centro di questo meccanismo, al netto degli anglicismi e della scomparsa
apparente del lavoro, vi è però incontrovertibilmente la forza lavoro dei e
delle ciclofattorini/e, che vanno interpretati come uno dei soggetti che
subiscono la generale trasformazione del lavoro in direzione dell’attuale e
profonda precarizzazione lavorativa e di vita.
Nel
concreto, i rider svolgono un’attività di logistica metropolitana collegata al
settore dei servizi (principalmente di ristorazione, ma ci sono ormai molti
esempi non dissimili che fanno riferimento per esempio alla G.D.O.),
trasportando dagli esercizi commerciali “ordini” che il consumatore richiede
tramite l’applicazione della piattaforma. Se da una parte l’app mette in
collegamento domanda ed offerta, d’altra la piattaforma organizza, coordina e
dirige tramite i dispositivi di comunicazione mobile l’attività materiale
svolta dai fattorini indicando luoghi, orari e tipologia di attività. Anche gli
stessi turni assegnati ai ciclofattorini sono decisi dall’azienda.
Eppure,
grazie anche alle possibilità per le piattaforme di muoversi incontrastati su
uno spazio nuovo e quindi privo di regolazioni chiare e sedimentate, e di un
clima culturale teso all’auto-imprenditorialità (vera o soprattutto presunta),
sono ridotti al minimo gli oneri economici e i “rischi d’impresa” finora
assunti da questi soggetti: gli stessi mezzi necessari (bici o scooter,
smartphone e utenza telefonica) per svolgere le consegne sono di proprietà dei
fattorini stessi, mentre vengono fornite loro solo le uniformi e i “cubi” per
trasportare il cibo con i colori e il logo dell’azienda, così producendo,
pressoché gratuitamente, un costante e “involontario” lavoro pubblicitario.
Complementariamente
si registra un’assoluta arbitrarietà dal punto del rapporto contrattuale: per
la maggior parte regolato come mera prestazione autonoma occasionale (anche se
questa si protrae ripetitivamente e continuativamente per settimane, mesi o
anni), nei casi più rari come una co.co.co.. In entrambi i casi comunque questi
rapporti sono svuotati di tutto: la retribuzione è sganciata da qualsiasi
riferimento minimo ed elargita principalmente sulla base di un “cottimo” invece
che sul tempo di lavoro messo a disposizione e va da € 4 a 7 lordi/ora e da € 1
a 2,6 / “pezzo”, nessun monte ore è garantito, alcuna attrezzatura adeguata è
fornita a tutela di salute e sicurezza, mentre una copertura assicurativa
antinfortunistica di natura privata minima e comunque insufficiente è stata
strappata solo recentemente dopo pressioni e clamore mediatico.
Per
non parlare della completa libertà della piattaforme sull’utilizzo dei dati
personali e di quelli prodotti con il lavoro e raccolti tramite app e
geolocalizzazione; dell’utilizzo del rating basato su produttività, docilità e
“reputazione” usato per “concedere” o meno la possibilità di lavorare;
dall’assoluto misconoscimento di una dimensione collettiva dei e delle rider e
quindi della loro titolarità a diritti di natura sindacale quali il potersi
riunire ed organizzare per far valere collettivamente i propri diritti e
persino di poter confrontarsi se non individualmente con responsabili e
dirigenti della piattaforma.
Al
di là degli specifici contesti normativi nazionali, che vi siano ricorrenti
caratteristiche deteriori in questo “nuovo lavoro” tipico dell’economia di
piattaforma lo segnalano, oltre ormai ad analisti e ricercatori, le tante
mobilitazioni che a partire dal 2016 a livello europeo hanno animato in maniera
intermittente ma crescente i principali centri urbani e metropolitani del
continente. In una crescente ondata di conflitto, da Londra, passando per
Parigi e Bruxelles, Barcellona e Berlino, fino a Torino, Milano e Bologna, e
tante altre città sono ormai decine gli scioperi, le mobilitazioni, le
iniziative pubbliche e di protesta che nell’ultimo biennio hanno attirato
l’attenzione pubblica e soprattutto posto all’attualità dell’agenda politica e
sociale le condizioni di lavoro e di vita di migliaia di questi lavoratori e
lavoratrici europei (e non solo dato che recentemente anche ad Hong Kong e in
Australia).
Ciò
che ci sembra necessario sottolineare è che tutte le istanze di lotta e di
“emersione” da una paradossale condizione di invisibilità siano nate da
percorsi di auto-organizzazione promossi direttamente dai/delle rider. Una
nuova forma di aggregazione sindacale e mutualistica che ha trovato le
principali caratteristiche nel protagonismo diretto della forza lavoro, nella
naturale apertura verso altri soggetti sociali (singoli, collettivi o già
organizzati) e un rapporto con le strutture sindacali di tipo strumentale a
salvaguardia della propria autonomia.
Non
un rifiuto o un’incapacità quindi dell’agire sindacale ma una sua
risignificazione e riappropriazione, nell’ottica di ricostruire un corpo
collettivo, rompere l’isolamento individuale e condividere comuni condizioni e
aspirazioni, individuare e creare strumenti di mutuo aiuto e mettere in campo
pratiche di lotta efficaci.
L’esperienza
bolognese di Riders Union, che ieri ha ospitato nello spazio sociale Làbas la prima
assemblea nazionale dei e delle Rider, si è sviluppata proprio su questi assi.
Nata
a seguito del meeting europeo in concomitanza con il G7 di Torino, l’assemblea
dei riders bolognesi si è mossa da subito verso due direzioni: individuare
poche e semplici istanze comuni a tutte le piattaforme presenti in città e
costruire spazi e strumenti di mutualismo e socialità.
In
primo luogo rivendicare, al di là delle specifiche condizioni contrattuali e
retributive, sicurezza e salute, paga dignitosa, rifiuto del cottimo, garanzia
di occupazione ha permesso di formare un ambito organizzativo e di confronto
trasversale ai fattorini di Deliveroo, JustEat, Sgnam e poi Glovo e Foodora, e
di porre non solo alle singole piattaforme ma alla città intera la questione delle
condizioni del o della rider, ormai circa 300.
Parallelamente,
il coinvolgimento di attivisti, anch’essi riders o semplicemente “solidali”, e
realtà organizzate non è stato escluso, ma invece valorizzato nel rispetto del
principio di autonomia del nuovo soggetto e di protagonismo decisionale dei
riders stessi: la messa in rete di spazi solidali e la creazione di punti di
ristoro, ciclofficine e dopolavoro sociali ha facilitato ad esempio
l’aggregazione e il confronto tra decine di fattorini che prima neanche si
percepivano come “colleghi” né si conoscevano.
Così
come realtà sociali hanno messo a disposizione i propri spazi, anche come ADL
Cobas abbiamo partecipato sin dall’inizio a questo percorso, mettendo a
servizio le nostre competenze e gli strumenti sindacali di cui siamo a
disposizione per supportare al meglio questa lotta.
D’altra
parte, la nostra visione sindacale fonda sulla ferma condizione che
l’auto-organizzazione sociale e quindi anche sindacale sia elemento
imprescindibile per rovesciare i rapporti di forza e condurre battaglie
vittoriose. La necessità di creare organizzazione rimane ma crediamo che la
forma che debba assumere deve misurarsi sulle necessità e le caratteristiche
che esprime la soggettività e il contesto nel quale questa si viene a trovare.
È in questo senso che a Bologna la forma di coalizione tra riders
auto-organizzati, attivisti e spazi sociali, realtà del sindacalismo
conflittuale non rappresenta una contraddizione ma invece una nuova e finora
positiva sperimentazione di quello che potremmo chiamare sindacalismo sociale.
Non
è un caso allora che le sigle del sindacalismo confederale e burocratico non
siano in grado di intercettare le istanze che sorgono dalle trasformazioni
contemporanee del lavoro (e solo recentemente si stiano sperticando per
riconquistare il terreno perduto e mai battuto): anche tacendo delle indubbie
responsabilità sulla distruzione delle tutele e dei diritti conquistati nei
decenni scorsi, è l’atteggiamento paternalistico e interessato che mira a ricondurre
questi percorsi nell’alveo concertativo “della parti sociali” che soggettività
come i rider e i precari rifiutano!
E
d’altra parte, non basta certo inserire qualche parolina magica – come
recentemente fatto proprio con il termine rider nel rinnovo bidone del CCNL
Logistica siglato dai CGIL,CISL e UIL – per ottenere diritti.
Crediamo
invece sia necessario sostenere e ricercare sempre percorsi di conflittualità e
allargare le contraddizioni che si intravedono, partendo dalla materialità
delle lotte.
È
questo che rintracciamo nel tentativo di sperimentare una nuova forma di
contrattazione metropolitana nel settore del food delivery che sta prendendo
forma proprio a Bologna, con l’ipotesi di sottoscrivere da parte
dell’Amministrazione comunale, Riders Union e le piattaforme che (e se...) ci
staranno una Carta dei diritti del lavoro digitale a riconoscimento di diritti
e tutele essenziali e ineludibili.
Un’iniziativa,
è bene ricordarlo, che non parte per iniziativa delle Istituzione, che pure nel
caso si sono finora dimostrate quanto meno ricettive, ma dalla capacità
mobilitativa prima e di elaborazione poi dei riders organizzati, che hanno
sottoposto per prima alle istituzioni e alle aziende una Piattaforma
rivendicativa.
Perché
partire da una contrattazione metropolitana, allora? Per una serie di motivi,
crediamo.
Primo,
perché la città è luogo stesso della produzione della ricchezza incamerata
dalle piattaforme, potremmo dire è la “piattaforma materiale” sulla quale i
rider vengono fatti correre giorno e notte e quindi l’istituzione locale non
può girarsi dell’altra parte.
Ed
anche per questo che stiamo spingendo affinché, nelle specifiche competenze
istituzionali, vengano messi a punto e utilizzati anche strumenti amministrati
sanzionatori.
Secondo
perché si vuole superare una contraddizione che ci sembra chiara: da un lato,
allo stato attuale, il Diritto del Lavoro risulta assolutamente arretrato e
inadeguato a riconoscere e quindi tutelare queste nuove figure del lavoro.
Dall’altro, anche solo ad un livello “minimo”, nei seppur erosi riferimenti
normativi, sembrerebbe inevitabile (perlomeno) il riconoscimento della
non-autonomia dei rider dalle piattaforme, così come è vero che esistono già
tutti i possibili contesti contrattuali collettivi (non solo il CCNL Logistica,
ma diversi altri tra cui il Servizi Recapito) per un inquadramento dei rider.
Eppure
la contraddizione sta proprio qui: le devastanti “riforme” in senso
neoliberista operate nell’ultimo ventennio ed i particolare negli ultimi anni
non solo hanno sfigurato irrimediabilmente un sistema di diritti precedentemente
consolidato, ma soprattutto hanno favorito un rapporto di forza, materiale e
culturale, nella società e nel mondo del lavoro, drammaticamente a favore del
capitale, che nel caso dei “nuovi” settori come quello del food delivery si
manifesta in maniera plastica.
È
evidente quindi che per conquistare l ’“ovvio” nonché legittimo riconoscimento
formale, con il corollario di diritti e tutele, è necessario ricostruire
rapporti di forza laddove è possibile ricostruire lotta e organizzazione. Ciò
non significa che non va fatto ogni tentativo e utilizzato ogni strumento, ma
la realtà attuale ci dice che senza questi elementi difficilmente, da sole,
dichiarazioni di principi o cause giudiziarie potranno darci ciò che è dovuto.
In
conclusione, due riflessioni per provare ad avere un pensiero lungo e uno
sguardo ampio.
In
primis, partire dalle città non significa rinchiudersi nel localismo, al
contrario. Ripartire dalle città e dai territori a nostro avviso significa
immediatamente pensare una spazialità politica europea, anche nell’agire
sindacale. A riprova, l’Assemblea nazionale di Bologna tenutasi ieri e alla
quale abbiamo partecipato anche da Padova è stata introdotta dalle esperienze
di Bruxelles e Parigi, e si è conclusa con la proposta di una mobilitazione
coordinata e diffusa dei rider per il 1° maggio in tante città italiane ed
europee.
In
secondo luogo, aprire faticosamente delle strade per il riconoscimento concreto
di diritti, tutele, giusto salario per i rider, attraverso i più svariati
strumenti, non solo significa partire dalla materialità piuttosto che dalle
formalità del riconoscimento stesso, ma ci obbliga anche a rivendicare e
lottare per un orizzonte di nuovo welfare universalistico, adeguato ai tempi
presenti, dentro e contro le trasformazioni del lavoro e della vita imposte dal
sistema capitalistico globale.
È
anche così che la lotta dei rider potrà essere una piccola ma importante parte
di un movimento di trasformazione più grande.