\Sono le donne che di fronte a spazi urbani sempre più esanimi e atomizzati stanno rinvigorendo la socialità delle città. Sono per lo più le donne a creare, nel Nord come nel Sud del mondo, un nuova economia urbana di sussistenza attraverso cucine popolari, orti e giardini comunitari, mercatini e assemblee di quartiere, arte di strada, tutte forme embrionali di autogoverno. Sono le donne che in risposta alla precarizzazione del lavoro e alla crisi dei salari si sono appropriate delle strade e le hanno fatte diventare commons.
Tuttavia, secondo Silvia Federici, non si tratta soltanto di rendere più visibile cosa oggi le donne fanno per resistere e creare un mondo nuovo ma prima di tutto come lo fanno, a cominciare dai modi con cui trasformano l’arte di strada: «È opportuno pensare alla lotta che le donne e i movimenti popolari stanno facendo nei quartieri poveri in tutto il mondo come a una escuelita – scrive Silvia Federici – , dove gli artisti, gli attivisti, gli educatori possono imparare non solo a “de-professionalizzasi” ma a coltivare un diverso tipo di creatività rispetto a quella solitamente associata all’espressione artistica. Questa è la creatività che si genera quando modifichiamo i nostri rapporti con gli altri, scoprendo nel potere della cooperazione il coraggio di resistere alle forze che opprimono la nostra vita…»
Immagini di donne con le braccia estese a racchiudere case e piazze, o a stringere i propri corpi in
reciproci abbracci, o a intrecciare fili intorno a se stesse e alle città,
possono evocare una società matriarcale idealizzata. Ma questo mondo femminile
e comunitario, alla cui rappresentazione il pittore messicano Rodolfo Morales
ha dedicato la sua opera, è meno utopica di quanto si possa immaginare[1].
Se è vero che la città è il nostro più coerente e riuscito tentativo di
rimodellare lo spazio nella nostra immaginazione[2], allora il volto della
città è oggi quello di una donna, perché sono le donne che di fronte a uno spazio urbano sempre
più esanime e atomizzato stanno rinvigorendo la socialità urbana e la sua
creatività.
Già nel 1999, riflettendo su come le città siano storicamente dipese dall’entroterra
per la loro sopravvivenza, Maria Mies osservava che in tutto il Terzo mondo è
cresciuta un’economia urbana di sussistenza praticata nei centri urbani e organizzata principalmente dalle donne.
Essa garantisce non solo le necessità materiali della vita ma anche la coesione
sociale[3]. Mies scriveva che se aggiungiamo alla produzione alimentare diretta
tutte le altre varie forme di lavoro di sussistenza – la preparazione del cibo,
gli scambi di alimenti, i servizi, l’aiutare gli altri, l’andare a prendere e
portare l’acqua – è evidente che la sopravvivenza della maggioranza della
persone in queste città dipende dal lavoro di sussistenza delle donne[4].
L’economia di sussistenza urbana descritta da Mies ha continuato a
espandersi in questi anni, alimentata in gran parte dalle continue espulsioni
dalla terra delle comunità rurali. Di fronte a una crisi economica permanente,
nelle periferie delle mega-città sparse in tutta l’Africa, l’Asia e l’America
Latina, in aree occupate con l’azione collettiva, le donne stanno creando una nuova
economia politica, basata su forme cooperative di riproduzione sociale e, nel corso di
questo processo, affermano il loro “diritto alla città”[5] creando nuove basi
per resistere e per avanzare le proprie rivendicazioni. Grazie ai loro comedores populares, aimerenderos, ai giardini
urbani e alle assemblee di quartiere (barriales), le periferie urbane
che hanno portato Mike Davis a parlare di un “pianeta degli slum” si possono
ri-immaginare come un pianeta di iniziative e strutture comunitarie, in cui emerge un “contro-potere” che
consente ai residenti non solo di sopravvivere ma di sviluppare forme embrionali di autogoverno.
In base a queste esperienze, credo che al “punto zero della
ri-produzione”[6], dove svanisce l’illusione che lo Stato e il capitale possano sostenere le nostre
vite, la lotta per la
sopravvivenza diventi una forza trasformatrice. Riecheggiando un argomento
sostenuto dall’attivista e teorico uruguaiano Raúl Zibechi, esistono oggi migliaia di quartieri, ai
margini del sistema statale, dove le donne assicurano la continuità della vita
quotidiana. In essi si istituiscono nuove relazioni sociali, che procurano servizi essenziali e cambiano
il modo in cui la riproduzione è organizzata – e sono le donne le protagoniste
di questo processo[7].
Il più noto esempio di questa “rivoluzione silenziosa”[8] è la diffusione dell’agricoltura urbana, un fenomeno globale emerso negli anni Settanta per iniziativa delle donne
in Africa. Espulse dalle aree rurali e costrette a urbanizzarsi, esse hanno
cominciato a coltivare terreni pubblici inutilizzati, trasformando il paesaggio
delle città, e rendendo sempre più sfocata la divisione tra rurale e urbano.
Con la diffusione dei giardini urbani è nata anche una microeconomia perché con
le pannocchie di granturco e le zucchine coltivate le donne hanno creato nuove
forme di micro-commercio, rivendendo i prodotti coltivati e
preparando snack a basso costo per i lavoratori. Allo stesso tempo hanno così occupato le strade, affrontando la polizia che
costantemente cercava di cacciarle e criminalizzare la loro attività di
venditrici ambulanti.
Altrettanto importante è che le donne, per contrastare gli effetti dei
programmi di austerità imposti alle loro comunità dalla liberalizzazione
economica, a partire dalla metà
degli anni Settanta, abbiano messo in comune molte
attività riproduttive come fare la spesa, cucinare e seminare.
Un esempio particolare è il caso del Cile dopo il colpo di Stato militare
del 1973, quando negli
insediamenti proletari urbani paralizzati dalla paura e contemporaneamente
sottoposti a un brutale programma di austerità, le donne si sono fatte avanti,
e unendo le loro risorse e il loro lavoro hanno iniziato a fare la spesa
insieme e poi a cucinare insieme, in gruppi di venti o più nei quartieri.
Queste iniziative, nate per pura necessità, hanno tuttavia prodotto molto di
più che il mero aumento delle risorse economiche. L’atto stesso di riunirsi e
rifiutare l’isolamento a cui il regime di Pinochet costringeva la popolazione,
ha cambiato la vita delle donne, dando loro maggiore fiducia in se stesse, e ha
rotto la paralisi indotta dalla strategia governativa del terrore. Ha anche
riattivato la circolazione di informazioni e conoscenze necessarie per
sopravvivere e resistere, e ha trasformato il concetto stesso di cosa sia una
buona madre e una buona moglie che, sempre di più, ha voluto dire uscire da
casa e lottare[9]. Di conseguenza, il lavoro riproduttivo ha smesso di essere
un’attività puramente domestica. Con le grandi pentole per cucinare è sceso in strada anche il lavoro
domestico, che è entrato nello spazio pubblico acquistando una dimensione politica
anche agli occhi delle autorità, che dopo qualche tempo hanno cominciato a
vedere nell’organizzazione delle cucine popolari un’attività sovversiva e una
minaccia per il potere.
Simili lotte ci sono state anche in Perù, Venezuela, Argentina, Bolivia.
Per quanto riguarda l’Argentina, Natalia Quiroga Díaz e Verónica Gago hanno scritto che durante la crisi
economica del 2002, quando crollò
l’economia ufficiale e si chiusero molte aziende e le banche, lasciando le
persone senza la possibilità di recuperare i propri soldi, è emersa un’altra
economia, organizzata principalmente dalle donne, che ha reso visibile quello
che di solito è nascosto e considerato privo di valore economico. Nella misura in cui le donne hanno
occupato le strade, portando pentole e tegami nei “picchetti” e nelle assemblee
di quartiere, è emersa una nuova economia politica di sussistenza che non separava il momento della
protesta dalla riproduzione della vita quotidiana e i cui ritmi e necessità
hanno riformato lo spazio e il tempo della città[10].
Anche in Bolivia, di fronte all’impoverimento delle loro comunità, le donne
hanno portato il lavoro riproduttivo fuori dalle case. Di conseguenza, come
afferma Maria Galindo dell’organizzazione
Mujeres Creando[11], l’isolamento tipico del lavoro domestico è stato spezzato
e si è formata una cultura di resistenza. Galindo parla della lotta delle donne
per la sopravvivenza come di una rottura con la sfera della casa e della
famiglia. E sottolinea come l’immagine della donna chiusa in casa appartenga ormai al passato, perché
in risposta alla precarizzazione del lavoro e alla crisi dei salari maschi le
donne si sono appropriate delle strade e le hanno trasformate in mezzi di
sussistenza, in veri e propri commons dove trascorrono la maggior parte del
tempo, e dove i figli possono fare i compiti mentre aiutano le madri con il
loro lavoro[12].
Il lavoro domestico a pagamento ha contribuito alla ridefinizione dello
spazio urbano. Visto in un primo momento come luogo pericoloso, dove le lavoratrici
domestiche, in gran parte emigranti, potevano essere fermate dalla polizia,
esser trovate senza documenti e subire abusi, lo spazio pubblico è diventato un
luogo di autonomia e di incontri, un luogo dove rompere l’isolamento del lavoro
e guadagnare visibilità per le proprie rivendicazioni, e raggiungere un
pubblico più ampio. Le lavoratrici filippine hanno aperto la strada, cercando spazi sociali –
parchi, chiese, centri commerciali – in cui riunirsi nei giorni di riposo o di
domenica. In alcune città (per esempio Hong Kong) sono scese in piazza con
spettacoli pubblici settimanali, con canti e balli focalizzati sui problemi
inerenti alla loro vita e alle loro esperienze lavorative. Avere una presenza sul territorio,
occupare il territorio – la strada, il marciapiede, il parco – è una pratica
che è stata dettata non solo dalla necessità di rompere l’isolamento, ma dalla
realizzazione che per combattere le restrizioni poste dalle politiche sull’immigrazione
è essenziale diventare visibili e far conoscere la propria storia. Secondo
Priscilla Gonzalez, per molti anni coordinatrice di Domestic Workers
United – una delle principali organizzazioni di lavoratrici
domestiche negli Stati Uniti – questo si è rivelato una forma di lotta molto
efficace[13]. Facendo conoscere le loro storie, le lavoratrici domestiche immigrate non
solo hanno condiviso le loro esperienze, ma hanno anche sviluppato una maggiore
consapevolezza della propria condizione come donne e una comprensione più ampia
delle conseguenze della globalizzazione per le loro comunità.
L’arte è stata un elemento chiave nella lotta. L’arte abbellisce gli spazi
urbani in cui le persone vivono e lavorano dando valore e dignità alla nostra
vita. Mostra i successi della comunità, mantiene viva la memoria di coloro che
sono morti o imprigionati. I murales, il teatro di strada, la produzione di
manifesti, spillette, volantini, magliette illustrate, adesivi con immagini e
slogan sono diventati una componente indispensabile non solo del discorso
politico ma di una vita in cui ogni momento è una lotta. Di conseguenza, la
stessa arte si è trasformata. Sulla spinta dei movimenti popolari, l’arte si è
sempre più sviluppata nelle strade e, come in genere i movimenti sociali, si è
femminilizzata.
Un esempio potente
della rivoluzione che si è operata nell’arte di strada sono i graffiti dipinti
sulle pareti di La Paz dalle componenti di Mujeres Creando, che ridefiniscono
l’immaginario collettivo della città trasformando i suoi muri in un vasto
tazebao, che critica le politiche del governo, sfida i codici morali
consolidati, e mantiene in vita il senso di un’alternativa alla politica
istituzionale[14].
In questo contesto,
anche oggi è importante la presenza nei movimenti di artisti politicizzati,
così come la collaborazione con attivisti ed educatori esterni, che possono,
per esempio, fornire informazioni e approfondimenti sulle politiche governative
che penalizzano la comunità. Ci sono tuttavia pericoli, in un contesto in cui
la mercificazione di ogni aspetto della vita sta modificando anche le lotte
sociali. Oggi si guarda anche alle lotte come a delle merci, con gli artisti in
funzione di strumenti di gentrificazione. Ormai gli spazi in cui artisti ed
educatori contribuiscono ai movimenti popolari sono costantemente minacciati da
interessi commerciali, nonché dalle autorità e dalla polizia che temono
qualsiasi forma di potere che viene dal basso.
È importante ribadire dunque che artisti ed educatori non sono attori
neutri, né possono immaginare di essere i vettori di una particolare creatività
e conoscenza relativa alle lotte. Come suggeriscono gli esempi indicati, le donne
hanno dimostrato una grande capacità di autonomia e di auto-organizzazione.
Hanno anche dimostrato che è dalla necessità che nasce l’invenzione di nuove
attività e nuove relazioni. È quindi più opportuno pensare alla lotta
che le donne e i movimenti popolari stanno facendo nei quartieri poveri in
tutto il mondo come a una escuelita[15], dove gli artisti, gli attivisti, gli
educatori possono imparare non solo a “de-professionalizzasi” ma a coltivare un
diverso tipo di creatività rispetto a quella solitamente associata
all’espressione artistica. Questa è la creatività che si genera quando modifichiamo i nostri
rapporti con gli altri, scoprendo nel potere della cooperazione il coraggio di
resistere alle forze che opprimono la nostra vita.
Note
[1]
*Commoning the City. From Survival to Resistance and Reclamation, in “The
Journal of Design Strategies”, 9, 1, 2017.
Rodolfo Morales (8
maggio 1925 – 30 gennaio 2001) è un rinomato pittore messicano che ha
rappresentato le donne come fondamento della vita sociale in Messico.
[2[1]]
Come ha scritto David Harvey citando il sociologo urbano Robert Park. Si veda
David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy
Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013, pp. 21-22.
[3] [1]Maria
Mies e Veronika Bennhold-Thomsen, The Subsistence Perspective. Beyond The
Globalized Economy, Zed Books, Londra 1999, p. 125-126.
[4][1]
Mies e Bennhold-Thomsen, The Subsistence Perspective, cit., p. 127.
[5] [1]Si
veda Harvey, Città ribelli, cit., pp. 21-45.
[6][1] Si
veda Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico,
riproduzione e lotta femminista, ombre corte, Verona 2014.
[7][1]
Raúl Zibechi, Territories in Resistance. A Cartography of Latin American Social
Movements, AK Press, Oakland CA 2012, pp. 236-237, 241, 261; Raúl Zibechi,
Descolonizar el pensamiento crítico y las praticás emancipatorias, Ediciones
desde abajo, Bogotá 2015.
[8][1] Si
veda Fantu Cheru, The silent revolution and the weapons of the weak.
Transformation and innovation from below, in Louise Amoore (a cura di), The
Global Resistance Reader, Routledge, New York 2005, pp. 74-85.
[9][1]Jo
Fisher, “The Kitchen Never Stopped”. Women’s self-help groups in Chile’s shanty
towns, in Jo Fisher, Out of the Shadow. Women, Resistance and Politics in South
America, Latin American Bureau, Londra 1993, pp. 16 ss.
[10] [1]Natalia
Quiroga Díaz e Verónica Gago, Los comunes en femenino. Cuerpo y poder ante la
expropriación de las economías para la vida, in “Economía y Sociedad”, 19, 45,
30 giugno 2014.
[11] [1]Mujeres
Creando, Mujeres Grafiteando, Compaz, La Paz 2009.
[12[1]]
Maria Galindo, No Se Puede Descolonizar Sin Despatriarcalizar, in
www.mujerescreando.org, 2013,
http://www.mujerescreando.org/pag/prensa/2013/libro-nosepuededescolonizar.htm.
[13] [1]Silvia
Federici e R.J. Maccani, Interview with Pricilla Gonzalez, in Camille
Barbagallo e Silvia Federici (a cura di), “Care Work” and the Commons, Phoneme
Books, Nuova Delhi 2012.
[14] [1]Mujeres
Creando, Mujeres Grafiteando, cit.
[15] [1]Zibechi,
Descolonizar el pensamiento crítico, cit., pp. 161-170.
il pezzo è tratto da Reincantare
il mondo. Femminismo e politica dei commons, (Ombre Corte)