-Antonio Minaldi-
VERSO UN NUOVO PARADIGMA RIVOLUZIONARIO
Le discriminazioni di genere e la segregazione razziale sono da sempre parte del dominio della società borghese e capitalista di stampo occidentale. La prima è il prodotto del modo in cui è stata acquisita e messa a frutto una eredità del passato che vedeva l’esclusione sociale della donna e la sua segregazione entro l’invisibilità della sfera privata, come forma originaria del dominio che ha messo in moto, sin dall’Olocene ben dodicimila anni fa, la macchina della storia umana
Il tema dell’intersezionalità è ormai da qualche anno uno degli argomenti più dibattuti nell’ambito dei movimenti di lotta ed entro i circuiti della sinistra non istituzionale, alla ricerca di nuovi sbocchi e di nuove ipotesi militanti verso un mondo futuribile ed alternativo all’attuale dominio globale del capitalismo finanziario e della ideologia neoliberista che lo supporta. Un circuito di discussioni prodotte da una crisi di lungo periodo. È, infatti, ormai da più di trent’anni, e segnatamente dalla caduta del muro di Berlino che l’ingloriosa fine del “socialismo reale” ha lasciato le forze antagoniste e le masse degli sfruttati e degli esclusi dall’attuale ordine sociale, “orfani” di quella spinta positiva che proveniva dalla speranza di futuro rappresentata dal modello sovietico, anche per coloro che in verità a quel modello non avevano mai creduto, ma ad esso erano comunque costretti a fare riferimento, seppure in senso critico e negativo, nella ricerca di percorsi alternativi. È un dato che si può considerare (almeno credo) come indiscutibile che la grande ricchezza del pensiero marxista, e più in generale delle ipotesi rivoluzionarie maturate nel corso del XIX secolo, siano state ingabbiate nel “secolo breve” che va dal primo conflitto mondiale alla fine dell’Unione Sovietica, entro l’ipotesi leninista, che dall’essere (nel bene o nel male) il prodotto di una storia locale è divenuta il riferimento unico e dominante di ogni tipo di alternativa politica e sociale, possibile o immaginabile. Non è nostro interesse, né specifico scopo di questo scritto, ripercorrere le vicende di questo fallimento storico. Ciò che solo ci preme è limitarci a cogliere alcuni tratti distintivi e salienti degli errori (e dei misfatti) del passato, utili a comprendere le attuali difficoltà per chi, stando fuori dal sistema, cercasse di immaginare alternative di contenuti, insieme a tempi, forme e modi, di un riscatto possibile per sfruttati e oppressi verso la costruzione di un nuovo e più giusto ordine sociale.
Se solo volessimo sintetizzare l’intero arco di questa storia di lotte, antagonismi sociali e ipotesi di cambiamento, in un modo o in un altro comunque legati alla forza egemone della teoria leninista e del modello sovietico, usando anche un’espressione ad effetto, potremmo dire come una sorta di titolo: “Dal partito-classe al partito-Stato”. Dall’ipotesi del partito come reparto separato della classe che porta la coscienza dall’esterno nella determinazione di una soggettività rivoluzionaria non spontanea e non autodeterminata, ed infine sostanzialmente eteronoma, alla trasposizione di questo modello al partito armato che facendosi soggetto della presa del potere tramite un atto di forza prodotto da una ristretta élite di militanti combattenti, si fa infine partito-Stato che riproduce un preciso ordine statico di tipo gerarchico. Il potere come modo per cancellare il potere ed estinguere lo Stato della originaria ipotesi marxiana che si fa invece potere sclerotizzato che riproduce e moltiplica se stesso. Di questo processo degenerativo è chiara testimonianza l’intera storia dell’Unione Sovietica. Dalla affermazione di Stalin, all’indomani della vittoria nella guerra civile contro le armate bianche, secondo cui: “se vogliamo estinguere lo Stato, dobbiamo prima rafforzarlo”, alla Costituzione del 36[1] che proclamava la fine della lotta di classe, ma senza ipotizzare alcuna forma di ridimensionamento dello Stato, alimentando al contrario, la retorica della patria socialista in modo perfettamente parallelo a quella di tipo identitario del popolo nazione tipica degli Stati dell’Occidente capitalista. Per giungere infine alle purghe staliniane, ai Gulag e alle deportazioni di massa. Alla fine il modello sovietico ne è stato determinato come fortemente caratterizzato in senso statalista, in una forma estrema che potremmo definire di “statolatria”, di vera e propria idolatria dei suoi poteri di regolazione e di guida, sotto l’occhio vigile del partito, e senza che la sua forza dominante fosse minimamente scalfita da pratiche di pluralismo democratico come invece avveniva, seppure in modo contraddittorio, parziale e sostanzialmente solamente formale, negli Stati a capitalismo avanzato dell’Occidente. In sostanza una dittatura statalista centrata sul partito e fondata su un totalitarismo al tempo stesso gerarchico e massificante.
Il modello socialista di stampo sovietico ha avuto importanti riflessi e ha finito col produrre sue svariate e possibili varianti all’interno dei movimenti di lotta e di antagonismo sociale prodottesi nella cittadella capitalista ed imperialista del mondo occidentale, in particolar modo nel periodo dei cosiddetti trenta gloriosi, caratterizzati da una grande conflittualità sociale e politica sia a livello locale che globale. Va detto, a questo proposito, che la triade rigorosamente e gerarchicamente verticale di originario stampo sovietico, costituita dal partito (inteso ora anche e in modo più generico come avanguardia rivoluzionaria cosciente), dalla classe operaia (come oggetto privilegiato della “esportazione” della coscienza antagonista, in quanto cuore pulsante dei luoghi della produzione della ricchezza materiale) ed infine dal popolo (come insieme degli sfruttati, degli oppressi e degli esclusi), questa complessa e verticale identificazione delle forze del cambiamento di evidente ascendenza leninista, ha finito col trovare un terreno favorevole alla propria affermazione, nel trentennio post bellico, all’interno del mondo occidentale grazie allo sviluppo di alcune peculiari condizioni strutturali del modello produttivo, generalmente definite come “fordismo”. In breve: Il ruolo centrale che assumeva l’operaio nell’organizzazione della fabbrica tayloristica faceva sì che egli divenisse il manifestarsi del “corpo vivente” della classe operaia, intesa come guida di ogni possibile e progressiva trasformazione sociale. I partiti comunisti dell’Occidentale capitalista ai tempi del mondo bipolare, e segnatamente il Partito Comunista Italiano che tra essi era quello più forte e significativo, potevano trovare proprio in riferimento alla centralità della classe operaia fordista, la legittimità di una politica di cambiamento sociale di tipo riformista. Emblematica è a questo proposito la cosiddetta “svolta di Salerno”[2], attraverso la quale Togliatti ipotizzava la possibilità di una lunga marcia del partito e della classe operaia (o se volete del partito-classe) entro le istituzioni dello Stato democratico, nato dalla resistenza, per una sua lenta trasformazione in senso socialista, attraverso l’attuazione delle cosiddette “riforme di struttura”. Si noti infine che una tale ipotesi di tipo riformista poteva anche avere (e di fatto ha storicamente avuto nel corso degli anni Sessanta e Settanta) una variante di tipo “rivoluzionario” fondata sull’idea che “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia” (anche attraverso la lotta armata), come recitava un noto slogan dei movimenti antagonisti di quei tempi andati. In ogni caso, tuttavia, nel darsi del modello, sia nella sua variante riformista che in quella rivoluzionaria, si riproponeva il ruolo centrale, ed in qualche modo esterno, del partito o comunque dell’avanguardia, nel determinare i processi di cambiamento, come anche il ruolo altrettanto centrale dello Stato, o in ogni caso di una qualche dimensione di centralizzazione del potere, come luogo privilegiato di cui impadronirsi per istituzionalizzare e rendere possibile i cambiamenti. Un ulteriore aspetto che caratterizzava in modo tipico questo particolare approccio era il fatto che il soggetto deputato al cambiamento veniva pensato come il prodotto di una alleanza tra diverse comunità e stratificazioni sociali, spesso indicata col nome di “ricomposizione di classe”, che si caratterizzava in modo “gerarchico”, stante la centralità che veniva assunta sia come dato strutturale che come dato politico dall’operaio della grande impresa, che in genere finiva col rispettare perfettamente il canone tradizionale del maschio bianco ed adulto come colui che occupava il centro della scena (su questo torneremo).
Questo modello è andato prima lentamente in crisi nel corso degli anni Ottanta per poi trovare la data, per così dire “canonica” e “ufficiale” della sua fine, con i noti fatti dell’89 e con la riunificazione tedesca. Ancor prima della caduta del muro di Berlino, nel cuore della cittadella dell’Occidente capitalista era crollato il muro della grande fabbrica fordista, soppiantata dal dominio della grande finanza e da un modello di estrazione e appropriazione del valore che non conosce confini e che agisce sussumendo l’intero tempo vita della complessa varietà dei soggetti sociali, senza accordare a nessuno di loro alcun tipo di centralità nel funzionamento del sistema. In quello stesso momento storico, il blocco sovietico, e con esso il tipo di ipotesi valoriale che rappresentava, è imploso andando letteralmente in briciole, in un modo che possiamo considerare clamoroso, se si pensa come uno dei più grandi imperi della modernità, la cui potenza era paragonabile forse solamente al vecchio impero britannico e al contemporaneo blocco Usa-occidentale, si è letteralmente dissolto, andando in pezzi senza che alcun nemico interno o esterno avesse sparato un solo colpo d’arma da fuoco.
Quel che è certo, riprendendo qui i fili del nostro ragionamento, è che comunque il vecchio modello rivoluzionario che abbiamo definito di ascendenza sovietica e leninista, e che, come già detto, si fondava sulla triade partito-classe-Stato non può non apparire oggi quanto meno come del tutto desueto. Si pone dunque, con ogni evidenza, l’assoluta impellenza di sapere immaginare un nuovo paradigma “rivoluzionario” di cambiamento sociale da definire ponendolo alla costante verifica della prova dei fatti. La costituzione di questa nuova ipotesi dovrà tenere conto di almeno tre questioni che possono essere considerate come l’esigenza di riempire quelle caselle lasciate vacanti dalla crisi del vecchio modello. In sintesi:
1 – Oltre l’idea del partito (unico e centralizzato).
Superare il rapporto predefinito tra avanguardie e masse in favore del valore della soggettività come coscienza diffusa, complessa e multiforme, che si dà non in modo da precostituire il fine, ma come movimento che si autodetermina e si auto valorizza attraverso il suo stesso farsi. (Seppure non si possa negare l’apporto diverso, di contenuto e di valore, che singolarità e gruppi, organizzazioni specifiche e specifiche stratificazioni sociali possono dare alla crescita collettiva, senza tuttavia che questo possa essere precostituito e neppure indicato attraverso un presunto rapporto gerarchico, quale è per l’appunto quello storico tra avanguardie e masse).
2 - Oltre la necessità di farsi Stato.
Le trasformazioni sociali in senso libertario ed ugualitario di cui le soggettività molteplici e i movimenti si rendono protagonisti non possono essere valutati attraverso la loro istituzionalizzazione e statalizzazione. La conquista della macchina statale, o la capacità di acquisire potere entro di essa, devono cessare di essere lo scopo prioritario e immediato dei movimenti, e soprattutto non possono essere stabiliti attraverso tappe strategiche prefissate da imporre dall’alto in nome di una presunta scientificità delle previsioni. Il rapporto tra potere e contropotere si pone in modo dinamico entro il farsi dei percorsi di trasformazione sociale. In sintesi l’obiettivo non può essere “la presa del potere” ma la costruzione di un “contropotere” che all’occorrenza nullifica, o erode, o controbilancia, o “modifica” il potere istituito dello Stato, e che secondo le circostanze può spaziare tra antagonismo e mediazione.
3 Oltre la centralità della classe intesa come proletariato industriale.
Le nuove condizioni strutturali del dominio globale del capitalismo finanziario hanno modificato il ruolo e le condizioni d’esistenza di quanti sono espulsi dal banchetto dei padroni del vapore. Al vecchio concetto di classe operaia, come espressione più tipica e significativa del soggetto antagonista, con ruolo centrale nella opposizione e nella lotta all’esistente e nella possibilità della costruzione di un mondo alternativo, bisogna sostituire il concetto plurale e pluralistico di moltitudini, come insieme trasversale di molteplici condizioni di sfruttamento, oppressione, discriminazione ed esclusione.
In sintesi il nuovo paradigma rivoluzionario deve rifiutare lo statalismo e ogni rapporto gerarchico precostituito. Questo significa innanzitutto che la molteplicità dei movimenti non può farsi partito (se non nel senso politico e sociale di “parte in gioco”) e non può neppure porsi come semplice “alleanza” più o meno gerarchica delle diversità, ma piuttosto come ricerca di nuove forme di incontro, “meticciato” e saldatura rivoluzionaria delle moltitudini dei dominati, in un percorso che deve mantenersi “fluido” e possibilista nelle forme e nei percorsi, ma non “liquido” e dunque ben saldo, nei valori e nei propositi.
È proprio nel cuore di queste problematiche poste dalla crisi dei vecchi modelli che si è sviluppato negli ultimi anni il dibattito intorno al tema della intersezionalità. Un termine utilizzato per la prima volta dall’attivista statunitense Kimberlé Crenshaw, ma poi divenuto usuale soprattutto nell’ambito del movimento femminista e transfemminista grazie anche ai lavori di note studiose e militanti come Angela Devis, Patricia Hills Collins, Judith Butler e tante altre[3]. Si tratta di una teoria interpretativa che suggerisce come l’identità del soggetto non può essere semplificata attraverso una sola categoria di ordine sociale, culturale, politico, o anche di tipo naturale o biologico. Lo stesso individuo può subire anche molteplici forme di dominio, di discriminazione e di sfruttamento in ragione del fatto di essere, per esempio, uomo o donna, bianco o nero, lavoratore autonomo o operaio, cristiano o musulmano, e tanto altro ancora. L’importanza della teoria della intersezionalità è quella di dare una interpretazione della identità come di qualcosa di molto complesso. Malgrado le grandi astrazioni categoriali, a volte anche senza alcun fondamento, come per esempio quella razziale tra bianchi e neri, e sulle quali si costruiscono le discriminazioni sociali, nella dimensione reale ogni singolo individuo è unico e irripetibile. Ed è egli stesso in continuo divenire, in quanto frutto di una identità costituitasi attraverso il comporsi dinamico di molteplici appartenenze, rispetto alle quali fanno gioco sia le condizioni oggettive, sia le scelte soggettive. Questo modo plurale e complesso di concepire l’identità della persona cambia anche la prospettiva del rapporto con l’altro. Tra il sé e l’altro non si pone l’abisso di una incolmabile e statica estraneità, ma il gioco dinamico e dialettico tra una parziale condivisione identitaria e una altrettanto parziale diversificazione. Una (mutevole) parte di me è sempre anche nell’altro e una parte dell’altro è sempre anche in me, senza che vi sia mai completa identificazione, come a togliere la irriducibilità della singola persona umana, ma neppure lontananza tale da rendere l’altro irriconoscibile o indifferente. Dal punto di vista dei possibili esiti politici, la teoria della intersezionalità è importante perché, proprio in ragione della molteplicità delle appartenenze, pone il problema dei rapporti tra i vari movimenti che si battono per i diritti delle minoranze, oltre il possibile incontro occasionale o puramente solidaristico tra realtà che hanno differenti obiettivi. Non si tratta prioritariamente di costruire alleanze politiche tra diversi ma di valorizzare il complesso intreccio delle appartenenze tra soggettività nomadi e plurali. Alla fine, entro la rete di opposizione sociale che in questo modo si viene a creare, dovrebbe apparire chiaro come le minoranze escluse e discriminate, non sono il prodotto di storie particolari e diverse in quanto figlie di cause eterogenee e tra loro non comunicanti, quanto piuttosto il prodotto di un disciplinamento e di una tendenza alla gerarchizzazione sociale che deve penalizzare i più deboli per massimizzare la capacità di comando di un ordine sociale unitario.
Per quanto detto possiamo concluderne che la teoria dell’intersezionalità ha in sé grandi potenzialità che la rendono utile a divenire una essenziale chiave di lettura delle contraddizioni e delle difficoltà insite nei contemporanei movimenti sociali di lotta e di cambiamento, ma capace anche di fornire una fondamentale indicazione sulle vie da percorrere per permettere il superamento delle attuali strettoie. Queste potenzialità, tuttavia e a nostro avviso, non sono state ancora del tutto sviluppate. Il dibattito teorico e politico, come si è visto, è nato ed è cresciuto soprattutto in Nordamerica tra studiose e militanti femministe, ed è stato centrato principalmente sulle problematiche legate alle discriminazioni di genere e al razzismo, ma molto meno sulle questioni che riguardano le condizioni materiali di sfruttamento e di esclusione dalla ripartizione della ricchezza che si verificano nell’era del dominio della finanza globale a danno degli esclusi e dei pauperizzati del primo mondo e dei popoli di quello che una volta si chiamava il terzo mondo. La conseguenza è stata che il centro delle discussioni e le maggiori attenzioni sono state focalizzate intorno alla questione delle identità (reali e/o percepite) e al tema generale delle libertà e dei diritti umani, ma molto meno sulla dignità del lavoro e sulle “lotte per il pane”, malgrado il modello si fondasse sulla triade dichiarata di genere, razza e classe. Chiariamo subito, a scanso di equivoci e onde evitare vecchie diatribe tra sostenitori della libertà e partigiani dell’uguaglianza sociale, che le lotte per i diritti umani e per l’affermazione del massimo di libertà di autodeterminazione della propria esistenza individuale e collettiva, sono e restano caratteri imprescindibili di qualunque ipotesi di liberazione e di costruzione di un mondo futuribile e migliore. La nostra attenzione fortemente positiva nei confronti della teoria dell’intersezionalità nasce proprio dalla convinzione che essa possa fare da collante tra diverse condizioni di fatto e molteplici aspettative, tutte ugualmente da valorizzare nel loro reciproco darsi e incontrarsi. A questo punto però, onde evitare che il nostro ragionamento appaia inutilmente pedante sarà necessario chiarire perché insistiamo tanto nel sottolineare la differenza, che per qualcuno può anche avere il sapore di antiche ortodossie, tra lotta per i diritti umani e lotte sulle condizioni materiali di esistenza.
È a tutti nota la distinzione che Marx faceva tra struttura e sovrastruttura[4]. Per il rivoluzionario di Treviri il concetto di struttura era fondamentalmente legato alle condizioni di produzione e allocazione della ricchezza materiale attraverso quella che viene comunemente considerata la base economica della società, e che il nostro analizzava attraverso ciò che definiva come “critica dell’economia politica”. L’idea che in questo scritto si propone con l’espressione “condizioni materiali” è, se possibile, ancora più ampia. Essa riguarda l’insieme delle strutture sociali, gerarchiche e di comando, che rendono possibile l’appropriazione privata dei beni comuni, soprattutto ed innanzitutto attraverso il modo di produzione, di appropriazione e di allocazione distributiva di quelli che intendiamo come beni comuni socialmente prodotti. Tra di essi resta centrale come caratteristica fondante del dominio e dello sfruttamento capitalista la creazione della ricchezza materiale e la sua distribuzione, ma di tali beni, per così dire “strutturali”, sono anche parte la creazione, la circolazione e l’uso sociale dei “saperi” e dei “poteri”, intendendo questi ultimi non come sinonimi di comando ma come prodotti della tipica capacità umana di controllo e di indirizzo su cose e processi (a prescindere dall’uso positivo o negativo che se ne possa fare).
Tornando a noi. Le discriminazioni di genere e la segregazione razziale sono da sempre parte del dominio della società borghese e capitalista di stampo occidentale. La prima è il prodotto del modo in cui è stata acquisita e messa a frutto una eredità del passato che vedeva l’esclusione sociale della donna, e la sua segregazione entro l’invisibilità della sfera privata, come forma originaria del dominio che ha messo in moto, sin dall’Olocene ben dodicimila anni fa, la macchina della storia umana. Il razzismo invece è figlio dei tempi moderni e della tratta dei Neri, ridotti in schiavitù e usati come forza lavoro a bassissimo costo[5]. Il capitalismo tuttavia si distingue da ogni altra forma di dominio e di organizzazione sociale del passato per la sua straordinaria capacità dinamica nel sapere modificare le condizioni materiali e strutturali dei propri assetti produttivi e di comando. Per tale ragione, in linea generale e nell’ambito della pura astrazione teorica, non è impossibile immaginare una società a comando di capitale nella quale possano venire meno le discriminazioni di genere e di carattere razziale. Si tratta certamente di una ipotesi più teorica che reale, la cui difficile (o quasi impossibile) realizzazione è comunque legata al prodursi di nuove forme di dominio e di rapina senza le quali la società capitalista perderebbe la sua stessa ragion d’essere, ed in sostanza, ciò che la caratterizza nel profondo della sua immutabile essenza. Ed è proprio in ragione di questa mutabilità dell’imposizione e della discriminazione fatta a danno di chi subisce, che vogliamo interpretare l’intersezionalità non solo come capacità di lettura di tutte le forze estranee e nemiche che attraversano i nostri corpi per impadronirsi di noi e delle nostre anime, ma anche come l’occhio vigile che sa guardare lontano facendo proprie tutte le umiliazioni e le depredazioni subite da ogni corpo possibile in ogni angolo nascosto della terra, come componente di quel corpo collettivo di cui ciascuno di noi è parte. (Questo è in fondo ciò che stiamo cercando di dire e su questo insisteremo ancora a conclusione di questo scritto). Torniamo ora ai pericoli che si pongono se venisse a mancare questa visione globale della realtà, che a nostro avviso, deve portare ogni singola realtà di lotta a sentirsi parte di un movimento che si pone globalmente oltre le gabbie delle attuali forme di dominio.
Se ogni battaglia che riguarda la libertà di genere o la lotta alle discriminazioni razziali, come possono essere la generalità delle lotte femministe e quelle legate ai movimenti LGBTQ+, o anche le lotte antirazziste del Black Lives Matter; se ognuna di queste lotte restasse imprigionata entro la visione del proprio obiettivo specifico o in un’ottica puramente emancipativa, col solo scopo del riconoscimento della propria identità negata; se insomma venisse meno quella spinta verso una trasformazione radicale dell’esistente che si può leggere nelle potenzialità del paradigma della intersezionalità, allora è possibile che i singoli movimenti, anche senza averne una esatta percezione, possano finire col cadere nella trappola delle false e ingannevoli libertà propugnate dalle ideologie neoliberiste, e in special modo dalla ipotesi libertariana che del neoliberismo costituisce la versione estrema[6].
Ricordiamo che l’ideologia libertariana è il nodo centrale del cosiddetto “anarcocapitalismo”. Una teoria futuribile che ipotizza la fine dello Stato in nome di un assoluto dominio di un mercato in cui “la mano invisibile” è ritenuta capace di regolare ogni cosa, grazie all’assoluta libertà accordata ad un soggetto egoista e competitivo. Volendo semplificare con una metafora, potremmo dire che in questa ipotesi estrema la società dovrebbe funzionare come una grande competizione sportiva senza limiti di tempo o di spazio. Una sorta di partita di calcio, o di gara podistica, o di maratona, al cui segnale d’avvio gli esseri umani, come uscendo dallo stato di natura o dalla preistoria, si impegnassero in una competizione in cui ciascuno cerca, esclusivamente per il proprio personale vantaggio, il miglior risultato possibile. Quello che qui, ai fini del nostro discorso, ci interessa particolarmente sottolineare, è che all’inizio dei giochi tutti i concorrenti, ovvero la generalità degli esseri umani, sono presupposti come fossero caratterizzati da una perfetta condizione di parità e di uguaglianza originaria. Sarà poi la naturale capacità agonistica di ciascuno, insieme all’impegno profuso, che determinerà il risultato finale e il piazzamento di ciascuno nell’agone della vita. In sostanza e fuor di metafora, in questo tipo di ideologia (vedremo poi quanto falsa e ingannevole), se tutti dobbiamo essere liberi di competere, allora si può anche supporre che il colore della pelle o le appartenenze di sesso o di genere non possano costituire pregiudiziali al libero determinarsi della competizione. Spetterà casomai a ciascun concorrente saperle fare valere in positivo. o neutralizzarle in negativo come possibili difficoltà. L’inganno insito in questo ipotetico modello sociale non è poi neppure tanto arcano o sottile. Restando entro la metafora della competizione sportiva, è ovvio che una lunga storia di discriminazioni ed esclusioni pesa su di noi a rendere impossibile qualunque uguaglianza nelle condizioni di partenza. Inoltre la partita della vita non si chiude col raggiungimento di un traguardo specifico, ma con la fine della vita stessa che in qualche modo tutto lascia in sospeso. Quest’ultima circostanza tuttavia è ambigua. Se per un verso la mancanza di una fine prestabilita della competizione non ci permette di archiviare l’eventuale sconfitta per ricominciare da zero una nuova partita (a meno che il nuovo cominciamento non sia l’esito di un ribaltamento rivoluzionario, frutto di una azione collettiva, ma ovviamente questa possibilità esula del tutto dal modello libertariano). D’altra parte però il fatto che i giochi non si chiudano mai può alimentare la falsa speranza che ci sia sempre la possibilità di ribaltarne gli esiti. Ci si può sempre illudere di potersi impegnare di più e di cercare di sgomitare meglio! Infine e andando a concludere: la facilità con cui è possibile comprendere e disinnescare, almeno sul piano della riflessione teorica, le assurdità e i limiti di una tale estremizzazione del pensiero neoliberista, non è, tuttavia, in sé sufficiente a dare un contenuto radicale e una prospettiva universale alle lotte per il riconoscimento delle identità e dei diritti, qualora queste rimanessero limitate a rivendicazioni specifiche e particolaristiche, per la semplice ragione che resta il fatto che la duttilità del sistema, come abbiamo visto, gli permette di mostrarsi in grado, almeno in via ipotetica, di subire e metabolizzare un mutamento, purché questo resti parziale e nulla cambi nella sostanza delle cose.
Una prima possibile alternativa verso una visione globale delle istanze di cambiamento ci viene offerta dalle riflessioni di Judith Butler. Attivista femminista e filosofa nordamericana, convinta sostenitrice della teoria dell’intersezionalità, in un testo apparentemente dedicato ad altro, dal titolo “La forza della nonviolenza”[7], la nostra autrice pone l’esigenza di pensare e sapere affermare l’uguaglianza (non egoistica) tra tutti gli esseri viventi attraverso il riconoscimento di ciò che lei definisce “la dignità di lutto”. Se ogni vita nel momento stesso della sua fine ha la dignità di essere ricordata attraverso il pianto e il dolore per la sua perdita, ciò significa che essa è un valore in sé, per cui vale sempre la pena che sia vissuta al massimo delle sue potenzialità. Questo riconoscimento dell’altro, proprio in quanto legato alla morte che è sempre un evento individuale, non può limitarsi alla genericità di un astratto riferimento. L’altro si dà sempre attraverso l’unicità irripetibile di una identità che si palesa innanzitutto in un volto e in un nome. E se anche la sua conoscenza diretta è per ciascuno di noi limitata, per ovvie ragioni, all’altro di prossimità, la consapevolezza di questo valore assoluto della vita e della sua peculiarità di riuscire ad esprimersi attraverso la molteplicità irripetibile delle identità individuali e collettive, diviene infine il fondamento per una visione non limitata e non egoistica del proprio personale bisogno di riconoscimento, o per il bisogno di riconoscimento delle proprie appartenenze.
Anche se la Butler non ne fa esplicita menzione, noi possiamo anche pensare, io credo a buon ragione, che una tale visione della dignità della vita e della morte può essere espressa oggi anche attraverso la battaglia ecologista, che pone per l’appunto la salvaguardia presente e futura della vita nella sua generalità, ma anche in tutte le sue specifiche realtà, come un bene supremo capace, a nostro avviso, di riattraversare e di rindirizzare verso uno scopo comune l’insieme dei movimenti per le identità e per i diritti, senza che nessuno di essi perda la forza prorompente dei propri specifici scopi. Aggiungiamo inoltre che l’obiettivo ecologista di salvaguardare la vita è potenzialmente un forte collante non solo in senso intragenerazionale ma anche con valore intergenerazionale. Per spiegarci meglio partiamo dal fatto che, in realtà, l’espressione comunemente usata che pone l’esigenza di “salvare il pianeta” è, nel suo essere metaforica, fortemente imprecisa. La Terra si salva da sola senza avere bisogno di noi. Con ogni probabilità la possibile fine del genere umano non significherebbe l’estinguersi di ogni forma di vita, e comunque il nostro pianata conosce già il momento della sua fine fissato tra quattro miliardi e mezzo di anni quando sarà inghiottito dall’esplosione del sole. Noi dobbiamo innanzitutto salvare noi stessi e le forme di vita che ci sono compagne in questo mondo, e dobbiamo farlo per le generazioni future più che per noi stessi. Quando Jonas si chiedeva perché mai dovremmo astenerci dal consumare tutto senza pensare ai nostri figli e nipoti e alla salvaguardia della specie, si rispondeva in modo assiomatico e senza altre spiegazioni: “perché la vita è meglio della morte”[8]. Il rapporto intergenerazionale dunque che funziona come valorizzazione estrema del paradigma della intersezionalità.
Va precisato però, a questo punto, che queste nostre riflessioni si danno come pure possibilità che spesso non riescono a superare la prova dei fatti, come si potrebbe facilmente dimostrare a partire dalla constatazione che malgrado tutte le possibilità antagoniste insite nei movimenti di lotta, la rappresentazione politica dell’ambientalismo non è univoca, comprendendo spesso anche forze perfettamente integrate nel sistema, e incapaci di vedere lo stretto rapporto esistente tra distruzione della vita e attuali assetti economici e sociali. La stessa cosa naturalmente può essere detta per le battaglie legate ai diritti civili. Concludendo, dobbiamo dunque tornare a ribadire come le battaglie per i diritti e per la rivendicazione delle identità, per potersi porre oltre le trappole delle ideologie che si muovono in difesa dell’esistente, e per potere dare veramente senso e valore ai propri obiettivi, non hanno altra alternativa se non attrezzarsi con una visione a lungo raggio che sappia fare proprie le ragioni e le aspettative degli sfruttati e degli ultimi della Terra, in battaglie centrate sull’obiettivo dell’uguaglianza sociale planetaria.
Perché una simile ipotesi possa darsi ci toccherà ora guardare proprio dentro le contraddizioni e le molte difficoltà che sono parte dei movimenti che si battono per l’eguaglianza sociale con lo scopo di dare una nuova dignità e migliori condizioni materiali di vita agli sfruttati e agli ultimi di casa nostra, ma anche a coloro che negli angoli sperduti di questo nostro mondo, sono totalmente esclusi dai circuiti della distribuzione della ricchezza. Tenteremo di dimostrare come anche questi movimenti votati all’uguaglianza materiale e “strutturale” nella gestione e nella distribuzione della ricchezza e degli altri beni socialmente prodotti, hanno a loro volta bisogno di incontrarsi e di comprendere a fondo le ragioni dei movimenti dei diritti, per potere dare forza e vero senso compiuto alle proprie aspirazioni.
I movimenti di lotta per il salario, contro la povertà e per migliori condizioni di vita hanno avuto, a partire dal secondo dopoguerra e fino agli anni Ottanta del secolo passato, una forte e significativa presenza nei paesi a capitalismo avanzato del mondo occidentale, caratterizzando le dinamiche sociali e occupando di fatto il centro del dibattito e della vita politica. L’ipotesi che si imponeva come egemone era quella che potremmo definire come “riformista”, fondata sulla fiducia che il primato della politica fosse in grado di piegare il sistema economico e sociale, in modo progressivo e senza bisogno di rotture rivoluzionarie, entro la logica di una crescente affermazione di una giustizia sociale di tipo egualitario. Si trattava in realtà di un modello di governo delle dinamiche sociali che finiva per accomunare trasversalmente ipotesi politiche tra loro molto diverse, che spaziavano dal welfare state di matrice keynesiana tipico del mondo anglosassone, alle socialdemocrazie nordeuropee, fino al cristianesimo sociale e alla conversione in senso riformista dei Partiti Comunisti occidentali, originariamente legati al modello sovietico. Alla condizione tipica del progressismo politico dei paesi a capitalismo avanzato si legava l’idea del riscatto dei paesi del terzo mondo che ondeggiava tra l’ipotesi ottimistica della decolonizzazione pacifica e della crescita economica e quella del riscatto da ottenere attraverso lotte di liberazione, che potevano anche caratterizzarsi come resistenza armata. Infine, la grande “speranza di futuro” che caratterizzava quei tempi produceva anche, in special modo nel mondo occidentale, movimenti di contestazione radicale che premevano verso una accelerazione rivoluzionaria dei cambiamenti ritenendo il sistema non riformabile. Come si è già accennato, quel periodo storico è stato cancellato da tre fattori concomitanti: La fine della centralità della fabbrica fordista e l’affermarsi della grande finanza globale; La caduta del modello sovietico come ipotesi alternativa al sistema capitalistico; L’affermarsi della ideologia e delle pratiche legate al neoliberismo. In queste nuove condizioni le lotte votate al miglioramento delle condizioni materiali d’esistenza che per lungo tempo erano state al centro dei movimenti e della scena politica sono passate dall’avere un grande passato alle condizioni attuali di un misero presente. Le questioni legate al lavoro, al reddito, alla lotta alla povertà, e più in generale ad una più equa distribuzione della ricchezza, non sono più riuscite ad avere la giusta visibilità, probabilmente in ragione della mancanza di una univoca capacità di comprensione analitica e di una conseguente proposta politica capace di farsi egemone. In particolare, nei paesi a capitalismo avanzato le lotte sindacali hanno perso il loro riferimento nella figura dell’operaio industriale e nella centralità dei grandi centri produttivi senza capacità di trovare credibili alternative. Le lotte per il salario e per il lavoro hanno perso l’antica dirompenza politica spesso a vantaggio delle lotte identitarie e per i diritti. Anche la questione della povertà, per altro sempre più diffusa, ha assunto caratteri sostanzialmente non politici risolvendosi in misure puramente assistenziali da parte dei governi o facendo affidamento sulla generosità diffusa della gente, senza assumere mai il senso di una vera mobilitazione di massa capace di rivendicare diritti e dignità. Anche a livello globale, oltre i confini della cittadella dell’imperialismo occidentale, ciò che principalmente suscita l’attenzione delle forze anticapitalistiche votate alla solidarietà internazionale, è principalmente (come per altro è anche giusto che sia) la guerra, imperiale e imperialista, con tutto il suo portato di morte e di devastazione che principalmente colpisce gli ultimi della terra. La lotta contro gli orrori della guerra è sacrosanta e la pace resta un valore etico universale e imprescindibile. Tuttavia sarebbe ugualmente necessario trovare il modo di porre alla attenzione del mondo e allo sdegno generale, in egual misura, la condizione dei bambini di Gaza uccisi dalla guerra insieme a quella dei bambini africani uccisi dalla miniera mentre raccolgono con le mani nude quelle terre rare così essenziali per le tecnologie in uso nei paesi ricchi del pianeta[9].
Trovare oggi il modo di uscire da queste difficoltà cercando di dare alle lotte per una equa distribuzione della ricchezza uno spessore globale non è facile. Mentre il resto del mondo è preda dello sviluppo di nuove forme di capitalismo, degli integralismi religiosi e delle più brutali forme di sfruttamento e di rapina, l’Occidente comincia a sperimentare gli effetti del diffondersi della AI. Quella Intelligenza Artificiale che con ogni probabilità rappresenta il dato più caratteristico su cui si tenderà a costruire il mondo del futuro, e che già oggi ha reso obsolete un gran numero di attività lavorative e di competenze professionali. Siamo di fronte ad un argomento difficile e complesso sul quale non vogliamo entrare in modo specifico, ma che tuttavia rappresenta una fondamentale sfida rispetto al problema che ci siamo posti su come può essere possibile rilanciare oggi una battaglia sul reddito e sul lavoro con l’obiettivo di rimettere in discussione i modi attuali di distribuzione della ricchezza. Una ipotesi oggi molto discussa, e che personalmente ritengo di fondamentale valenza politica e di grande prospettiva strategica, è quella del reddito di base, universale e incondizionato[10]. Un diritto di partecipazione assolutamente egualitario alla ricchezza socialmente prodotta che non fa alcuna differenza di età, di sesso, di condizione sociale o di altro, e che dovrebbe essere percepito da ogni individuo dalla nascita alla morte. In sostanza (come mi piace dire), “per il solo fatto di respirare”. Non si tratta di una forma assistenziale o di pura generosità, ma della presa d’atto che la produzione della ricchezza è oggi sempre meno legata al lavoro, soprattutto se inteso nel senso classico del lavoro manuale fatto di pena e di fatica. È piuttosto la cooperazione sociale e l’intelligenza collettiva di cui ciascuno di noi è parte, che produce tutte le forme di ricchezza, non solo quella tangibile e materiale, ma anche quelle che prendono forma nell’insieme dei saperi e dei poteri[11]. Così è ed è anche presumibile che così sarà sempre di più in futuro. Naturalmente ciò non significa che possiamo considerare superate tutte le vecchie forme del lavoro, compreso il lavoro manuale. Tuttavia se accettiamo l’idea di una sua progressiva residualità, che si darà in tempi che non sono del tutto prevedibili, allora possiamo ipotizzare una tendenziale uguale distribuzione di quanto si può definire come “lavoro necessario” attuando nell’immediato una generalizzata riduzione dell’orario di lavoro. Un modo di dare valore alla “dignità del lavoro”, proprio nell’era che annuncia la sua fine. Il soggetto sociale di un ipotetico mondo futuribile liberato dal lavoro avrà “diritto all’ozio”, ma non sarà ozioso. Dovrà necessariamente essere definito da nuove forme di responsabilità, partecipazione e attivismo sociale caratterizzate dalla qualità dell’impegno e dall’attenzione attiva e partecipata alla vita della comunità, anche in modi che possono fare vagamente pensare a quello che si chiama oggi lavoro intellettuale. Questo passaggio è fondamentale perché è ovvio che non possiamo delegare il nostro futuro alle macchine e rimanere passivi di fronte ad esse. Se alle macchine spetterà l’onere del lavoro, anche complesso e difficile negli aspetti tecnici ed operativi, le scelte strategiche rimangono di nostra competenza e responsabilità. Questo tema meriterebbe un suo specifico approfondimento e un lungo discorso che non faremo in questa sede. Un’ultima questione che vorremmo invece toccare è quel senso di distante utopia che il nostro ragionamento può avere indotto in chi legge. Vale già per la specifica condizione dei paesi a capitalismo avanzato, e naturalmente vale a maggior ragione per quelle parti del mondo in cui l’estrema miseria, l’oppressione e condizioni di lavoro quasi schiavistico la fanno da padroni. Certo le ipotesi che abbiamo formulato intorno alla necessità di un reddito di base universale e incondizionato, e ad una equa ridistribuzione del lavoro necessario, sono prospettive che si danno nei tempi lunghi, né è possibile prevedere tutte le difficoltà che si porranno nel farsi del cammino. Tuttavia non abbiamo nessun dubbio sul fatto che, per quanto lontana possa essere la meta, questa è la sola via corretta da percorrere; quella che, per capirci, può dare senso anche a scelte tattiche, congiunturali e di fase pure nelle situazioni più difficili, quali possono essere quelle di alcune aree geografiche del mondo, afflitte da maggiore arretratezza e da insopportabili forme di dominio, e nelle quali bisognerà cominciare col battersi per affermare forme elementari di dignità di vita e di lavoro. Ma la prospettiva generale non muta in quanto è fondata su valori che hanno significato universale, e che impediscono di cercare fallimentari scorciatoie piegandosi al realismo di ciò che appare possibile e più consono nello stretto immediato. In conclusione: diritto ad una uguale spartizione della ricchezza e dignità del lavoro sono i fondamentali che possono rilanciare le battaglie per l’uguaglianza nelle condizioni materiali dell’esistenza, ponendosi come fattori di ricomposizione di difficili complessità e molteplici differenze.
Torniamo ora al cuore del nostro discorso che riguardava la possibilità che la teoria dell’intersezionalità potesse divenire il fulcro di un nuovo paradigma rivoluzionario, eversivo nei confronti dell’ordine esistente. L’insieme delle istanze e delle aspirazioni al cambiamento che si “meticciano” attraversando i corpi in movimento di un soggetto che progressivamente si autodefinisce grazie ad un volto fatto di mille espressioni dialoganti. Abbiamo visto poi come questa ipotesi è fondamentale per dare un respiro strategico alle battaglie per il riconoscimento delle identità e dei diritti, che laddove non riuscissero a trovare un terreno comune con le lotte per l’uguaglianza sociale, rischierebbero di essere preda degli abbagli e delle ingannevoli fantasie neoliberiste e libertariane. Infine abbiamo ipotizzato che anche le lotte centrate sulle condizioni materiali di vita se vogliamo che esprimano appieno tutte le loro potenzialità superando possibili limiti e vecchie incongruenze, devono necessariamente guardare ai nuovi movimenti e “imparare” dai loro contenuti più innovativi. È questo ultimo passaggio che dobbiamo ora cercare di dimostrare per chiudere il cerchio.
Come abbiamo già accennato le lotte sociali e di classe del secolo passato erano tutte centrate sul ruolo guida del soggetto operaio della grande impresa industriale. Una condizione che accumunava il riformismo progressista delle democrazie occidentali con gli schemi del modello sovietico, coinvolgendo anche le ipotesi più radicalmente eversive, o quantomeno quelle tra di esse che si muovevano nel rispetto dell’ortodossia. Alla base di un tale riconoscimento unanime stava un dato strutturale di antico corso. Il ruolo centrale del lavoratore salariato entro l’impresa produttiva capitalista si afferma fin dalle origini dell’industrialismo moderno, e forse anche prima, già nell’epoca della manifattura. L’operaio professionale della rivoluzione industriale che si riproduce nei tempi successivi fino a lasciare il passo all’operaio della fabbrica fordista, il quale, a differenza del passato, assume ora un ruolo, nella vita pubblica e nell’immaginario collettivo, che diviene fondamentale anche come soggetto di riferimento dell’agire politico e delle ipotesi generali di gestione sociale. La classe operaia che “va in paradiso”, come diceva un noto film italiano dell’inizio degli anni Settanta[12], diventa un riferimento culturale posto al centro della scena dei processi della modernità. Si dà il caso però, e qui veniamo al punto che particolarmente ci interessa, che il soggetto di questo modello venga incarnato nella sua più tipica rappresentazione, come un individuo di sesso maschile, con la pelle bianca e che assume fuori dai cancelli della fabbrica il ruolo sociale e le responsabilità, e dunque i doveri, ma soprattutto i diritti, che spettano a chi svolge la funzione del capofamiglia. Non si tratta evidentemente di una colpa che si possa soggettivamente attribuire a qualcuno, ma di un esito deviante, forse neppure coscientemente pensato, di quella che è in origine una condizione di indifferenza strutturale, per cui di fronte al ritmo ripetitivo e alienante della catena di montaggio non conta nulla l’identità di chi ne viene sottomesso. Non importa che il lavoratore sia uomo o donna, o che sia bianco o che sia nero. Ma poiché nei fatti, per precise ragioni storiche e sociali legate all’ultra millenario dominio patriarcale e al più recente etnocentrismo, egli è in effetti prevalentemente maschio e bianco. Fuori dalla fabbrica la sua immagine viene dunque riproposta in un modo che corrisponde perfettamente ai più stantii stereotipi del maschilismo imperante e del razzismo.
Nell’ambito delle forze antagoniste, questa evidente incapacità di sapere cogliere nessi e circostanze che oggi possono apparire fin troppo evidenti, molto probabilmente era legata, oltre che all’oggettiva condizione dei tempi, all’ortodossia marxista-leninista del secolo scorso, per cui l’autonomia del soggetto veniva spesso valutata quasi esclusivamente rispetto alla capacità di “monetizzare” o di rendere comprensibile e fruibile dal punto di vista economico ogni aspetto del suo riscatto sociale. Si trattava, verosimilmente, degli effetti di una lettura dogmatica e distorta della distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura, che pure anche noi abbiamo prima richiamato, cercando di darle un senso totalmente diverso. Inoltre: l’idea canonica della centralità della classe operaia e del suo ruolo egemone su tutte le altre entità dei sottoprivilegiati che costituivano il popolo, creava le premesse per una visione delle molteplici stratificazioni sociali degli esclusi che corrispondeva ad una serie di identità indifferenziate e senza valore che finivano con l’assumere, o col subire, i caratteri costitutivi del soggetto operaio egemone. La conclusione era quella di un rapporto tra classe e popolo fondato su una massificazione di tipo economicista, che portava con sé, in modo quasi impalpabile, la generalizzazione dei caratteri patriarcali dell’operaio fordista come elementi dominanti dell’intero contesto sociale, anche di quello ipotizzabile nella dimensione di un mondo futuribile ed auspicabile (e questa è la vera questione dolente che ci preme sottolineare).
Credo che non sia necessario aggiungere altro per capire quanto importante sia, alla luce delle esperienze e dei limiti del passato, che le nuove lotte sociali per l’uguaglianza delle condizioni materiali di vita sappiano incontrarsi, ed in un certo senso “fondersi”, con quelle che riguardano le lotte per i diritti e per le identità, scoprendo contro ogni riduzionismo e contro ogni economicismo del passato, che la rivoluzione è costruzione di un intero nuovo Mondo (qui volutamente con la maiuscola), oppure semplicemente non è. La completezza costitutiva del soggetto complesso e multiforme della società che verrà deve necessariamente potere accedere, al tempo stesso ed in ugual misura, al “pane e alle rose”; deve potere avere una uguale possibilità di decidere sull’uso della ricchezza prodotta e su ogni bene comune, ma deve essere anche libero di potersi autodeterminare, come singolarità e come comunità, nelle scelte che forgiano la sua personalità come unica e irripetibile. Perché tutto questo sia possibile sarà necessario che in questo mondo globalizzato, contro il “filo nero” della finanza mondiale che tutto fagocita, si costruisca un “filo rosso” che sappia legare entro una stessa prospettiva l’omosessuale di New York e il bambino o la donna africana costretti al lavoro schiavizzato. Nel mondo che vogliamo, come si suole dire spesso, “non potrà mai esservi libertà senza uguaglianza sociale”, ma al tempo stesso è altrettanto vero che “non potrà mai esservi uguaglianza sociale se non vi è libertà”.
NOTE
[1] La Costituzione sovietica promulgata nel 1936, anche detta Costituzione di Stalin, sostituiva le Costituzioni del 1918 e quella integrativa del 1924, e sarebbe rimasta in vigore fino al 1977. Malgrado istituisse il suffragio universale e una serie di diritti (libertà di parola, di stampa, di riunione e libertà di culto), essa fu praticamente contemporanea all’avvio delle purghe staliniane.
[2] Col termine “svolta di Salerno” si indica il compromesso istituzionale, promosso da Togliatti su indicazione dell’Unione Sovietica, che permise la costituzione di un governo provvisorio delle forze antifasciste rinviando la scelta tra Monarchia e Repubblica ad un referendum da attuarsi alla fine del conflitto. Essa rappresenta di fatto, e in modo emblematico, l’avvio da parte del P.C.I. di una scelta riformista, che sin da subito si annunciava irreversibile.
[3] Il concetto di intersezionalità è stato proposto da Kimberlé W. Crenshaw in due saggi del 1989 e del 1991, e che sono oggi riunificati e reperibili in edizione francese: Crenshaw K.W., Intersectionnalité, Payot, Parigi 2023. In lingua italiana segnaliamo: Hills Collins P., Intersezionalità. Come teoria critica della società, UTET, Milano 2022. – Akotierene C., Intersezionalità, Capovolte, Alessandria 2022. -Davis A., Donne, razza e classe, Edizioni Alegre, Roma 2018.
[4] I concetti di struttura e sovrastruttura sono stati posti da Marx nella prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859, e rappresentano il definitivo distacco dall’idealismo hegeliano attraverso una esemplificazione della sua concezione materialistica della storia.
[5] È interessante notare come accanto agli schiavi neri nelle piantagioni nordamericane fossero impiegati anche lavoratori bianchi di provenienza europea, praticamente schiavizzati per ripagare i costi della traversata atlantica che veniva loro anticipata.
[6] Una buona esposizione dei contenuti dell’ideologia libertariana e dell’anarcocapitalismo si trova in Lemieux P. L’anarco-capitalismo, Liberilibri, Macerata 2018.
[7] Butler J., La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, nottetempo, Milano 2020.
[8] Jonas H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009.
[9] Le terre rare sono 17 elementi chimici della tavola periodica che hanno assunto negli anni recenti una enorme importanza strategica perché indispensabili per il funzionamento delle tecnologie più avanzate (superconduttori, magneti, catalizzatori, veicoli ibridi ecc.). A parte le terribili condizioni di sfruttamento presenti nelle miniere africane, oggi il centro della loro produzione si trova in Cina che da sola copre il 95% della fornitura mondiale.
[10] Il dibattito intorno al reddito di base può contare ormai su una vastissima letteratura livello internazionale. Ci limitiamo a segnalare in lingua italiana l’ottimo: Fumagalli A., Gobetti S., Morini C., Serino R., Reddito di base. Liberare ul XXI secolo, Momo Edizioni, Roma 2021.
[11] Il valore produttivo della cooperazione sociale e della conoscenza generale diffusa è stato per la prima volta ipotizzato da Marx nei Grundrisse nel famoso “frammento sulle macchine”, attraverso il concetto di General intellect.