sabato 14 dicembre 2024

L'INESORABILE DECLINO DELL'EUROPA NEL RAPPORTO DRAGHI

-Luca Lombardi-

sul futuro della competività europea

un intervento sul rapporto redatto da Mario Draghi, un tentativo, da parte delle istituzioni europee, di analizzare le ragioni di una prolungata stazione economica e crisi politica che l'attraversa. L'autore entra nei dettagli dello scritto dell'economista, sottolineando gli aspetti critici. Resta, infatti, al di là delle proposte di politica economica, un'evidente debolezza del piano: l'assetto istituzionale europeo è fatto di Stati eterogenei che competono tra di loro per accaparrarsi quante più risorse possibili dall'Europa per favorire le proprie aziende. Questo aspetto amplifica le divisioni interne tra gli Stati e fa dell'Unione Europea un vaso di coccio tra due vasi di ferro (Stati Uniti e Cina)
Mi aiuterò infine con la verità, il peggiore dei ripieghi 
– Goethe

 

La prolungata stagnazione economica europea ha suggerito alle istituzioni dell’Unione Europea di commissionare a Draghi, già Presidente della BCE, un rapporto che analizzasse la situazione e proponesse delle iniziative per uscirne. Il rapporto, pubblicato nel settembre del 2024, conferma lo stato quasi disperato dell’economia europea e le esigue leve per uscire da questa situazione. Lo stesso Draghi, presentando il rapporto, ha chiuso la conferenza stampa con un’affermazione che più che una speranza suonava come rassegnazione e ha detto: «Per chiudere vorrei dirvi una cosa: se non si fanno queste riforme, se non si interviene seguendo questa direzione, l’Europa è finita. Lo ripeto: è finita. Ve lo dico perché questo è il mio incubo più frequente»[1].

 

Siamo dunque agli incubi, che il rapporto, lungi dal dissipare, infittisce. Prima ancora di analizzare gli aspetti economici, occorre però sottolineare il punto chiave che concerne l’assetto politico e geopolitico dell’Unione e che costituisce l’ambiguità fondamentale di questo documento. Il rapporto, infatti, parla di Stati Uniti, Cina ed Europa come se fossero entità più o meno comparabili non solo come dimensioni economiche ma sul piano politico e istituzionale. La situazione è completamente diversa e da questo aspetto centrale discende anche l’impossibilità di trovare soluzioni economiche ai problemi dell’Europa. Cina e Stati Uniti sono stati sovrani e indipendenti, pur con ovvie enormi differenze. L’Europa è fatta da stati fortemente eterogenei, spesso in diretta competizione politica ed economica tra loro, con interessi politici differenti se non opposti, e nessuno di questi stati ha un peso rilevante sullo scenario internazionale. Anche prima che la parola passasse alle armi con la guerra in Ucraina, queste divergenze avevano impedito all’Europa di giocare il benché minimo ruolo sullo scenario internazionale. Ad esempio, la distruzione del regime di Gheddafi è stato un attacco frontale dell’imperialismo anglofrancese alle mire espansionistiche italiane. Il fatto che le potenze europee abbiano visioni e spesso alleanze differenti in Medio Oriente spiega perché il calo dell’influenza statunitense in Medio Oriente non abbia favorito le nazioni europee che continuano a non contare nulla in un’area decisiva per la propria stabilità. Oggi, che il mondo è entrato sul terreno del diretto scontro militare, la debolezza europea è diventata impotenza. L’Europa di oggi, infatti, sul piano militare è costituita da eserciti deboli, senza esperienza sul campo e totalmente succubi della potenza americana attraverso la NATO. L’UE è composta di satelliti degli Stati Uniti ed è dunque inutile discutere di politiche atte a migliorare la competitività delle aziende europee perché implicitamente ridurrebbe quello delle aziende americane. Sarebbe come se nell’Europa medievale un vassallo avesse provato a impadronirsi delle terre del suo sovrano. È interessante osservare che il rapporto si dimentica di questo dettaglio ma nel discutere dei problemi geopolitici considera UE e NATO come la stessa cosa, anche se è noto che vi sono paesi europei che non fanno parte della NATO e paesi NATO che non fanno parte dell’UE. In questo modo in effetti il rapporto assume correttamente che l’UE sia subordinata alla NATO e dunque a Washington. Basta questo per rendere futile ogni discussione che parte ragionando come se Stati Uniti, Cina ed Europa fossero tre contendenti alla pari. Sebbene gli Stati Uniti siano un concorrente sul piano economico, l’Europa non potrà mai opporsi alle scelte americane sinché i suoi eserciti sono integrati nella NATO. Per essere chiari, se un governo europeo ordinasse alle proprie forze armate di compiere un’azione che si oppone frontalmente agli obiettivi della NATO, cadrebbe il governo, non cambierebbero le strategie della NATO. Del resto ci sono oltre 80.000 soldati americani in Europa, una forza paragonabile a un esercito europeo tra i più grandi, ma infinitamente più armato ed esperto.

 

Il rapporto è costretto ad ammettere implicitamente questa situazione quando descrive scelte economiche disastrose per l’Europa che sarebbero inspiegabili se non come conseguenza della piena subordinazione dell’Europa agli obiettivi politici americani. Questo vale in primo luogo per le fonti energetiche. L’alto costo dell’energia ha reso molti settori economici europei non più profittevoli e deriva direttamente dalla chiusura delle relazioni commerciali con la Federazione Russa (il rapporto scrive chiaramente in relazione alle importazioni energetiche dalla Russia: «questa fonte di energia relativamente economica è ormai scomparsa a un costo enorme per l'Europa. L'UE ha perso più di un anno di crescita del PIL, mentre ha dovuto riorientare ingenti risorse fiscali verso sussidi energetici e costruire nuove infrastrutture per l'importazione di gas naturale liquefatto»). Ne è seguita la distruzione dell’economia tedesca resa eclatante dalla decisione inaudita della Volkswagen di chiudere stabilimenti in Europa, compresa la Germania.

 

La composizione della Commissione Europea appena formata riflette in pieno la subordinazione europea alla NATO. Infatti, in questa situazione di crescenti scontri internazionali, due posizioni chiave come la politica estera e la difesa sono state affidate a esponenti di paesi baltici che hanno un peso economico irrilevante ma sono fedeli esecutori delle politiche americane e che, anzi, sono persino più estremi nelle proposte di intervento militare contro la Russia. Poiché si dimentica di menzionare la situazione dell’Europa nel panorama mondiale, e la servile sottomissione delle istituzioni europee alla NATO, il rapporto Draghi si potrebbe relegare nel campo dei racconti fantasy e dimenticarsene, ma sarà comunque utile approfondire alcune analisi che vi sono contenute che sono spesso accurate e interessanti, contrastando con la pochezza delle proposte che ne scaturiscono, in virtù della contraddizione politica chiave che abbiamo espresso.

 

La difesa del modello europeo

 Come ogni rapporto dell’establishment UE, anche quello Draghi parte dalla difesa del presunto modello europeo che viene descritto come un continente con alti livelli di benessere e servizi sociali e una bassa disuguaglianza dei redditi («circa 10 punti percentuali in meno rispetto a quelli registrati negli Stati Uniti e in Cina»). In realtà, si tratta di ricordi edulcorati di un passato lontano. Da anni lo stato sociale dei paesi europei è privato di risorse, subisce tagli e privatizzazioni. La situazione catastrofica della NHS britannica, l’istituzione che creò il concetto stesso di sanità pubblica universale e gratuita, testimonia lo stato dei servizi pubblici europei. Anche gli ultimi residui di civiltà non sono comunque più sostenibili adesso. Tutto il rapporto, infatti, è un invito ad abbandonare il modello europeo perché non è più idoneo a difendere la competitività delle aziende del continente.

 

Sul piano internazionale, il modello europeo, incentrato sulla macchina tedesca, si basava sulla difesa del libero commercio, ormai sulla strada del tramonto come si evince dalla totale marginalità del WTO, che vent’anni fa appariva l’istituzione internazionale che meglio incarnava l’epoca iper-globalizzata del dopo guerra fredda. Siamo ora invece nell’epoca dei dazi, delle guerre commerciali, del boicottaggio dello sviluppo tecnologico altrui. I paesi europei non hanno una linea comune sui dazi perché sono forti in settori differenti ed è dunque facile dividerli e metterli uno contro l’altro. Faceva parte dell’apertura economica europea anche un buon rapporto con ogni area economica, a partire dalla Russia da cui si importavano materie prime energetiche a prezzi contenuti. Avendo dovuto rompere i rapporti con la Russia, l’esito è ovvio e nel rapporto leggiamo: «le aziende dell'UE continuano a dover pagare prezzi dell'elettricità che sono 2-3 volte superiori a quelli degli Stati Uniti e prezzi del gas naturale 4-5 volte più alti».

In secondo luogo, il quadro della politica economica europea vieta il debito pubblico ed è in generale contro la spesa pubblica. Ricordiamo che, a oltre trent’anni dal Trattato di Maastricht, tuttora vige la regola che il rapporto debito pubblico/PIL debba rimanere sotto la soglia del 60% anche se molti paesi non lo rispettano e addirittura la media europea sia oggi attorno all’80%. Nei prossimi anni dunque, gli stati membri dell’UE dovrebbero fortemente ridurre la spesa pubblica (a meno di non aumentare le tasse) per rientrare nei parametri del Trattato. Questo ci conduce a un terzo aspetto: la spesa militare. Dopo la fine della guerra fredda, i paesi europei hanno fortemente ridotto il budget militare con conseguenze significative sulle dimensioni dell’apparato bellico. Solo per fare un esempio, dal 1992 al 2021, la Germania ha ridotto i propri carri armati da circa 6.700 a 340, la Francia da 2.000 a 220, la Gran Bretagna da 1.300 a 230 (Wolff et al., 2024). Poiché gli Stati Uniti tramite la NATO si stanno preparando alla guerra contro il blocco orientale, le spese militari devono come minimo raddoppiare. La spesa pubblica per la difesa era il 2,4% nel 1989 e la metà di quella proporzione un ventennio dopo. Occorre tornare al dato della guerra fredda. Dovendo ridurre la spesa pubblica totale, ma aumentare quella militare, non c’è che una strada: distruggere i brandelli di stato sociale che resistono a 30 anni di tagli.

Lo sfilacciamento del modello europeo si vede, infine, per ciò che riguarda le leggi prima considerate il fiore all’occhiello dell’Unione. Il regolamento GDPR, la Tassonomia UE sulla sostenibilità e in generale tutte le norme considerate più avanzate e quindi protettive verso i consumatori rispetto alle esigenze del profitto sono accusate nel rapporto di rallentare le aziende europee. Mentre prima l’Europa si illudeva di fare da apripista per il mondo che avrebbe prima o poi seguito l’Europa su questi temi, le istituzioni europee ora sono costrette a inseguire Stati Uniti e Cina nel dumping regolamentare più spietato. Questa resa è significativa perché le norme comuni sono l’unico vero risultato di decenni di integrazione europea. Mercati unificati e norme comuni non bastano più, solo che la logica via di uscita (un’Europa federale) è assolutamente esclusa perché chi conta non la vuole a partire dagli Stati Uniti. Senza un’Europa politica, non è nemmeno possibile che sorgano aziende europee, i cui legami rimangono nazionali per quanto possano operare a livello mondiale. L’illusione mercantilista e liberista che l’unificazione politica europea potesse derivare dal mercato comune si è dimostrata fallimentare per oltre mezzo secolo ed è oggi ripetuta come futile favola della buona notte. Non rimane che l’agonia di un modello che somiglia ormai alla carcassa di una balena su una spiaggia.

 

Aspetti comuni e politiche trasversali per la crescita

 La parte A del rapporto affronta cinque aspetti comuni a tutti i settori economici per rilanciare l’economia europea. Il primo è come recuperare il gap di produttività con gli Stati Uniti. La stagnazione della produttività europea è legata ai minori investimenti in alcuni settori dell’economia digitale che, spiega onestamente il rapporto, sono probabilmente già «persi». Gli scarsi investimenti sono legati a un ambiente complessivamente peggiore in termini di università di eccellenza, centri di ricerca, aziende che finanziano l’innovazione (venture capital, ecc.). C’è poi un problema di scarsi investimenti pubblici, per giunta replicati in più paesi e dunque in buona parte sprecati. Più in generale aziende cinesi e americane possono giovarsi di più elevate economie di scala. Il secondo punto è la decarbonizzazione dell’industria europea, una transizione costosa e che deve pagare lo stato gravando così su casse pubbliche già allo stremo. A ciò si aggiunge la perdita di energia a basso costo e il fatto che le tecnologie clean sono sostanzialmente un monopolio cinese, quindi decarbonizzare significa aumentare l’import dalla Cina in un momento in cui l’Europa è costretta a ridurre i rapporti commerciali con il blocco orientale.

 

Parlando di energia il rapporto arriva al tema della sicurezza dell’accesso alle materie prime chiave e invita a ridurre la dipendenza dalla Russia e in generale dai paesi del blocco avversario, il che determina necessariamente un aumento della dipendenza dagli Stati Uniti, nella logica dello scontro tra blocchi che va crescendo. Il problema è che ridurre la dipendenza trovando fornitori alternativi non è facile. Alcuni minerali o prodotti non sono disponibili ovunque e se la configurazione dei mercati mondiali si è sviluppata in un certo modo, non è possibile cambiarla in poco tempo. Inoltre tutti stanno cercando di assicurarsi l’accesso ai materiali del domani, in particolare la Cina che ne ha ormai largamente il controllo: «oltre alla sua posizione dominante nella lavorazione e nella raffinazione, la Cina sta investendo attivamente in attività minerarie in Africa e America Latina e nella raffinazione all'estero attraverso la sua iniziativa Belt and Road Initiative». Questa situazione non è più rimediabile a meno di non mandare le truppe e cacciare le aziende cinesi. La disperazione è tale che il rapporto propone di ricominciare a estrarre anche in Europa: «l’UE deve inoltre sfruttare il potenziale delle risorse interne attraverso l’estrazione mineraria, il riciclaggio e l’innovazione nei materiali alternativi». Margaret Thatcher, che impostò la sua azione politica sulla chiusura delle miniere, si starà rivoltando nella tomba. Degli ultimi due aspetti tratteremo di seguito discutendo delle politiche trasversali e di come finanziare i piani europei.

 

Accanto a questi aspetti generali, il rapporto descrive alcune politiche trasversali che riguardano tutti i settori economici. La prima concerne misure per accelerare l’innovazione e aumentare la produttività. Il rapporto descrive il clamoroso successo della Cina che in pochi decenni ha recuperato secoli di ritardo: «la performance della Cina è più che triplicata negli ultimi due decenni e si sta rapidamente avvicinando al livello dell'Unione Europea. Fino a 15 anni fa, la competizione per la leadership mondiale nell'innovazione era principalmente tra Stati Uniti ed Europa. Oggi, coinvolge tre attori, con la Cina che mostra un aumento molto più rapido rispetto sia agli Stati Uniti che all'UE». Lo stesso vale anche per le pubblicazioni scientifiche e per le università, dove ormai diversi atenei cinesi sono ai vertici mondiali. Il rapporto osserva che questo è il risultato di una strategia ben ponderata e persistente basata su massicci investimenti pubblici che in Europa non ci sono. Il secondo aspetto è ottenere forza lavoro qualificata a spese dello stato. La dinamica demografica europea, unita alla cagnara anti-immigrazione di destra e pseudo-sinistra condannano l’Europa a una forza lavoro sempre più ristretta e anziana. Il rapporto ammette che la precarietà ei bassi salari rendono più difficile attrarre lavoratori ma si guarda bene dal proporre un cambiamento.

La terza politica concerne il rilancio della concorrenza, un aspetto molto contraddittorio nel rapporto. Infatti la visione europea è sempre stata quella ingenua dei libri di testo di economia in cui la libera concorrenza determina le migliori condizioni per la collettività ma lo stesso rapporto si domanda se abbia ancora senso oggi questa visione per competere con Cina e Stati Uniti e arriva a una autocritica: «in alcuni casi la Commissione è stata attaccata per non aver consentito fusioni che avrebbero creato aziende di dimensioni sufficienti per investire e competere con le aziende superstar cinesi e americane». La contraddizione è palese: la concorrenza uccide la competitività. Il mercato è dominato da giganti che uccidono la concorrenza. Non si ha il coraggio di buttare a mare cinquant’anni di propaganda liberista e quindi si rimane nel vago.

 

L’ultima politica di cui trattiamo è la riforma della governance europea. Ora è quasi un luogo comune sostenere che la governance europea è complicata, farraginosa, disfunzionale. Il punto è che questa governance non è frutto di un destino perverso, ma discende dal fatto che ogni stato cerca di ricavare dall’Unione ciò che occorre (alle sue imprese) contribuendovi il meno possibile. Le aziende europee non hanno interessi comuni, né tra settori né tra nazioni, e le istituzioni europee sono paralizzate da questa semplice realtà. Per fare un esempio storico, gli Stati Uniti di metà Ottocento erano due paesi diversi per situazione economica, politica, culturale, che convivevano nelle istituzioni federali. Mano a mano che fu chiaro che questi due mondi erano in rotta di collisione, il sud decise di secedere dall’Unione e fu la guerra civile. Il mondo schiavista e liberoscambista del sud fu subordinato al nord non con leggi e rapporti ma con fucili e cannoni. In assenza di questa soluzione cruenta, l’UE brancola nel buio e ogni tentativo di rendere la governance europea più rapida e snella, allontana questo o quel paese. Del resto la Brexit (termine non a caso non citato mai in 400 pagine di rapporto) è stata causata dal tentativo franco-tedesco di rimodellare la governance dell’UE per renderla più snella. L’Europa è dominata dalla Germania e dai suoi satelliti ma non in modo tale da poter fare dell’Unione una semplice estensione degli interessi di Berlino. Non è possibile integrare ulteriormente l’Unione senza abolire gli stati nazionali. Per questo le proposte sulla governance europea sono tra le più vacue del rapporto, che si limita a generici richiami a ridurre il carico regolamentare sulle imprese e semplificare. Nulla si dice sul quadro della politica fiscale (il patto di stabilità e crescita è citato solo una volta senza particolari commenti), nemmeno si dice nulla sulla politica monetaria della BCE. Siamo insomma nel regno delle lamentele non delle proposte politiche.

 

Dopo aver descritto queste politiche generali, occorre approfondire il tema cruciale delle risorse: chi paga? Il rapporto quantifica in circa 800 miliardi di euro la necessità di risorse aggiuntive che ogni anno, almeno sino al 2030, andranno investiti nei settori chiave per garantire un futuro all’economia europea. Si tratta grosso modo del 5% del PIL dell’area, una cifra imponente e che non è specificato, nemmeno a grandi linee, da dove arriverebbe. Se fossero fondi pubblici aggiuntivi, le due alternative sarebbero nuova tassazione o nuovo debito pubblico. Nel primo caso si tratterebbe o di ridurre l’attuale spesa pubblica già martoriata da anni di austerity, o di inasprire la tassazione sui redditi medio-bassi dato che le aliquote sui redditi elevati sono in calo da decenni sia in Europa che altrove e se mai si assiste a dumping fiscale tra paesi europei. Nuovo debito pubblico andrebbe contro il quadro fiscale dell’Unione Europea che, invece, ne prevede una forte riduzione. Abbiamo infatti osservato che il rapporto debito/PIL dell’UE supera i parametri di Maastricht e le regole europee impongono dunque un graduale rientro, il contrario di nuovo debito. A ciò si aggiunge il tema di un eventuale debito comune europeo a cui però la Germania è totalmente contraria. Tutto questo senza considerare le promesse fatte dai paesi europei alla NATO di un forte aumento delle spese militari (attorno, almeno a un +1% del PIL) che si andrebbero a sommare agli attuali deficit pubblici.

 

Non potendo contare su risorse pubbliche, i piani esposti nel rapporto dovrebbero essere finanziati con risorse private anche se, come sempre, garantire con soldi pubblici (il rapporto scrive infatti che «il settore privato avrà bisogno di supporto pubblico per finanziare il piano»). Senza nessuna discussione sull’effettivo spazio fiscale lasciato dalle regole fiscali europee, il rapporto si limita a dire: «lo stimolo necessario agli investimenti privati ​​avrà un certo impatto sulle finanze pubbliche, ma i guadagni di produttività possono ridurre i costi fiscali». Alla fine dunque, i progetti europei dovranno passare per i mercati finanziari che dovranno essere lautamente ricompensati per questo aiuto. Dopo trent’anni di strapotere della finanza, che ha già avuto conseguenze pesanti in termini di aumento delle disuguaglianze e instabilità economica (ad es. Arcand et al., 2012), il rapporto insiste per quella strada.

 

Su quali settori puntare?

 

Nella seconda e più corposa parte, il rapporto si dilunga sui dieci settori chiave per la rinascita dell’economia europea. Ne parleremo qui sinteticamente.

 

L’analisi del settore energetico è funzionale a quella di tutti gli altri, dato che alti costi dell’energia rendono meno competitiva tutta l’industria europea. Il rapporto sottolinea sia la dipendenza europea da fornitori esterni, siano essi la Russia, i paesi del Golfo o gli Stati Uniti, e il fatto che la forte volatilità dei prezzi dei paesi energetici è dovuta al fatto che i mercati energetici sono stati consegnati alla speculazione finanziari: “gli aspetti finanziari (ad esempio la concentrazione nei mercati di trading) e comportamentali dei mercati derivati ​​del gas (ad esempio il trading algoritmico) possono, soprattutto in combinazione con condizioni di mercato più restrittive come nell'UE, esacerbare la volatilità e amplificare l'impatto degli shock della domanda e dell'offerta o degli shock percepiti”. Di fronte a questa situazione il rapporto propone di tornare al nucleare e decarbonizzare gradualmente l’economia.

 

Altrettanto strategico è il tema delle materie prime per l’economia del futuro: «le materie prime critiche sono essenziali per accelerare la trasformazione richiesta all'economia dell'UE. La rapida crescita della domanda sta mettendo a rischio l'equilibrio globale tra domanda e offerta, con ulteriori sfide poste dalla limitata diversificazione delle forniture e da un elevato livello di dipendenza nelle catene di fornitura dell'UE». La domanda per questi materiali sta crescendo per l'aumento della produzione di veicoli elettrici e crescerà ancora ma non è chiaro dove approvvigionarsi. Ne deriva un problema di sopravvivenza: «sta emergendo una nuova dipendenza da materie prime critiche concentrate in una esigua schiera di fornitori con il potenziale di rallentare il progresso delle transizioni verdi e digitali dell'Unione o di renderle più costose». Ad esempio la Cina produce il 70% della grafite, il Congo il 74% del cobalto, e la concentrazione andrà peggiorando per via degli ostacoli all’export e del fatto che molti paesi chiave sono avversari o comunque non alleati. Si riconosce onestamente che «la Cina domina le catene di produzione globali di minerali critici. Il paese è la principale fonte di numerosi minerali critici e rappresenta quasi il 70% della produzione mondiale di terre rare. Inoltre, detiene un quasi monopolio sulla lavorazione e la raffinazione di minerali critici». La proposta del rapporto è aprire miniere dai Balcani alla Scandinavia e riciclare di più.

 

Il terzo settore analizzato è quello delle tecnologie digitali. Qui il ritardo è dovuto soprattutto alle piccole dimensioni delle aziende europee: «oggi, l'UE ha decine di operatori di telecomunicazioni che servono circa 450 milioni di consumatori, rispetto a una manciata di operatori rispettivamente negli Stati Uniti e in Cina. Le aziende dell'Unione non hanno la scala richiesta per fornire ai cittadini un accesso universale alla fibra e alla banda larga 5G e per dotare le aziende di piattaforme avanzate per l'innovazione». Ancora più disastrosa è la situazione nel campo dell’intelligenza artificiale dove le aziende europee sono inesistenti così come nel campo decisivo dei semiconduttori. Non trattiamo delle industrie energivore, incluso l’automotive e le tecnologie clean in cui il rapporto continua a lamentare il rapido declino dei produttori europei senza nessuna seria politica per impedirlo, né trattiamo di spazio, farmaceutica e trasporti per i quali emergono ragionamenti simili, e passiamo al settore chiave della difesa.

 

L’importanza di questo settore è sin troppo ovvia nella nuova fase e la situazione di partenza è drammatica. Sul piano della domanda, la spesa pubblica europea è giudicata insufficiente essendo circa un terzo di quella americana e inferiore a quella in forte crescita della Cina. Nel cruciale settore della R&S militare, l’Europa investe meno di 10 miliardi, gli Stati Uniti 140. Oltre allo scarso finanziamento, pesa molto la frammentazione che in questo caso ha anche un senso politico dato che gli stati europei non vogliono che le loro aziende si fondano con altre aziende europee perché implicherebbe perdere le aziende nazionali e dunque l’indipendenza militare anche sul piano produttivo. Inoltre c’è una forte concorrenza tra le aziende europee per la conquista dei mercati internazionali. Per le aziende francesi che producono armamenti, le aziende italiane sono concorrenti come quelle americane. La frammentazione è un problema molto serio ed è emerso in Ucraina, dove l’eterogeneità delle forniture militari europee è clamorosa. Nella sola artiglieria da 155 mm, gli stati membri dell'UE hanno fornito circa dieci diversi tipi di obici, alcuni consegnati in varianti differenti, creando serie difficoltà logistiche per le forze armate ucraine. In Europa vengono prodotti cinque diversi tipi di obici, gli Stati Uniti ne producono solo uno, in Europa ci sono dodici tipi di carri armati da battaglia, negli Stati Uniti ce n'è solo uno. Aumentare fortemente la spesa militare significa dunque accrescere le importazioni militari dall’America. Non sorprende che questa politica sia gradita a Washington.

 

Conclusioni: che cosa rimane del modello europeo?

 al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico/ la voce che li comanda è la voce del loro nemico/ E chi parla del nemico è lui stesso il nemico – B. Brecht

 

Abbiamo visto che il rapporto Draghi sostiene di voler aggiornare il modello europeo, senza analizzarne però la reale situazione. Il rapporto si richiama a una maggiore equità nella distribuzione della ricchezza ma la disuguaglianza in Europa è fortemente cresciuta nei decenni, infatti i dati mostrano che in Europa negli ultimi 30 anni la crescita ha avvantaggiato soprattutto i ricchi (Neef e Sodano, 2022, Carranza et al. 2021) un trend comune tra Europa e Stati Uniti (Blanchet et al., 2021). Il rapporto si sofferma sulla necessità di consolidare le imprese europee nei settori chiave come via per il rilancio dell’economia dell’Unione, ma non ne analizza le conseguenze in termini di distribuzione del prodotto. Ora, vi sono numerosi studi che mostrano come il potere di mercato permetta alle grandi imprese di aumentare fortemente i profitti, accrescendo la disuguaglianza della ricchezza. Lo strapotere delle grandi aziende fornisce loro anche un enorme peso politico di cui queste aziende abusano in ogni modo tanto da diventare un pericolo per la parvenza di democrazia ancora presente in occidente (Kurz, 2024).

Un secondo aspetto che ci pare rilevante è quello della politica commerciale che prevarrà in questa fase fatta di instabilità geopolitica e di dazi. Se prima l’occidente, con in testa gli Stati Uniti, sostenevano il libero commercio di merci e capitali, una pietra angolare del «Washington consensus», le cose sono ora ben diverse e si tratta di usare ogni leva per rafforzare il proprio blocco e indebolire l’altro. Abbiamo visto che il rapporto a tratti analizza la situazione come sei i blocchi commerciali fossero tre, ma questo non è vero sotto due punti di vista. Da una parte, come detto, l’Europa non ha nessuna indipendenza politica, inclusa la politica commerciale, che deve sottostare alle necessità americane. Dall’altro, l’idea di trattare l’Europa come un tutto non tiene conto delle profonde differenze che ci sono tra paesi europei anche in termini di mix di import ed export. Non solo il gas russo a basso prezzo non c’è più, ma l’Europa sta gradualmente perdendo anche l’accesso al mercato cinese. Deve inoltre destinare ingenti risorse alla NATO che è di fatto in guerra con la Russia tramite l’Ucraina, una tipica guerra per procura, come ha recentemente osservato Sachs (2024). Ciò si è visto non solo negli innumerevoli round di sanzioni contro la Russia ma anche in azioni militari come la distruzione del gasdotto Nord Stream nel settembre 2022, attribuita allora dall’occidente alla Russia (ISPI, 2022) e ora attribuito a specialisti ucraini, probabilmente con aiuti occidentali (Walker, 2024). Se con la Russia la guerra è dichiarata e si sviluppa sul piano direttamente militare, con la partecipazione diretta nel conflitto da parte degli eserciti europei e del Pentagono, con la Cina lo scontro si mantiene per ora sul piano economico. I crescenti scontri commerciali riflettono l’impossibilità occidentale di rispondere con ordinari mezzi economici all’enorme capacità produttiva creata dalla Cina negli ultimi decenni e che le permette di offrire merci a prezzi più bassi di quelli occidentali. L’economia mondiale va dunque riarticolandosi attorno ai due blocchi geopolitici sia per dirette ragioni politiche (la necessità di impedire che l’altro blocco boicotti l’accesso a materie prime essenziali, alle tecnologie militari e civili, ecc.) sia per la difesa dei propri mercati dalle merci altrui. Questo può condurre anche a un’escalation militare, soprattutto se il blocco orientale riuscirà a rafforzarsi attraverso i BRICS, mettendo anche in dubbio l’egemonia del dollaro nel sistema monetario mondiale.

 

In questa situazione si pone il rapporto Draghi, che dimostra che l’establishment europeo si è almeno reso conto che la nuova fase ha scaraventato l’Europa in un angolo della scena mondiale. Priva di un centro decisionale militare e in politica estera, schiacciata da Cina e Stati Uniti sul piano commerciale, mutilata dalla Brexit, incapace di avere un benché minimo ruolo nelle crisi ai suoi confini, l’Unione Europea è passata dal sogno di un mondo simile all’Europa, all’incubo con cui Draghi ha presentato il suo rapporto che descrive un mondo in cui gli stati europei possono solo decidere di quale potenza essere sudditi come succedeva con gli staterelli italiani prima del Risorgimento.

 

Come partner NATO l’Europa non ha futuro e continuerà il suo inesorabile declino verso l’irrilevanza. In assenza di alternative politiche a questa situazione, il rapporto si concentra sull’unica leva che rimane: la propaganda, e auspica «un coinvolgimento dei cittadini più efficace e proattivo e un dialogo sociale, che unisca sindacati, datori di lavoro e attori della società civile, [attori] centrali nel costruire il consenso necessario per guidare i cambiamenti». In questi decenni i sindacati sono stati emarginati, i servizi sociali depotenziati se non distrutti e il volere democratico è stato completamente bypassato per rispondere agli obiettivi politici del blocco di cui l’Europa è vassallo fedele. Questo è il modello europeo che vivono i cittadini dell’Unione. Basti pensare alla sorte toccata ai greci, mandati al macello per salvare le banche europee che avevano comprato il debito pubblico del paese e così tanto da ridurre persino la speranza di vita della popolazione a causa dell’austerity[2]. A questo aggiungiamo la recente decisione di Volkswagen di chiudere stabilimenti in Germania, prova eclatante del collasso del modello economico tedesco. Queste sono le coordinate del modello europeo oggi.

 


Note

[1] Questa affermazione è stata riportata da numerosi organi di informazione ma non si trova nel documento ufficiale della Commissione Europea (Address by Mr. Draghi – Presentation of the report on the Future of European competitiveness – European Parliament – Strasbourg – 17 September 2024), in linea con l’abitudine di Draghi di aggiungere alcune annotazioni estemporanee ai discorsi ufficiali.



Bibliografia


fonte: machina-deriveapprodi