-Étienne Balibar-
l'articolazione tra imperialismo e guerra
PRIMA PARTE
È un grande onore per me (tenere) questa sera, all’Università Americana del Cairo, tenere questa conferenza annuale in memoria di Edward Said[1]. È anche un onore difficile, non solo per la qualità di chi mi ha preceduto, ma per le circostanze drammatiche in cui ci troviamo. Ci tornerò. Il titolo che vi propongo deriva da un saggio di Giovanni Arrighi, La geometria dell’imperialismo, pubblicato per la prima volta nel 1978 (lo stesso anno di Orientalism), oggi meno conosciuto rispetto ad altri suoi lavori e di carattere curiosamente “strutturalista”[2]. Penso che questo sia un contributo molto interessante all’analisi delle variazioni dell’imperialismo, soprattutto se proveniente da una delle figure più importanti nella discussione post-marxista sulla configurazione globale del capitalismo e sulle sue successive egemonie storiche. Non voglio ripetere quanto da lui affermato, ma voglio, a mia volta, provare ad articolare alcune riflessioni sulla complessità del fenomeno “imperialista”, sulla sua centralità in ogni interpretazione della storia moderna, e sulle sue trasformazioni dell’ultimo periodo. È in questo contesto che collocherò l’importanza del contributo di Edward Saïd, che si potrebbe erroneamente ritenere riguardante solo una sorta di conseguenza della struttura stessa. Naturalmente dovrò evitare o semplificare molti dibattiti importanti sui concetti e sulla loro applicazione, ma questo è il rischio che corro per attirare l’attenzione su ciò che oggi mi sembra più urgente.
Questa è, ovviamente, una presentazione teorica. Ma che – spero si vedrà – non può dissociarsi da un impegno militante nelle lotte antimperialiste con la loro diversità e la loro problematica unità. Sono la nostra unica speranza di diventare o tornare ad essere attori di un processo di emancipazione collettiva dalla violenza e dallo sfruttamento.
A conclusione di questa presentazione, in modo molto rapido e molto astratto, cercherò quindi di delineare alcuni orientamenti per pensare a queste lotte, sulla base di una rappresentazione aggiornata della struttura di dominio a cui, per più di cinque secoli, è soggetto il nostro mondo, e che oggi sembra condurlo verso una catastrofe planetaria.
Per quanto astratte possano essere (e mi dispiace non poter fare di meglio in questo contesto), le mie proposte non potranno sfuggire alla pressione delle circostanze in cui si svolge il nostro incontro. Sono (semplicemente tragici) assolutamente tragiche. (Parlando sotto l’invocazione di) Rievocando Edward Said, come potrei non essere tormentato dalle immagini di pulizia etnica e di sterminio che ci giungono ogni giorno dalla Palestina (e ora anche dal Libano)? E come potrei non essere ossessionato dalla domanda sul perché il “mondo” (chiamato anche “comunità internazionale”) non vuole o non può porre fine a questa barbarie? Ma ovviamente ho altri pensieri, altri ricordi in mente riguardo a questa regione di cui l’Egitto è il centro… Intraprendendo a mia volta il “Viaggio in Oriente”, penso a ciò che essa ha di veramente unico, per il suo contributo alla civiltà (tanto quanto dalla) e anche per la violenza delle esperienze vissute. Regione dove, fin dagli inizi di quella che chiamiamo “storia”, gli imperi hanno lottato per l’egemonia (una delle mie tesi sarà che l’imperialismo moderno, con tutte le sue specificità, continua ancora questa lunga storia). Una regione che, nel corso dei secoli XIX e XX, continuò ad essere al centro di rivalità imperialiste, ma anche teatro di rivolte eroiche che cercarono di invertire il corso della storia e immaginare il futuro sotto il segno della libertà, troppo spesso però per finire schiacciate dalla repressione e dalla superiorità delle forze conservatrici interne ed esterne. Potete quindi facilmente immaginare cosa significhi per me parlare oggi proprio accanto a Tahrir Square! E non posso dimenticare (quello più tragico) tragedie ancora più gravi: i tre genocidi avvenuti lì negli ultimi anni, in Darfur, Siria e Gaza. (Non si può dire che) Discutere qui di imperialismo (sia solo) non è certo una questione di sola scienza storica!
L’imperialismo e la guerra
Veniamo al mio primo punto. Mi concentrerò sull’articolazione tra imperialismo e guerra, ed ecco perché. Dopo i saggi che, all’inizio del XX secolo, inaugurarono il problema dell’imperialismo in una prospettiva socialista e marxista: Hobson, Hilferding, Rosa Luxemburg, Kautsky, Lenin, Trotsky e altri, (non c’è mai stato un punto fermo. Il problema ha continuato a evolversi) la questione non ha mai smesso di evolversi.
(Ma) Ci sono stati periodici “ritorni” su significativi (punti di eresia) aspetti eretici, come quando David Harvey, nella sua analisi del Nuovo Imperialismo basato sull’“accumulazione per espropriazione” (da cui trarrò in parte ispirazione) ridà onore alle idee di Rosa Luxemburg (in L’accumulazione del capitale, 1913) sulla violenta espropriazione dei contadini nelle “periferie” coloniali da parte del capitale industriale[3]. (E soprattutto,) Esiste soprattutto una tensione permanente tra le teorie che mettono in primo piano il fenomeno politico dell’imperialismo (dunque l’azione dello Stato con i suoi “segni di sovranità”, come dicono Bodin e Hobbes[4]), e le teorie (principalmente marxiste) che ne fanno lo sviluppo di una “fase” o “modalità” di sviluppo del capitalismo, con i suoi antagonismi caratteristici.
Ora, fin dall’inizio, questa tensione mi sembra dettata dalla necessità di (dare conto di) spiegare un fenomeno che è l’emergere della guerra al centro stesso dell’economia di una società il cui principio di organizzazione e di progresso (il “commercio”, nel senso più ampio) dovrebbe promuovere la pace. Fu (per usare l’espressione di Lenin) la “catastrofe imminente” della guerra mondiale del 1914 a cristallizzare i dibattiti sul rapporto del capitalismo con il nazionalismo, la colonizzazione, il militarismo e la guerra[5]. Ed è stata proprio la convinzione che questo binomio spingesse la società “borghese” verso un limite assoluto, insostenibile, che ha portato i teorici più radicali del momento a porre l’alternativa: imperialismo o rivoluzione, sostenuta dalla duplice convinzione che l’imperialismo genera problemi che è impossibile risolvere, e la rivoluzione, appunto, fornisce la soluzione (o almeno ne sblocca la possibilità). Ci tornerò, ovviamente.
Ma per ora voglio difendere l’idea che, per una teoria dell’imperialismo, la guerra non può essere vista come una conseguenza particolare del fenomeno studiato. È (questo che costituisce) la guerra a costituire il problema fondamentale, la prima questione da cui nasce il concetto. È dunque a essa che bisogna ritornare per valutare cosa, nella struttura dell’imperialismo e nella configurazione delle sue “tendenze”, è cambiato o è persistito, e in quale proporzione. Non c’è nulla di contingente nell’articolazione tra imperialismo e guerra. Ma non può nemmeno essere dedotto da una semplice definizione.
Quando ci interroghiamo su questa articolazione, non parliamo quindi solo di “guerre imperialiste”, o di “guerre dell’era imperialista”, ma del legame intrinseco tra imperialismo e guerra. È su questo punto che avanzerò due ipotesi.
Ecco la prima: nella sua accezione oggi dominante (marxista o post-marxista) che non (lo) separa l’imperialismo dal capitalismo come modo di produzione basato sull’accumulazione di valore monetario, non c’è dubbio che l’imperialismo (coincideva) ha coinciso con una nuova modalità della conquista imperiale, simbolicamente segnata dall’apertura dell’America nel 1492 alla colonizzazione europea, che si sarebbe poi estesa al mondo intero. Ciò, tuttavia, non segna alcuna interruzione nella storia degli imperi e delle loro rivalità. Al contrario, fu l’inizio di un periodo in cui l’impero come forma politica acquistò una vitalità senza precedenti. L’imperialismo non costituisce una rottura con la successione degli imperi, ma segna piuttosto un nuovo momento in una storia molto lunga. Ciò potrebbe semplicemente significare che gli imperialismi moderni implicano sempre la conquista e il dominio, o sono addirittura guidati dal sogno imperiale del potere universale, il che era chiaramente il caso, non solo per l’Impero britannico, ma per gli imperi “repubblicani” francese o americano. Ma possiamo fare un ulteriore passo avanti, perché l’impero come forma politica ha un legame istituzionale con la guerra e con la funzione politica che svolge. Lo esprimerò (forgiando) usando un assioma “romano” che vale ancora nei tempi moderni: gli imperi fanno sempre la guerra ai loro “confini” (che spostano costantemente) per creare spazio per il commercio, la legislazione e la cultura, in altre parole ” (della) per la pace”; ma è però vero anche il contrario: fanno la pace e sviluppano le istituzioni per poter preparare e fare la guerra[6].
La seconda proposta non è meno vera della prima, e anch’essa ne costituisce la verità da un punto di vista materialista. La guerra è inerente all’imperialismo come essa lo fu agli imperi. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant : è sempre opportuno rileggere Tacito[7].
Per la mia seconda ipotesi, la più importante, cercherò di basarmi su formulazioni prese in prestito da due autori – Lenin e Carl Schmitt – che sono politicamente inconciliabili, ma hanno in comune una visione realistica dei conflitti di potere nel XX secolo. Al centro del saggio di Lenin: Imperialismo, stadio supremo del capitalismo[8] figura l’idea di “spartizione del mondo” tra le potenze coloniali, una divisione caratterizzata dalla sua intrinseca instabilità, lungi quindi dal condurre ad una soluzione permanente o “equilibrata” (di) tra le sue parti tra sovranità equivalenti, ma implicando al contrario una violenta lotta per la re-divisione.
Se c’è un’idea di Lenin che la storia ha brillantemente confermato è ovviamente questa, come dimostra una storia di incessanti conflitti che va dalla Conferenza di Berlino (1885), dove venne distribuita l’Africa esplorata e inesplorata (“continente nero”) tra le potenze coloniali europee, fino all’emergere delle potenze imperialiste extraeuropee in America e in Asia e alla “guerra fredda” (la “spartizione di Yalta”), passando per le due guerre mondiali (da qui il Patto tedesco-sovietico), per arrivare infine, dopo il 1989, alla costruzione di un unico “ordine liberale” militarizzato. È quindi una delle questioni decisive per la nostra indagine sapere se e come tale idea è applicabile alla nostra situazione attuale e alle sue tendenze in evoluzione, in particolare per chiarire il significato dello slogan “multilateralismo”. È chiaro, tuttavia, che questa discussione presuppone un notevole ampliamento della caratterizzazione leninista, che si basa sulla funzione decisiva dei territori e dei confini territoriali, così come possono essere individuati su una mappa del mondo. Tuttavia, gli imperi con cui oggi abbiamo a che fare (qui) basano il loro potere sugli investimenti e sulla redditività del capitale. I territori che contano per loro non sono pure entità spaziali, sono spazi aperti con la forza per l’appropriazione di risorse monopolizzabili: risorse energetiche (carbone, petrolio, uranio, ecc.), risorse minerarie e agricole (compreso lo sfruttamento sconvolgente dell’ambiente), risorse umane (popolazioni che rischiano di essere ridotte in schiavitù, trasferite, messe al lavoro, arruolate nell’esercito, ecc.). Ma si scopre presto che gran parte di queste risorse possono essere controllate ed estratte senza dover ricorrere al dominio diretto (o alla “sovranità” esercitata sul territorio), ovviamente a condizione che siano disponibili i mezzi (monetari e militari) che consentano un eccesso di (potere) potenza irresistibile. Questo, come sappiamo, è stato il segreto dell’imperialismo statunitense, che ha dato alla “divisione del mondo” un carattere più astratto, nascosto sulle carte se non sul terreno, controllando i territori non come colonie (con eccezioni) ma come mercati, in modo da costruire un impero globale la cui estensione era limitata solo dalla capacità degli Stati Uniti di reprimere le insurrezioni e investire capitali ovunque nel mondo. Ma a sua volta, questa modalità è “superata” oggi da un modello completamente diverso di divisione del mondo (e della lotta per la sua re-divisione), che non si riferisce agli spazi terrestri ma agli spazi “virtuali” (o immateriali). che insieme formano il metaverso), distribuiti (e ridistribuiti, o contesi) tra imperi della comunicazione[9]. Una tale divisione crea i propri “territori” appropriandosi di essi, e i suoi “padroni” non sono tanto gli stati quanto le multinazionali con le loro “reti” di distribuzione e raccolta dati, che controllano l’attività degli Stati piuttosto che (non) essere controllate da essi.
Riuscirà questa forma rivoluzionaria di “territorialità” ad acquisire sufficiente autonomia per relegare in secondo piano la lotta per l’egemonia che oggi sembra sul punto di strutturare “geopoliticamente” l’ordine mondiale (tra imperi industriali, che sviluppano diversi modelli di “capitalismo”, rivali e allo stesso tempo complementari tra loro, (cosa) come lo sono la Cina e gli Stati Uniti)? E di quale natura saranno i conflitti che ne deriveranno? Queste sono chiaramente le domande da cui dipende il nostro immediato futuro. Il riferimento all’opera di Carl Schmitt è a questo punto essenziale. (A questo punto la deviazione è essenziale per l’opera di Carl Schmitt.) (È) C’è un’innegabile (la) convergenza tra la “divisione del mondo” leninista e la sua stessa idea di Landnahme (“presa” di terra) sviluppata nel libro del 1950: Il Nomos della Terra e il diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum, dove la storia della costituzione degli Stati nazionali d’Europa (dopo la fine delle guerre di religione nel XVII secolo, che portarono all'”ordine di vestfaliano”) è correlato al fatto che queste stesse nazioni sono in uno stato di guerra permanente per espandere i propri imperi e spogliarsi a vicenda delle proprie colonie[10].
Evidentemente Lenin e Schmitt non “concludono” allo stesso modo la loro diagnosi di crisi del nomos : per Lenin, la rivoluzione è la conseguenza immediata, ineluttabile, della crisi dell’imperialismo, mentre per Schmitt (contro-rivoluzionario dichiarato), ciò che ne risulterà è una nuova geometria dell’imperialismo, caratterizzata dalla costituzione dei Grossräume («grandi spazi geopolitici”) che sono una nuova varietà d’imperi regionali (la cui risonanza con certe problematiche contemporanee: la “multipolarità” e il “conflitto di civiltà”, non manca di essere scioccante[11]).
Ma ciò che trovo più chiarificatore nelle sue analisi, è l’idea che la divisione del mondo non è solo una (re)divisione delle terre, delle risorse, delle popolazioni, ma anche una distribuzione delle forme della guerra (e più in generale delle modalità della violenza) tra le regioni del pianeta[12]. Questa distribuzione opera simultaneamente a due livelli: è una distribuzione tra gli Stati imperialisti, ed è una distribuzione tra la regione in cui abitano i “padroni” (o i “popoli-padroni”) e la regione in cui abitano i “soggetti” (o i futuri soggetti, già segnati dalla conquista) – ciò che più tardi si chiamerà il “centro” e la “periferia”.
La violenza che si esercita nel centro e la cui posta in gioco è la potenza sovrana (Herrschaft) e quella che si esercita nella periferia per installarvi e riassicurarvi in permanenza il dominio dei padroni sui barbari che spetta loro di sottomettere, di educare e di fare lavorare, sono qualitativamente e quantitativamente diverse: la seconda deve essere permanente, atroce e essa stessa barbara, mentre la prima è intermittente (separata da dei trattati di pace), e pretende restare civilizzata (in virtù delle “leggi della guerra”). Essa si “trattiene” (Hegung des Krieges) mentre la seconda è scatenata.
La stabilità, e anche la (verosimilità) verosimiglianza di tale distribuzione sono lungi dall’essere assicurate ( (testimone) come testimoniano le atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale, o oggi in Ucraina), ma vedo la possibilità di servirsene al rovescio : porrei in maniera post-schmittiana (qui è anche anti-schmittiana) che la distribuzione diseguale delle forme eterogenee della violenza è, (come quella) in quanto tale, uno dei meccanismi che disegnano le frontiere separando “due mondi” in seno allo stesso “mondo” (e quindi due “umanità” o due “razze” in seno alla stessa “specie umana”). Ora (tale) questa è precisamente la figura dell’imperialismo in quanto forma sociale e antropologica all’epoca moderna. A più riprese essa è stata deformata e spostata (e lo sarà senza dubbio ancora, al prezzo di terribili sofferenze e distruzioni ambientali), ma il suo principio si è mantenuto. Lo si vede in questo momento stesso a Gaza.
Concludiamo su questo punto e torniamo alle questioni angoscianti del presente. In un mondo più che mai diviso in Stati, nazioni e regimi concorrenti, ma che sembrerebbe anche segnato da un grado d’interdipendenza diseguale tra le sue “parti” costitutive, e che si vede obbligato da avvenimenti così diversi come la pandemia, una crisi monetaria mondiale, ma soprattutto dalla catastrofe ambientale, a prendere coscienza di certi interessi vitali comuni a tutta l’umanità, quindi di far prevalere la sua unità sulle sue divisioni, in cosa riconosciamo ancora i segni dell’impero? E come definiamo il regime mondializzato delle guerre condotte – (per) nella terra e (in aria) nei cieli, o ancora nello spazio “virtuale” dell’infosfera – in nome dei valori incompatibili anche in seno a questo mondo «unificato[13]”?
Alla prima questione, risponderei ipoteticamente: sono gli imperi in declino (che sono) ad essere i più violenti (o i più crudeli nel loro modo di fare la guerra), poiché si sentono spalle al muro sia (dall’) per l’erosione dei loro privilegi (e) sia (dalla rovina) per il crollo della loro pretesa di “grandeur” (o d’elezione)[14]. La Russia e gli Stati-Uniti d’America illustrano oggi questa tesi, benché a dei livelli diversi d’imperialità[15]: per gli uni, occorre “ricostituire l’unità del Russkyi Mir” che l’URSS aveva preservato e che il suo (crollo) tracollo ha dissolto, per gli altri, occorre “Make America Great Again” …
Alla seconda questione, risponderei che siamo arrivati a uno stadio di sterminismo generalizzato. Riprendo questo termine del saggio, celebre a suo tempo, dello storico Edward P. Thompson (un degli animatori del movimento Est-Ovest per il disarmo nucleare) : Notes on Exterminism, the Last Stage of Civilization (1980)[16], il cui titolo parodiava intenzionalmente Lenin. Scritto in piena “corsa agli armamenti” durante la Guerra Fredda, insisteva sull’idea che il rischio di un annichilimento del pianeta non si doveva solo alle politiche e ideologie imperiali delle due “superpotenze”, ma anche all’ampiezza delle industrie d’armamenti e del loro posto centrale nell’economia.
E’ sempre vero, ma penso che si possa spingere ulteriormente il concetto di sterminismo per descrivere la normalizzazione di questo stato di eccezione che è la guerra nel mondo di oggi: non includo solo le guerre ufficialmente definite “guerre tra Stati” (come la guerra in Ucraina – più da parte ucraina che da parte russa, del resto), ma guerre “civili” e anche “private” (se si pensa alla porosità della separazione tra guerra e criminalità in certe parti del mondo), al “terrorismo” e all’“antiterrorismo” che gli Stati esercitano contro i propri nemici interni o esterni. Tutte queste forme hanno ovviamente le loro storie e cause uniche, ma prese insieme (con, sullo sfondo, la produzione e la diffusione di armi), formano una distribuzione globalizzata della violenza armata che comprende tutti i gradi di violenza e non risparmia (la) nessuna società (o) né regione del mondo, un continuum tra due estremi: da un lato i genocidi perpetrati contro intere popolazioni da masse razziste “non organizzate” o (soprattutto) da stati ed eserciti altamente organizzati (come Israele); dall’altro, il potenziale sterminio nel contesto di una guerra nucleare dichiarata o risultante da una “escalation” incontrollata. Lo sterminismo non è quindi l’ultima, ma la fase più recente e “più bassa” dell’imperialismo, la cui violenza multilaterale significa che non possiamo davvero immaginare l’avvento di un altro mondo. Nulla di confortante …
[1] Questo testo è l’adattamento della “Edward Saïd Memorial Lecture 2024”, presentato all’Università Americana del Cairo, il 2 Novembre 2024, su invito del Dipartimenti d’inglese e Letteratura comparata. // xi libri di Balibar in italiano vedi qui: https://www.ibs.it/libri/autori/%C3%A9tienne-balibar?gad_source=1&gclid=CjwKCAiA3ZC6BhBaEiwAeqfvyr1q_rho6QoXhlEpxrh55Af3uRyX-eJJ0hpFCsIAVbHU1bdUVnryBRoCWnYQAvD_BwE
[2] Giovanni Arrighi, La geometria dell’imperialismo. I limiti del paradigma di Hobson (1978), edizione riveduta, con una nuova postfazione, Verso Editions 1983. ( La geometria dell’imperialismo , Feltrinelli, 1982)
[3] David Harvey, The New Imperialism , Oxford University Press 2005. (in italiano vedi La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo , il Saggiatore, 2006)
[4] Vedi Etienne Balibar, “Prolégomènes à la souveraineté”, in Nous, citoyens d’Europe ? les frontières, l’Etat, le peuple , Éditions La Découverte, Parigi 2001.
[5] Il testo più conosciuto è “La catastrophe imminente et les moyens de la conjurer” datant de septembre 1917 (immediatamente prima della rivoluzione d’ottobre), che riprende e accentua i temi sviluppati da Lenin dal 1915 (in Œuvres , Paris- Mosca, 1959, tomo 24.
[6] NT: vedi anche Foucault che rovescia il celebre postulato di Clausewitz: è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi e non il contrario; non è quindi che la necessaria conseguenza del fatto che tra società e potere il conflitto si è finalmente rivelato irriducibilmente “bio-politico”, senza altra definitiva soluzione che la vittoria della prima sul secondo. Poiché è la vita stessa ad essere individuata come la vera posta in gioco della politica, ogni contesa in termini giuridici e di sovranità appare chiaramente un surrogato d’altri tempi, e l’unica prospettiva per difendere il sociale sta nel guerreggiare col potere… ma l’imperialismo odierno è sterminatore e non h alcun interesse alla salvaguardia della vita (se si punta sempre più alle nuove tecnologie x sostituire i militari è innanzitutto per una questione di profitti ..
[7] Tacito, Vie d’Agricola , 30.
[8] sottotitolato “Essai de vulgarisation”, scritto nel 1916 e pubblicato l’anno seguente, nell’aprile 1917 tra le due «rivoluzioni». Vedi Opere , Tomo 22.
[9] Vedi il mio articolo “ Sur la catastrophe informatique : une fin de l’historicité ?”, in Les Temps Qui Restent (rivista online), aprile 2024, in cui mi riferisco in particolare a Benjamin Bratton, The Stack. Software e sovranità , Cambridge, MIT Press, 2015.
[10] Carl Schmitt: Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950), trad. fr. Peter Haggenmacher, PUF 2012. Schmitt giocaticamente sul doppio significato etimologico del greco nomos : la legge, la condivisione o distribuzione.
[11] Sulla prossimità tra le tesi di Schmitt a proposito del “Grossraum” e quelle di Samuel Huntington a proposito dello “choc delle civiltà”, cfr. Etienne Balibar, L’Europa, l’Amérique, la Guerre . Réflexions sur la médiation européenne, Éditions La Découverte, Parigi 2003, Éclaircissement n° VIII.
[12] Colpisce che lo stesso anno esattamente un’idea simile sia proposta da Hannah Arendt ( Les Origines du Totalitarisme ) e da Aimé Césaire ( Discorso sur le colonialisme ).
[13] Qui mi distinguo in parte dalla tesi di Éric Alliez e Maurizio Lazzarato (essi stessi ispirati dall’opera di Antonio Negri e Michael Hardt : Empire et Multitude , 2000-2004) in Guerres et capital , Editions Amsterdam, 2016, traendone tuttavia un’ispirazione diretta.
[14] Non c’è impero che non sia centrato su una nazione che si concepisce essa stessa come una “Grande Nazione” (espressione della Rivoluzione francese contemporanea dello scontro con la coalizione monarchica e la spedizione d’Egitto), o come dotata di un Manifest destini di conquista del continente (1845: annessione del Texas e guerra USA-Messico). Questo sarebbe l’oggetto di uno studio speciale. Vedi anche le nozioni di “Greater Britain”, Grossdeutschland , “Mondo russo” ecc.
[15] Riprendo questa nozione di Mohamed Amer Meziane: Des empires sous la terre. Histoire écologique et razziale de la sécularizzazione , Éditions La Découverte, Parigi 2021. Vedi anche la sua intervista con Emir Mahieddin: “Pour une anthropologie de l’impérialité”, in Journal des anthropologues, 170-171, 2022.
[16] Traduzione francese in EP Thompson e alii., L’exterminisme. Armement nucléaire et pacifisme , Parigi PUF 1983.
Fonti: https://aoc.media/analyse/2024/11/24/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-1-2/ e
e https://aoc.media/analyse/2024/11/25/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-2-2/
(Traduzione di Turi Palidda. Ringraziamo per la revisione del testo Mario Sei)
SECONDA PARTE
Imperialismo e capitalismo “assoluto” (2/3)
(Sono stato ben lungo senza dubbio) Mi sono dilungato su questo primo punto, perché mi sembrava particolarmente d’attualità. Passo ora al secondo, che riguarda l’idea dell’imperialismo come “stadio” o “periodo” nella storia del capitalismo, e di conseguenza alla questione “in quale forma di capitalismo viviamo oggi.
L’aggettivo russo che figura nel titolo di Lenin (vyschaia) è correntemente tradotto con “supremo” o “superiore”, ma (succede che si intenda piuttosto) è spesso inteso come uno stadio “ultimo”, o “l’ultimo” (nel senso (do) di più recente). Questo mostra bene che l’idea di Lenin comporta un’ambiguità, immediatamente legata alla convinzione che l’imperialismo (“epoca delle guerre e delle rivoluzioni”) corrisponda alla catastrofe finale dello sviluppo del capitalismo come formazione socio-economica : si apre allora un momento messianico nel quale l’umanità è (NT : sarebbe) confrontata all’alternativa dell’autodistruzione o della ricostruzione su delle basi radicalmente altre (la parola di Rosa Luxemburg : “socialismo o barbarie”)[1].
Ammettiamo che è diventato molto difficile mantenere questa visione escatologica del senso della storia – anche se, e soprattutto se, essa deve (formare) costituire “l’orizzonte di attesa” (Erwartungshorizont) (nel quale) a cui pensano dei rivoluzionari che giudicano insopportabile l’idea di vedere nel capitalismo la forma insuperabile dell’esistenza. (il capitalismo la forma insorpassabile dell’esistenza umana un’idea insopportabile.) (Nondimeno pertanto) Resta il fatto che l’idea di associare una riflessione sull’imperialismo con l’analisi di stadi o di formazioni successive nella storia del capitalismo (sia) è priva (sprovvista) di validità. Ma da tale punto di vista, direi molto velocemente che due rettifiche sono intervenute rispetto alla problematica leninista, delle quali dobbiamo tenere conto. Esse riguardano direzioni temporali opposte.
La prima, è quella che propongono i teorici del “sistema-mondo capitalista[2]“: loro rettificano l’idea che i tratti essenziali (o le tendenze storiche) del capitalismo siano interamente comprensibili a partire dall’analisi delle forme “avanzate” che esso riveste nel “centro” dell’economia-mondo[3], poiché ciò che è (NT : sarebbe) determinante per la sua evoluzione è (NT sarebbe) il rapporto di dipendenza tra il centro e la periferia (nella quale prevalgono altri modi di produzione del salariato, non meno “capitalisti”, ma basandosi su altre modalità di sfruttamento della forza lavoro). Questa dipendenza è mutua ma non simmetrica. Essa è sempre esistita, come correlato del capitalismo. Questo significa che l’imperialismo del capitale è originario, non è uno stadio tardivo (e ancora meno l’ultimo) nella storia del capitalismo. Non è mai esistito un capitalismo che non sia imperialista, benché le sue forme non abbiano smesso di trasformarsi. L’imperialismo non è quindi una nozione escatologica, è un concetto variante (o differenziale).
Da cui l’importanza dell’altra rettifica, (riguardante) che si svolge in senso opposto, e di cui gli autori rivendicano più o meno esplicitamente una ispirazione gramsciana[4]. Essa si basa è sull’idea che nuove fasi o epoche della storia del capitalismo, caratterizzate da una nuova configurazione delle classi e delle lotte di classe, siano separate da dei momenti d’incertezza storica (piuttosto che di “transizione”) nei quali le contraddizioni non si risolvono senza rivoluzioni (toccando) che coinvolgono tutta l’armatura istituzionale della società[5]. Questa idea che potrebbe sembrare banale diventa problematica, ma anche, mi sembra, chiarificatrice, se si ammette che la rivoluzione può orientarsi in (delle, cancellare ‘delle’ ) direzioni opposte.
Gramsci stesso ha abbozzato questa idea (difficile per un comunista!) attraverso la categoria paradossale di “rivoluzione passiva” (ripresa a uno storico italiano dell’inizio del XIX secolo[6]) di cui si serve in particolare per descrivere le trasformazioni industriali, sociali e culturali del “fordismo” americano, e che possiamo (intendere, il senso qui è totalmente diverso) estendere senza difficoltà ai compromessi di classe che, negli USA sotto il nome del “New Deal” e in Europa sotto quello di “socialdemocrazia”, hanno riformato il capitalismo con il sostegno di una frazione importante della classe operaia organizzata[7].
Le politiche neoliberali che cominciano a prendere forma negli ultimi anni della Guerra Fredda e diventano dominanti su scala mondiale dopo il crollo dei regimi communisti (salvo in Cina, punto decisivo), permettono di fare un passo (di) in più rispetto a questa idea: questa trasformazione del sistema capitalista imperialista alla fine del XX secolo, che comanda oggi tutta la nostra vita, è ben stata una controrivoluzione. Ma bisogna ammettere che le controrivoluzioni sono anche delle rivoluzioni, (questo più o meno) nel senso che esse sono destinate a restaurare una struttura gerarchica (de la) della società (et) e non a (metterla “sottosopra) ribaltarla (il che non è poco)[8]“.
Introdurrò allora la categoria di cui, da qualche tempo, mi servo (con altre) per definire il capitalismo nel quale viviamo oggi : quella di capitalismo assoluto[9]. So che essa può prestarsi a delle ambiguità, ma stimo che valga la pena di prenderne il rischio per ben fare emergere le questioni in gioco. Prendo questo aggettivo “assoluto” sia per analogia con la “monarchia assoluta” (per designare un capitalismo che regna senza concessioni, o almeno avendo ridotto alla difensiva i suoi antagonisti classici) e con una modalità dialettica (quasi-hegeliana), in opposizione con ciò che Immanuel Wallerstein aveva chiamato il “capitalismo storico” : quello che corrispondeva alle forme successive della polarizzazione del mondo tra “centro” e “periferie”. Il capitalismo assoluto “eredita” il capitalismo storico. Perché, chiederete, non accontentarsi della categoria di neoliberalismo?
Perché secondo me questa non corrisponde che a una parte dei tratti caratterizzanti il nuovo capitalismo, e suggerisce che per interpretarli si debba innanzitutto ritornare (si debba interpretarli ritornando innanzitutto) all’immemorabile (immemoriale) conflitto tra delle politiche economiche che conferiscono un primato sia a delle regolazioni e imprese statali, sia a operazioni della “libera concorrenza” e alle forze del mercato[10]. Ciò che allora resta nell’ombra, è la maniera con cui delle forme anteriori dell’antagonismo di classe e dei conflitti sociali sono stati “superati” o eliminati. Penso al contrario che bisogna analizzare il capitalismo assoluto come intrinsecamente postsocialista e postcoloniale.
E’ postsocialista perché riesce a utilizzare le istituzioni e i poteri statali che sono stati fortificati nel corso del “momento socialista” dell’economia-mondo (1917-1968) mentre smantellava o eliminava il sistema dei diritti sociali incorporati negli Stati (al) del XX secolo (diversamente a seconda dei regimi) nella loro costituzione materiale di “cittadinanza”. Bisogna notare l’importanza speciale che riveste qui lo studio delle trasformazioni “postsocialiste” nella Cina comunista, che sembra sempre più come lo Stato che dirige l’evoluzione mondiale. La Cina è tipica e eccezionale nel suo modo di “superare” il socialismo verso un nuovo capitalismo. Essendo (stato) stata più intensamente socialista, prende ora la testa nella costruzione del nuovo capitalismo[11].
Ma il capitalismo assoluto è anche postcoloniale perché la tendenza alla mercantilizzazione integrale dell’esistenza e alla delocalizzazione dei processi di produzione (la formazione delle “catene di valore” mondiali) che (li) lo caratterizza (non) ha potuto compiersi (che) grazie alla rottura delle barriere (d’) degli imperi e all’apertura delle economie periferiche ai flussi di merci e di capitali (vedi di popolazioni) che ha innescato la decolonizzazione formale (quella delle “indipendenze”)[12].
Per precisare le cose, attiro l’attenzione su qualche tratto che colpisce, quantitativo e anche qualitativo. Nell’economia mondializzata attuale, la polarizzazione delle condizioni sociali è potuta essere ridistribuita, ma essa non è stata per nulla attenuata: al contrario, ha raggiunto dei livelli inediti, con l’estensione della povertà di massa e dell’insicurezza da un lato, la concentrazione della ricchezza e del potere tra le mani di una piccola minoranza di finanzieri o di possidenti (gente della rendita) dall’altro (lato). Ma la sua distribuzione geografica e nazionale cambia molto velocemente. Le frontiere che dividevano il mondo del “capitalismo storico” sono state ritracciate e moltiplicate. Senza dubbio la spoliazione estrema si concentra sempre nel “Sud” (e notoriamente in Africa e in Asia del Sud-Est[13]), ma è anche nel “Sud” che sorgono i campioni più aggressivi del nuovo capitalismo finanziario e industriale.
Da (cui) qui sorge il carattere problematico dell’idea di una strategia “antiimperialista” che riunirebbe i paesi e le masse del “Sud globale” (, rappresentanti) per rappresentare i loro interessi comuni. (Ma) Inversamente i processi di precarizzazione” e di ri-proletarizzazione s’accentuano nel “Nord”, dove i lavoratori sono sempre meno protetti dalle istituzioni dello “Stato sociale[14]” (NT : e dalle polizie e giustizia che invece ne reprimono sempre più le rivolte) e beneficiano sempre meno dei privilegi dell’impero. Ciò che, (lo) come si sa, provoca delle violente reazioni sociali, dette “populiste” e (meno) per nulla progressiste (NT : salvo le rivolte in tanti luoghi e momenti del super-sfruttamento e nelle banlieues). C’è quindi un “Nord” nel “Sud” e (del) un “Sud” nel “Nord”, ciò che interpreto dicendo che la divisione dell’umanità in condizioni diseguali, caratteristica del capitalismo e strettamente legata alla struttura dell’imperialismo, è sempre presente, ma la sua topografia – o se si vuole la sua “geometria” – ha conosciuto una rivoluzione. Non si tratta solo di ridistribuzione dei grandi aspetti economici e demografici, ma di una nuova divisione de mondo. Ci tornerò.
Terminerò su tale punto con un altro aspetto di questa geometria che conduce a definire la contraddizione principale (come si diceva il vecchio codice marxista) di questo “nuovo imperialismo” (David Harvey). In modo significativo, dal presente ci fa tornare sino agli inizi della storia dell’imperialismo. Il capitalismo assoluto, che (dominava) domina le politiche monetarie neoliberali e le strategie del profitto a breve termine sui mercati finanziari, conferisce una funzione centrale alla gestione e allo sfruttamento del debito, (di cui fa il) che usa come suo principale strumento di dominio sugli individui, sulle imprese, sugli Stati[15].
(Ma dei) I paesi e (delle) le società che si situano ai due estremi del rapporto d’interdipendenza finanziaria vi reagiscono evidentemente in modo opposto : un’enorme debito (pubblico e privato) non ha lo stesso significato per un’economia dominata come quella dell’Argentina, costantemente minacciata di fallimento e sottoposta ai piani di raddrizzamento e alle riforme strutturali imposte dal FMI, e (dagli) per gli USA che prestano nella loro propria moneta – quelle di cui sono riusciti a fare la moneta di riserva mondiale – e beneficiano così di facilità di credito quasi-illimitate. Quanto agli altri paesi (compresi quelli dell’Unione europea), a dei gradi diversi navigano tra i due poli, alle prese con la “sostenibilità” del loro debito[16]. (Ma quale) Qual è quindi la soluzione offerta dall’imperialismo contemporaneo ai paesi pesantemente indebitati per permettere loro di sopravvivere e di continuare a contribuire al processo di «accumulazione su scala mondiale” (S. Amin) ?
La risposta non può essere semplice (e non (si dubiti che, eliminare) non ho alcuna pretesa di esperto in tale campo), ma mi sembra difficile ignorare o minimizzare l’aspetto seguente: questi paesi sono spinti in permanenza a tornare verso cioè che era sempre stata la “specialità” della periferia dall’epoca della rivoluzione industriale e dello sviluppo delle tecnologie “carbone”, cioè l’economia estrattiva nello sfruttamento minerario, l’agricoltura estensiva e la pesca industriale, il supersfruttamento delle foreste, l’esportazione delle materie prime che si situano al gradino più basso nella catena del valore. Questa economia non è fondata su una “distruzione creativa” schumpeteriana (innovazione tecnologica che elimina i procedimenti esistenti e massimizzando ciò che Marx chiamava il “sopravalore relativo”) ma su una produzione distruttrice delle sue proprie risorse e mezzi[17].
Questo mi conduce all’idea che la contraddizione fondamentale dell’imperialismo contemporaneo, (in quanto) che coincide con lo sviluppo di un capitalismo assoluto, non è identificabile né come una “pura” contraddizione sociale (come risulta dalla (quale quella che illustra la) crescita delle diseguaglianze mondiali), né come una “pura” contraddizione ecologica (di cui l’estrattivismo è un fattore essenziale anche per il suo contributo diretto al cambiamento climatico e per il suo legame alle nuove tecnologie ultra-inquinanti ed energivore), ma come una combinazione antagonista dei due[18].
In un passaggio che colpisce del Manifesto comunista, Marx e Engels avevano spiegato che il capitalismo arriva a un limite assoluto in quanto modo di produzione quando, avendo spinto i lavoratori il cui sfruttamento li fa vivere al di sotto del minimo vitale, comincia così a distruggere la condizione principale della sua propria riproduzione, cioè il lavoro vivente. (Ma una soluzione viene loro subito in mente) A Marx e Engels era venuta in mente una soluzione: “l’espropriazione degli espropriatori”, o la riappropriazione da parte degli operai dei loro mezzi di produzione e d’esistenza.
E’ molto tentante vedere nelle tendenze del capitalismo assoluto di oggi una forma d’autodistruzione ancora più radicale, poiché non sono solo delle vite umane che sono continuamente annientate, ma le condizioni biologiche e ecologiche al di fuori delle quali semplicemente non può più esserci della vita (umana o altro). Con il (e) trionfo del capitalismo assoluto sparisce lo stesso suolo sul quale operava –sia nella modalità del territorio, dell’ambiente (in cui impera) o dell’impero. E certo siamo sempre più numerosi a prendere coscienza della gravità di questa minaccia e dell’urgenza di farvi fronte con tutti i mezzi, ma l’articolazione di una tale coscienza con dei movimenti politici che attacchino la diseguaglianza del mondo è praticamente impensabile, (anche su lungo periodo sin) perlomeno fino a quando gli stati e le società stesse continueranno a essere governate dalla regola del profitto massimo, e non dalla preservazione della vita. Finché non si delinea un programma credibile che coniughi l’obiettivo della decrescita razionale con quello dell’eliminazione della povertà. Un tale programma potrebbe essere definito socialismo post-imperialista. Ma né il suo linguaggio né le forze che lo imporrebbero sembrano esistere (ancora). Vedete che questa seconda parte della mia presentazione non si conclude in modo più ottimistico della prima.[19] (continua)
NOTA
[1] La formula figura nella “brochure de Junius”, La crisi de la social-démocratie , scritta da Rosa Luxemburg in carcere nel 1915.
[2] Vedi in particolare: Samir Amin, L’accumulation à l’échelle mondiale (Anthropos, 1970); Immanuel Wallerstein: Capitalismo storico . Londra: Verso.1883 ; Il sistema del mondo moderno , 4 vol. in diversi editori, 1974-2011); Giovanni Arrighi: Il lungo Novecento , Verso 1994.
[3] Come aveva detto il Marx della prima edizione del Capitale riferendosi alla Germania, e più in generale ai paesi che non avevano ancora conosciuto la rivoluzione industriale: De te fabula narratur… in questa analisi del «rapporto sociale» generato dal capitale industriale, è del tuo avvenire prossimo o lontano che si tratta. Un giorno il mondo sarà omogeneizzato sotto il dominio del capitale, a meno che nel frattempo una rivoluzione proletaria non intervenga.
[4] Penso in particolare agli autori francesi della «scuola della regolazione”: Michel Aglietta, Robert Boyer, Alain Lipietz. Ma vedi anche Geoff Mann, Nel lungo periodo siamo tutti morti: keynesismo, economia politica e rivoluzione , Verso, 2017.
[5] L’ interregnum secondo Gramsci, si definisce con una doppia negazione: “Il vecchio è già morto, il nuovo non è ancora nato”, è oggi citato ovunque. L’antitesi del vecchio e del nuovo sembra sempre dominata dall’idea di un obiettivo o telos «in attesa», ma questa attesa stessa è suscettibile di inficiarne il contenuto.
[6] Cfr. https://criticamarxista.com/wp-content/uploads/2023/04/guido-liguori_-critica-marxista-_6_2022_web-trascinato.pdf : Si tratta di Vincenzo Cuoco che la conia nel suo saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, pubblicato nel 1801 e, in una seconda edizione, nel 1806. «Sul concetto di rivoluzione passiva si vedano le osservazioni di Gramsci, Il Risorgimento , cit., pp. 106-107 e pp. 135-137; Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce (Torino, 1948), pp. 184-185 e p. 219; Passato e presente (Torino, 1951), p. 53” (G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. I: Le origini del Risorgimento , Milano, Feltrinelli, 1956, p. 423)
[7] La più interessante senza dubbio, è l’idea che si può leggere tra le righe dei Quaderni del carcer e: il regime sovietico riorganizzato da Stalin dopo la fine della “Nuova Politica economica” (NEP) e la collettivizzazione forzata dell’agricoltura è anch’essa una forma di «rivoluzione passiva».
[8] “The World Turned Upside Down”: formula dei Levellers nella prima rivoluzione inglese. Vedi il mio contributo in Une histoire Globale des Révolutions, a cura di Ludivine Bantigny, Laurent Jeanpierre e alii, Éditions La Découverte 2023 : «Échec des révolutions?”.
[9] Etienne Balibar: “Verso una nuova critica dell’economia politica: dal plusvalore generalizzato alla sussunzione totale”, in Capitalismo, concetto, idea, immagine. Aspetti del Capitale di Marx oggi , a cura di Peter Osborne, Eric Alliez, Eric-John Russell, Kingston University London 2019 ; “Capitalismo assoluto”, in Neoliberalismo mutante. Market Rule and Political Rupture , a cura di William Callison e Zachary Manfredi, Fordham University Press, 2020.
[10] Evidentemente è lo schema che privilegiano i «teorici» del neoimperialismo (come Hayek, Friedmann ecc.), che hanno presentato la politica economica e le “riforme strutturali” che sostenevano come ritorno a una ortodossia economica, in opposizione alle eresie ispirate da Keynes e «sbirciando» verso il bolscevismo (pianificazione, investimenti pubblici, controllo dei prezzi, diritti sociali garantiti ecc.).
[11] Vedi Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Lineages of the 21st Century, Verso 2009, e Benjamin Bürbaumer, Chine/États-Unis. Le capitalisme contre la mondialisation , Éditions La Découverte, Parigi 2024. // su Arrighi vedi https://effimera.org/gli-interventi-alla-presentazione-della-nuova-edizione-del-libro-di-giovanni-arrighi- e-beverly-j-silver-caos-e-governo-del-mondo-a-cura-di-effimera/ e https://effimera.org/adam-smith-a-pechino-di-giovanni-arrighi-presentazione-della-nuova-edizione-a-milano-18-marzo-2022/
[12] Ciò che fa l’oggetto in particolare del lavoro di Sandro Mezzadra e Brett Neilsson dopo Border as Method, or the Multiplication of Labour (Duke University Press 2013) sino a The Politics of Operations. Scavando il capitalismo contemporaneo (Duke University press, 2019).
[13] Un segnale spettacolare ne è stato dato durante la pandemia di Covid-19 con la dichiarazione del Direttore dell’Organizzazione Mondiale della Salute, il Dr. Tedros Adanom Ghebreyesus, che denuncia una situazione d’«apartheid vaccinal» su scala mondiale ( cfr il mio saggio “Un monde, une santé, une Pandémie et cosmopolitique”, in Ecrits, III: Cosmopolitique l’espèce humaine , Éditions la Scoperta 2022.
[14] Che chiamo più precisamente: “État national social”
[15] Etienne Balibar, “La politica del debito”, in Cultura postmoderna, Volume 23, Numero 3, maggio 2013.
[16] La situazione della Cina è una volta di più del tutto particolare poiché, in preda da più anni a delle “bolle” di speculazione immobiliare, è anche la principale detentrice sul mercato finanziario dei titoli statunitensi (obbligazioni di Stato), ciò che le dà una capacità interna di pesare sulle politiche statunitensi, ma ciò può anche spiegare perché non ha interesse a cercare di scardinare la dominazione del dollaro (questo punto è molto discusso: vedi Michel Aglietta, Guo Bai, Camille Macaire: La Course à la suprématie monétaire mondiale. À l’épreuve de la rivalité sino-américaine , Edizioni Odile Jacob, Parigi 2022). Sulla Cina si vedono gli interventi al seminario di effimera citato alla nota 27 (fra essi quello di Battaglia, di Torre, di Mezzadra e di Fumagalli)
[17] Verónica Gago e Sandro Mezzadra: “Una critica delle operazioni estrattive del capitale: verso un concetto ampliato di estrattivismo”, Rethinking Marxism 29, n. 4, 2017.
[18] Si può anche pensare alla nozione di «policrisi» proposta da Adam Tooze e altri che dopo di lui l’hanno recentemente rivalutata, ma in qualche sorta “vista dal basso”.
[19] (NT: allora, non bisogna dire che l’imperialismo di oggi produce essenzialmente morte? … L’ossessione della “crescita” non è per lo sviluppo economico quale quello conosciuto sino agli anni ’70, essa distrugge piuttosto che costruire … le costruzioni di oggi producono morte … esempio : le grandi dighe in India e nelle grandi città si fanno proliferare i grattacieli, la gentrificazione , il socialwhashing e il greenwhashing e speculazione immobiliare-finanziaria (di grattacieli che speso restano vuoti) al prezzo dell’espulsione e la morte di una gran parte dei loro abitanti e della società di prima … in Palestina i coloni vogliono scacciar via i Palestinesi o sterminarli … Il boom delle nuove tecnologie nelle guerre in corso (e anche nel loro continuum che è la guerra sicuretarie nelle città contro immigrati, rom e marginali) con droni e persino atomiche dette “tattiche” oa bassa intensità non è dovuta all’intento di salvare le vite di soldati (che ormai sono solo quasi sempre mercenari) ma alla scelta di privilegiare il business delle nuove tecnologie in tutti i campi (il business del XXI secolo) -vedi anche Conflitto, sicurezza e rimodellamento della società: The Civilization di War (ivi in particolare i capitoli di Alain Joxe e quello di Dal Lago).
Fonti: https://aoc.media/analyse/2024/11/24/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-1-2/ e
e https://aoc.media/analyse/2024/11/25/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-2-2/
(Traduzione di Turi Palidda. Ringraziamo Mario Sei per la revisione del testo)
TERZA PARTE
Dopo aver affrontato la questione dell’imperialismo e della guerra e poi quella dell’imperialismo e del capitalismo, arrivo al terzo punto annunciato: l’intersezione delle questioni della cultura e dell’imperialismo, che tratterò cercando di valutare l’attualità delle analisi di Edward Saïd.
Non è necessario riassumerle nei dettagli, sono ben conosciute e sono tra le nostre principali risorse intellettuali. Ma voglio mostrare perché, a mio avviso, la questione dell’imperialismo non può essere pienamente problematizzata senza il tipo di “critica culturale” che lui ha praticato e ispirato. Saïd non ha mai smesso di difendere l’idea che la letteratura, le arti, la filosofia, la storia, sono discorsi “in situazione”, che non si possono isolare le tendenze politiche e sociali che, in una data società e per un lungo periodo, separano dalle rivoluzioni, rafforzano una certa “egemonia”. Ma non ha mai ceduto nemmeno minimamente al riduzionismo sociologico: il suo pensiero è l’antitesi dell’idea che la cultura costituisca un’espressione o una sovrastruttura del sistema di dominio esistente. Non (ne deriva) ne è un derivato. Ed è per questo che sicuramente mancherà qualcosa nella nostra comprensione di cosa sia l’imperialismo se pensiamo di evitare le domande da lui poste.
Lo ridirò così: la cultura analizzata da Saïd non è l’espressione o lo strumento del dominio (le varianti classiche dell’idea “marxista” di sovrastruttura), essa funziona come mediazione politica della storia che è costruita e produce i suoi effetti nell’elemento del discorso. Ma dobbiamo fare un passo ulteriore: tale mediazione non presuppone soggetti già dati, con un’identità fissa, ai quali fornire mezzi di espressione. Al contrario, li costituisce “performativamente” attraverso le sue operazioni di enunciazione e di ricezione. Ecco perché la cultura non può essere separata dal conflitto: contiene la possibilità di un “contro-discorso” che, nelle situazioni critiche, ne penetra e ne sovverte il significato e gli effetti dall’interno. Parlare, scrivere, leggere, interpretare non potranno mai rimanere sotto il controllo delle loro autorità: perché ci sono “due lati” (there are two sides, come scrive in Cultura e Imperialismo), e anche due voci che si fanno sentire all’interno dello stesso testo. Da qui i commenti sorprendenti sulla ferocia della violenza coloniale in Conrad (Cuore di tenebra), o il modo in cui Kipling in Kim “tradisce” l’irriducibilità della vita indiana all’oggettivazione che l’amministrazione inglese cerca di imporgli.
Scopriremo tra poco la controparte dialettica del lato dei discorsi antimperialisti. La domanda che allora dobbiamo porci è: in che modo la mediazione conflittuale rappresentata dalla cultura è in grado di orientare e influenzare la traiettoria dell’imperialismo, non solo a livello delle rappresentazioni, ma a quello delle istituzioni che strutturano la sfera pubblica (stampa, editoria, istruzione ) e configurano il potere intellettuale come un rapporto diseguale e instabile allo stesso tempo?
(Ma) Queste considerazioni richiedono tuttavia una correzione. Ciò che Saïd cercava non era (quello di) costruire un (quadro) modello (dell’invariante) invariabile che costituirebbe l’ideologia dell’impero, (come) cioè un sistema di rappresentazioni che proiettano la figura dell’alterità dell’orientale potenzialmente soggetto al dominio dell’Occidente “europeo”, e quindi una figura che sarebbe rimasta costante per tutta la storia della colonizzazione, (Così) essenzializzata. Certo, si è potuto leggere Saïd in questo modo, sia per servire (un) come argomento militante anticolonialista sia, perversamente, per “rivolgere” contro l’Occidente la sua immagine dell’Altro Orientale e rivendicarlo come arma di liberazione. Per questo ha sentito il bisogno di correggere il suo discorso, senza rinnegarlo[1]. L’esame del percorso complessivo e delle declinazioni che esso subisce (dall’Orientalism sino a Covering Islam e Reflections on Exile, passando per Culture and Imperialism) mostra bene che il suo (oggetto) scopo è piuttosto quello di analizzare il cambiamento che avviene nel rapporto dell’imperialismo con la produzione culturale e il suo uso, tra l’epoca di fondazione (diciamo quella della Spedizione d’Egitto, dove i temi dell’orientalismo si cristallizzano sotto lo sguardo della “scienza” europea), e l’attuale epoca in cui si svolgono i lavori degli “esperti” americani che, già prima degli attentati del 2001 contro il World Trade Center, hanno creato l’immagine del musulmano come nemico congeniale della modernità , della moralità e della pace.
Il vasto spazio intermedio, ovviamente, è l’analisi del discorso imperiale britannico, nelle sue dimensioni educative, estetiche e strategiche. Considerando il percorso dal suo punto di arrivo, ciò che colpisce è sia il progressivo degrado del discorso dell’orientalismo, che perde i “contrappunti” o la sovrapposizione di “voci” che lo rendevano complesso, sia la stabilità degli stereotipi antropologici che hanno l’effetto di articolare la svalutazione dell’Altro con l’amministrazione di un mondo basata sulla contrapposizione tra padroni e schiavi.
Ma questo ci porta naturalmente a porci la domanda sul dopo della storia: come è possibile che il discorso imperiale inscritto nella nostra cultura conduca sempre a una sorta di vita fantomatica quando gli imperi non sono più in costruzione e nemmeno in espansione, ma in declino, sul punto di cedere il passo a un altro tipo di distribuzione delle popolazioni, che non è governata dalla sovranità territoriale ma dalla “pseudo-sovranità” del Global Financial Market[2]?
Prima di offrire una risposta, devo fare una nuova deviazione.
(Per prima) Innanzitutto (e mi ispiro qui in particolare al saggio di Saïd su “Le sionisme du point de vue de ses victimes”, sempre prolungando ciò che dicevo (sopra della) prima sulla crudeltà degli imperi declinanti), il discorso della disumanizzazione dell’Altro diventa tanto più necessario (che) quando si tratta non di sfruttarlo o dominarlo, ma di farlo sparire[3]. (Questo sta in delle ragioni di) Ciò serve sia alla giustificazione e alla stima di sé quanto a degli obiettivi di propaganda presso il mondo circostante. Il discorso del sionismo e dei suoi alleati occidentali a proposito del popolo palestinese ne dà oggi una tragica illustrazione, come già il discorso dei politologi americani a proposito degli arabi e dei musulmani dopo la rivoluzione iraniana e la prima guerra del Golfo. Ma un tale discorso d’eliminazione non è identico a quello che proponeva l’orientalismo colto nel periodo egemonico degli imperi coloniali.
Perché – seconda osservazione – se la “cultura alta” dell’epoca imperialista non è meno razzista della cultura “popolare” (o piuttosto populista), il suo procedimento caratteristico non consiste nell’escludere l’Altro dalla specie umana, ma piuttosto nell’inscrivere in una costruzione dell’universale[4] delle tesi gerarchiche o differenzialiste quali la diseguale capacità dei popoli di istruirsi essi stessi, o la loro diseguale capacità di “liberarsi” dalla religione per accedere a una concezione del mondo basata sulla scienza, sul diritto e sull’umanesimo morale.
Il punto d’onore e il coronamento degli sforzi della cultura imperialista nella sua forma intellettuale consiste sempre nel gestire un’unità degli opposti: giustificare paradossalmente le discriminazioni e le gerarchie razziali attraverso un’antropologia che fa corpo (come vediamo in Kant) con il grande racconto del progresso e di uguaglianza, per conferirgli in cambio “dialetticamente” il beneficio dell’antitesi e della negatività. Possiamo allora osservare il modo in cui questa contraddizione (questo “contrappunto”) apre la possibilità di un’affermazione dell’universale contro i suoi usi egemonici, dal punto di vista dei “subalterni” più o meno disarmati (non per sempre) sul terreno del potere militare ed economico, ma suscettibili d’apparire come i veri portatori dell’universale. Perché affermano la verità di fronte al potere[5].
L’esempio più brillante della modernità storica rimane la rivoluzione haitiana (letta attraverso Césaire e C.L.R. James). Questa dialettica è al centro di tutti i movimenti rivoluzionari antimperialisti del XX secolo, come dimostrato in particolare, per l’Africa, dai lavori di DuBois e Fanon. Entrambi grandi scrittori.
E vengo alla mia osservazione finale. Le critiche a Saïd che attaccano il suo intellettualismo o rimproverano il privilegio che nella sua analisi accorda alla letteratura, alla filologia, alla scienza e alla retorica a discapito della “cultura popolare” non mi hanno mai convinto[6]. Penso che avesse ragione nel sottolineare la potenza del “testo” e degli effetti della testualità[7] durante quella che possiamo chiamare l’epoca imperiale borghese, alla quale partecipano tutti gli scrittori di cui parla, da Flaubert a Camus e da Melville a Salman Rushdie. Tuttavia (attraverso l’istruzione) la letteratura è la forza trainante della cultura borghese, una cultura di cui Saïd dimostra in tutto e per tutto il carattere imperiale.
Ma il “privilegio letterario” così descritto diventa ancora più significativo quando ci rivolgiamo al discorso contro-egemonico, quello dei leader e dei teorici della rivolta contro l’imperialismo, che gli intellettuali postcoloniali prolungano, perché è con i mezzi della scrittura che, cercando di superare l’imperialismo esistente senza generare un nuovo imperialismo, anch’essi “lavorano” sulle tensioni caratteristiche della loro posizione: tra il nazionalismo e il cosmopolitismo, la difesa delle identità e quella dell’universalità. Said – grande ammiratore di Goethe e della sua idea di Weltliteratur – era profondamente consapevole di queste tensioni. Per questo sosteneva un discorso postcoloniale che continua la letteratura invertendone gli effetti politici. Il che era coerente con la sua “laicità”. La letteratura è un’attività intrinsecamente secolare, anche quando trova ispirazione nei testi sacri e nelle tradizioni religiose.
Dove siamo da questo punto di vista? Diciamolo senza mezzi termini: non esiste una borghesia culturalmente egemonica, soprattutto a livello planetario, che è quello che conta. Il potere è monopolizzato dalle multinazionali miliardarie e dai loro dirigenti politici o commerciali: parlano globish e non hanno alcun interesse per la letteratura (sostituita dai videogiochi e dal consumo (cospicuo) ostentato). Sono quindi perfettamente immunizzati rispetto agli effetti del contro-discorso.
Questo non vuol dire che la letteratura non possa reinventarsi all’interno di altre pratiche di scrittura, musica, performance ispirate alla cultura creola, al pop o al rap.
Ma tre forze gigantesche lavorano in anticipo per neutralizzarne tali effetti, divorando lo spazio pubblico e distruggendo il testo: il fondamentalismo religioso sotto le sue diverse bandiere (evangelizzazione cristiana, islamismo fondamentalista, induismo nazionalista, e perfino la “laicità” alla francese nella sua strumentalizzazione islamofoba (NT e sciovinista inclusa la versione dell’universalismo sciovinista); la mercificazione della cultura (che va ben oltre la sua commercializzazione e trasforma gli oggetti culturali in prodotti calibrati in anticipo per il consumo di massa); l’innovazione informatica, che “globalizza” l’elaborazione dei testi, ma in opposizione alla Weltliteratur, sostituendo l’avventura della traduzione con la trasposizione automatica e la generazione di messaggi da parte dell’intelligenza artificiale[8]. Di questi tre attacchi, il secondo è più distruttivo del primo, e il terzo ancora più distruttivo del secondo. Ma vanno di pari passo, sotto il controllo delle multinazionali.
L’agenzia rivoluzionaria al XXI secolo
Per la terza volta, quindi, concludo con una diagnosi spaventosamente negativa sulle tendenze contemporanee dell’imperialismo. La guerra globalizzata senza fine porta allo sterminismo, il capitalismo assoluto ci imprigiona in una spirale di finanza deregolamentata e di distruzione ambientale, la “postcultura” ha neutralizzato l’antitesi dinamica dei “due lati” della letteratura sotto l’effetto combinato (di) dei tre fondamentalismi: religioso, commerciale, tecnologico …
Tre disastri (compreso) a causa dei quali il rovesciamento nell’“apertura” messianica (Wo Gefahr ist, da wächst das Rettende auch, scrive il poeta[9]) non si lascia più immaginare (spazio di immaginazione).
Quali sono quindi le nostre possibilità di resistere e di costruire un altro futuro[10]? Non so nulla. (Ma bisogna scommettere, poiché «siamo imbarcati”) Ma dobbiamo scommettere perché siamo chiamati in causa. Proporrò dei semplici orientamenti per la riflessione.
A livello più generale, penso che ci debba essere una reciprocità di prospettive tra le lotte di liberazione dirette contro le potenze imperialiste specifiche (vale a dire gli “imperi”, o i loro sostituti) in cui si impegnano i popoli o le comunità che (oppresse) esse opprimono, e la lotta politica contro l’imperialismo in quanto sistema, considerato nella sua totalità e nella sua logica. La resistenza e la rivolta sono ad hominem, anzi ad dominum, sono imprescrittibili e (mirano a) rivolte sempre contro un avversario determinato, perché dei gruppi umani non sono mai oppressi astrattamente da un sistema o una logica, ma da altri gruppi politici concreti, (ricchi) muniti dei loro mezzi civili e militari. Ma neanche la lotta generale (non) può (non) essere sacrificata, perché la difesa ultima contro un imperialismo qualunque risiede sempre nel rapporto di “solidarietà antagonista” che (li) la lega ad altri.
Ma neanche la lotta generale può essere sacrificata. Ciò è particolarmente vero nel caso (frequente) in cui una lotta antimperialista sperimenta la necessità vitale di trovare il sostegno di nemici del “proprio”, il che va inevitabilmente a discapito dell’internazionalismo e delle alleanze con altre rivolte” dal basso”.
Reciprocamente, ogni imperialismo tende a manipolare le vittime dei suoi avversari. Il “vagone piombato” di Lenin non fa eccezione… Nessuna potenza imperialista (neanche quella “egemonica” in un dato periodo) è imperialismo in quanto tale.
Ciò solleva la questione del rapporto dialettico tra universalità e particolarità nella lotta contro l’imperialismo. Un altro modo correlativo di affrontarlo, a mio avviso, consiste nel cercare di riunire gli impegni “antisistemici” locali e globali in un unico discorso (un’unica strategia). Ciò può avvenire attraverso l’universalizzazione di una causa emblematica, affinché diventi una causa “giusta” per il mondo intero: penso ovviamente alla causa palestinese, ma anche ad altre, come la causa degli “erranti” di oggi braccati e mandati a morire tra confini ostili, o a quello delle donne che, soprattutto nei regimi teocratici, vengono brutalizzate e private dei diritti più elementari.
Ciò comporta anche la costruzione di reti transnazionali in cui si formino soggetti collettivi “ibridi” o “intersezionali”, mescolando classi (non tutte…), generi, razze, nazionalità, per difendere interessi comuni come la pace e il disarmo, la cooperazione Nord-Sud in campo economico, educativo e sanitario, e perfino il dialogo interculturale e interreligioso (che è esso stesso una forma di questa” ibridazione”). Innanzitutto, la tutela dell’ambiente, la cui distruzione potrà essere fermata o rallentata solo da un’alleanza “multicolore” radicata ovunque, che è il grande internazionalismo di oggi[11]. Si tratta sia di aggirare gli Stati sia di esercitare la massima pressione su di loro affinché cambino le loro politiche.
Ma in conclusione vorrei ritornare sull’idea di divisione del mondo, che metto al centro della mia sintesi sull’imperialità dell’imperialismo. La divisione del mondo è anche una divisione dell’umanità, che va collocata nella lunghissima storia della “colonizzazione” del pianeta da parte della specie umana e dei modi di occupazione della terra che (la dividono) essa stessa divide, ma che il capitalismo e l’imperialismo hanno ridefinito (tutto) in modo brutale. Con Lenin ho sostenuto che la spartizione imperialista divenne immediatamente una ripartizione, una redistribuzione violenta di territori e popolazioni. Questo è ciò che è accaduto più volte, finché, nel corso del XX secolo, l’emergere di una “superpotenza economica e militare”, il suo relativo declino e la sua sfida da parte di un rivale al tempo stesso strettamente dipendente (la Cina), produce un’unificazione conflittuale del mondo. Le diverse modalità di divisione si sovrappongono come tanti “confini interni”: divisione di alleanze e regimi, divisione di ideologie, distribuzione di zone di ricchezza e povertà, distribuzione di forme di violenza armata… Si sovrappongono ma non coincidono mai esattamente. Direi che questo quadro complesso genera una divisione dell’umanità come tale. Sembra contraddire un’unità o “genericità” [12] che ne costituisce l’orizzonte ma esiste solo in potenza, o meglio è permanentemente impedita da ostacoli e forze che dovrebbero poter essere accantonate. Si tratta, come direbbe il filosofo Gilles Deleuze, di una “umanità mancante”, ovvero di un’unità della specie che non è mai esistita, ma che insiste ovunque contro i poteri che la bloccano. Rimuovere gli ostacoli all’unificazione degli esseri umani, o riunire gli esseri umani (e probabilmente anche i non umani le cui condizioni di sopravvivenza sono state distrutte dal capitalismo) non ha nulla a che fare con la fantasia di creare uno “Stato universale”, un unico impero. È esattamente il contrario: la formazione di una comunità cosmopolita che riunisce popoli, culture e modi di esistere. Diciamo come Said che bisogna puntare, contro la divisione dell’umanità, un “contrappunto” delle molteplici umanità. Si tratta di un’utopia, certo, ma di cui tutte le lotte antimperialiste di varia dimensione e modalità continuano a perseguirne la realizzazione.
Ricordiamo la scelta che i vecchi socialisti e comunisti proponevano un secolo fa di fronte alla catastrofe della guerra mondiale: imperialismo o rivoluzione. Ciò significava anche: solo la rivoluzione può porre fine all’imperialismo, portare l’umanità in una nuova storia. Tanto vale dirlo semplicemente: non so cosa possa essere oggi “la rivoluzione”. Ma credo che tutte le lotte antimperialiste, nella loro enorme diversità di condizioni e modalità, siano rivoluzionarie.
Marx scriveva (o più o meno) che esse sono “il reale movimento che abolisce lo stato di dominio esistente”. E in effetti, prese tutte assieme, potremmo dire che sono la rivoluzione del XXI secolo.
NOTE
[1] Vedi la postfazione del 1994 e la prefazione del 2003 alle riedizioni di Orientalism (25th Anniversary Edition, Vintage Books, 2003).
[2] Étienne Balibar, “Naissance d’un monde sans maître ? Après l’Empire, les marchés”, in Ecrits I, Histoire interminable. D’un siècle à l’autre, Éditions La Découverte, Paris 2020.
[3] Edward Saïd, “Zionism from the standpoint of its victims”, 1979, repr. in The Edward Said Reader, Vintage Books, 2000.
[4] Monique David-Ménard, Les constructions de l’universel. Psychanalyse, philosophies, PUF “Quadrige” 2009.
[5] Edward Saïd, Representations of the Intellectual (The 1993 Reith Lectures), Vintage Books 1996, chap. V : “Speaking Truth to Power” (Sembra che Saïd non conobbe les elaborazioni dell’ultimo Foucault che riattivano la nozione greca della parresia).
[6] Ma non dimentichiamo le sue analisi estese della funzione strategica dei media, in particolare in Covering Islam (Vintage Books, 1981 et 1997), in cui si trova elaborata la grande teoria delle “comunità d’interpretazione”.
[7] NT: Qui si potrebbe dire che tutto il lavoro di Foucault emerge come pertinente e essenziale, in particolare a proposito del discorso del potere, la sua forza pervasiva sino a penetrare le menti e i corpi anche dei dominati oltre che dei suoi alfieri e servi
[8] Vedi il mio saggio “Sur la catastrophe informatique : une fin de l’historicité ?”, cit.
[9] Il termine “Agence” è ripreso non nel senso d’istituzione ma d’attività o di capacità di agire, come può essere il suo equivalente inglese agency.
[10] “Où il y a péril, croît aussi ce qui sauve”, Hölderlin, Patmos, 1803. Citazione favorita da Heidegger.
[11] Vedi le riflessioni semplici e senza concessioni di Amitav Ghosh : Le Grand Dérangement. D’autres récits à l’ère de la crise climatique, Éditions Wildproject, Marseille, 2021. (NT: sulla “crisi climatica” vedi la sezione “Ecologia politica” qui https://effimera.org/categoria/ecologia-politica/
[12] Marx nel suo “Manoscritto del 1844” caratterizzava l’umano come le Gattungswesen, o l’essere generico.
Fonti: https://aoc.media/analyse/2024/11/24/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-1-2/ e
e https://aoc.media/analyse/2024/11/25/geometries-de-limperialisme-au-xxie-siecle-2-2/
(Traduzione di Turi Palidda. Ringraziamo Mario Sei per la revisione del testo)
il saggio di Balibar + stato pubblicato in tre parti su effimera.org