DIRITTO
DI FUGA E CITTÀ SOLIDALI
\«da
Catania a Calais, così come da Melilla a Edirne, le nostre speranze sono
alimentate da un variegato movimento di solidarietà ai migranti che comprende
gruppi cattolici, singoli cittadini, militanti NoBorder e guide alpine Guides
sans Frontieres nelle Alpi francesi. L’eterogeneità di esperienze e pratiche di
solidarietà rappresenta la vera ricchezza del movimento a sostegno dei
migranti. Tale movimento è animato da gruppi organizzati così come da cittadini
che autonomamente decidono di mobilitarsi per reagire alla criminalizzazione
della solidarietà»
Crimine
di solidarietà: può apparire una contraddizione in termini, un vero e proprio
ossimoro, ma questa espressione restituisce il senso di un campo conflittuale
che vede, da un lato, cittadini e cittadine europei che si mobilitano in
sostegno dei migranti in transito essere messi sotto accusa e, dall’altro, il
rilancio diffuso delle stesse pratiche e reti di solidarietà nei territori di
frontiera e in molti centri urbani.
Mentre si assiste alla illegalizzazione preventiva dei richiedenti asilo in Europa e alla moltiplicazione di politiche di contenimento sulla sponda sud e est del Mediterraneo, le infrastrutture autonome create a sostegno dei migranti in transito non solo danno vita a una logistica della resistenza alle politiche securitarie di controllo delle frontiere, ma sono in grado di produrre fratture più o meno temporanee o permanenti nello spazio militarizzato della “Fortezza Europa”.
Mentre si assiste alla illegalizzazione preventiva dei richiedenti asilo in Europa e alla moltiplicazione di politiche di contenimento sulla sponda sud e est del Mediterraneo, le infrastrutture autonome create a sostegno dei migranti in transito non solo danno vita a una logistica della resistenza alle politiche securitarie di controllo delle frontiere, ma sono in grado di produrre fratture più o meno temporanee o permanenti nello spazio militarizzato della “Fortezza Europa”.
Lo
spazio-frontiera italo-francese
In
un contesto segnato da una criminalizzazione della solidarietà senza
precedenti, in Italia come altrove in Europa e nelle sue vicinanze si assiste a
un’escalation inquietante degli episodi di razzismo istituzionale e
di strada. Gli interventi arbitrari delle forze di polizia e delle guardie di
frontiera si moltiplicano in nome della lotta congiunta al terrorismo e alle
migrazioni “irregolari”. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente al primo
posto per l’intensità della scossa diplomatica che ha prodotto, è la vicenda
dell’irruzione armata da parte di cinque agenti della dogana francese
all’interno dei locali della stazione ferroviaria di Bardonecchia per
effettuare un test delle urine a un ragazzo nigeriano che viaggiava
regolarmente da Parigi verso Napoli. In questo caso, il cittadino nigeriano è
stato fermato e sottoposto a un controllo anti-droga sotto pressione di agenti
francesi armati esclusivamente sulla base di un racial profiling (identificazione
razziale) che di fatto regola le pratiche di controllo sui treni che
attraversano i confini nazionali. Quello avvenuto a Bardonecchia è un attacco
che va situato all’interno della serie di atti di intimidazione da parte delle
forze dell’ordine contro chi si sta mobilitando in sostegno dei migranti bloccati
o respinti alle frontiere.
A pochi chilometri da Bardonecchia, al confine italo-francese, dal 24 marzo una stanza interna alla chiesa di Claviere è occupata da migranti e attivisti che dichiarano: “Il problema non è la neve, non sono le montagne; il problema è la frontiera”. Gli occupanti si oppongono al registro dell’emergenza, ribadendo che a causare le morti al confine franco-italiano non sono le condizioni meteo, ma è l’esistenza stessa del confine e il suo attuale funzionamento. In quest’ottica, costruire percorsi solidali significa rifiutare il vocabolario della “gestione” dei migranti e, al contrario, significa aprire spazi comuni di lotta e di permanenza – dicono gli occupanti di Claviere.
Da Catania a Calais, così come da Melilla a Edirne, le nostre speranze sono alimentate da un variegato movimento di solidarietà ai migranti che comprende gruppi cattolici, singoli cittadini, militanti NoBorder e guide alpine Guides sans Frontieres nelle Alpi francesi. L’eterogeneità di esperienze e pratiche di solidarietà rappresenta la vera ricchezza del movimento a sostegno dei migranti. Tale movimento è animato da gruppi organizzati così come da cittadini che autonomamente decidono di mobilitarsi per reagire alla criminalizzazione della solidarietà. Tra questi ultimi, il caso che più di altri ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica è stato quello di Cedric Herrou, contadino francese della Val Roia, al confine italiano-francese, accusato nel 2016 di aver aiutato a superare la frontiera italiana e aver offerto ospitalità a un gruppo di migranti. È stata poi la volta del ricercatore francese Pierre-Alain Mannoni, accusato di aver soccorso tre donne eritree.
Secondo il “Codice di Entrata e Soggiorno degli Stranieri e del Diritto di Asilo” (CESEDA), chi viene accusato di aver “facilitato o tentato di facilitare l’ingresso, la circolazione o il soggiorno irregolare di uno straniero” è punibile dalle autorità francesi con multe che ammontano fino a 30 mila euro, nonché con la reclusione in carcere di due anni. Insieme a Mannoni e Herrou, decine di cittadini e cittadine sono stati (o sono tutt’ora) sotto processo per aver fornito cibo e ospitalità ai migranti. Tali accuse fanno leva su leggi nazionali che richiamano la Direttiva europea del 2002 sul “Favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali”. In alcune località, come Calais, il formarsi di infrastrutture autonome di solidarietà e sostegno materiale ai migranti ha fatto venire alla luce contrasti fino ad allora rimasti sotto traccia tra i diversi livelli istituzionali: amministrazioni locali contro magistratura, governo nazionale contro procure.
La “guerra delle docce”, vale a dire la vertenza messa in campo da gruppi spontanei e associazioni locali per la fornitura di servizi igienici ai migranti di passaggio a Calais, è divenuta una vera e propria icona del movimento di solidarietà con i migranti che tentano di attraversare il confine italo-francese. Alla politica europea di criminalizzazione della solidarietà e sospensione dei diritti negli spazi di emergenza umanitaria si risponde dunque con la moltiplicazione delle iniziative spontanee e organizzate, individuali e collettive, di solidarietà attiva.
A pochi chilometri da Bardonecchia, al confine italo-francese, dal 24 marzo una stanza interna alla chiesa di Claviere è occupata da migranti e attivisti che dichiarano: “Il problema non è la neve, non sono le montagne; il problema è la frontiera”. Gli occupanti si oppongono al registro dell’emergenza, ribadendo che a causare le morti al confine franco-italiano non sono le condizioni meteo, ma è l’esistenza stessa del confine e il suo attuale funzionamento. In quest’ottica, costruire percorsi solidali significa rifiutare il vocabolario della “gestione” dei migranti e, al contrario, significa aprire spazi comuni di lotta e di permanenza – dicono gli occupanti di Claviere.
Da Catania a Calais, così come da Melilla a Edirne, le nostre speranze sono alimentate da un variegato movimento di solidarietà ai migranti che comprende gruppi cattolici, singoli cittadini, militanti NoBorder e guide alpine Guides sans Frontieres nelle Alpi francesi. L’eterogeneità di esperienze e pratiche di solidarietà rappresenta la vera ricchezza del movimento a sostegno dei migranti. Tale movimento è animato da gruppi organizzati così come da cittadini che autonomamente decidono di mobilitarsi per reagire alla criminalizzazione della solidarietà. Tra questi ultimi, il caso che più di altri ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica è stato quello di Cedric Herrou, contadino francese della Val Roia, al confine italiano-francese, accusato nel 2016 di aver aiutato a superare la frontiera italiana e aver offerto ospitalità a un gruppo di migranti. È stata poi la volta del ricercatore francese Pierre-Alain Mannoni, accusato di aver soccorso tre donne eritree.
Secondo il “Codice di Entrata e Soggiorno degli Stranieri e del Diritto di Asilo” (CESEDA), chi viene accusato di aver “facilitato o tentato di facilitare l’ingresso, la circolazione o il soggiorno irregolare di uno straniero” è punibile dalle autorità francesi con multe che ammontano fino a 30 mila euro, nonché con la reclusione in carcere di due anni. Insieme a Mannoni e Herrou, decine di cittadini e cittadine sono stati (o sono tutt’ora) sotto processo per aver fornito cibo e ospitalità ai migranti. Tali accuse fanno leva su leggi nazionali che richiamano la Direttiva europea del 2002 sul “Favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali”. In alcune località, come Calais, il formarsi di infrastrutture autonome di solidarietà e sostegno materiale ai migranti ha fatto venire alla luce contrasti fino ad allora rimasti sotto traccia tra i diversi livelli istituzionali: amministrazioni locali contro magistratura, governo nazionale contro procure.
La “guerra delle docce”, vale a dire la vertenza messa in campo da gruppi spontanei e associazioni locali per la fornitura di servizi igienici ai migranti di passaggio a Calais, è divenuta una vera e propria icona del movimento di solidarietà con i migranti che tentano di attraversare il confine italo-francese. Alla politica europea di criminalizzazione della solidarietà e sospensione dei diritti negli spazi di emergenza umanitaria si risponde dunque con la moltiplicazione delle iniziative spontanee e organizzate, individuali e collettive, di solidarietà attiva.
La
“nuova Turchia” e l’Unione Europea: repressione del diritto di fuga
L’istituzionalizzazione
della criminalizzazione delle pratiche di solidarietà non si limita allo spazio
dell’Unione Europea. In Turchia, la vicenda di due cittadine europee ha fatto
giurisprudenza. Nel settembre 2015 si trovavano nei pressi di Edirne insieme ad
altri volontari e a organizzazioni non governative per dimostrare solidarietà e
fornire sostegno logistico a rifugiati siriani, afgani e iracheni che si erano
organizzati per varcare la frontiera tra la Turchia e la Grecia rivendicando il
diritto a usufruire di canali sicuri e legali per raggiungere l’Europa
piuttosto che imbarcarsi in viaggi potenzialmente fatali. Violando i principi
della libertà e della sicurezza garantiti dalla Convenzione Europea per la
salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, le autorità competenti
non hanno fornito alcuna spiegazione ufficiale a giustificazione della custodia
cautelare nel centro di detenzione amministrativa per stranieri di Istanbul.
All’ordine speciale e ingiustificato di espulsione ha fatto seguito il linciaggio
mediatico da parte dei media filo-governativi. Per accusarle di spionaggio
internazionale hanno pubblicato delle immagini che le ritraevano a Gezi Park
durante la rivolta del 2013.
Nella “nuova Turchia” di Erdoğan ogni forma di dissenso politico – e di solidarietà ai dissidenti – è ormai legalmente definita e ampiamente accettata come sostegno al terrorismo. La gestione dei flussi migratori costituisce parte integrante del processo di costruzione del consenso politico alle politiche sovraniste di uno stato autoritario che continua a strumentalizzare il forte sentimento di appartenenza nazionale. Alla soppressione dello stato di diritto e alle gravi violazioni dei diritti umani di cui è responsabile il governo di Erdoğan finora l’Europa si è limitata a reagire con blandi rimproveri che confermano l’assetto reazionario della stessa. La pacatezza delle reazioni dipende certamente dagli interessi economici dell’Unione e di alcuni Stati membri nei settori dell’industria bellica, delle infrastrutture e dell’energia ma anche dalla minaccia della riapertura della frontiera tra la Grecia e la Turchia.
L’esternalizzazione delle frontiere europee è in parte già completata attraverso la ratifica di patti di collaborazione che di fatto reprimono il diritto alla fuga. Da un lato il processo di Karthoum e, dall’altro, l’accordo tra la Turchia e l’Unione Europea, il quale avvalla la premessa che la Turchia sia “un paese sicuro” e mostra l’efficacia della strategia del respingimento. Secondo le limitazioni geografiche della Convenzione sui rifugiati del 1951, la Turchia non garantisce il riconoscimento dello status di rifugiato – e dunque il diritto d’asilo – a nessun cittadino che non sia europeo. I richiedenti asilo aspettano per anni il reinsediamento in paesi terzi, mentre i siriani possono al massimo beneficiare di un regime di protezione temporanea che gli consente di vivere in Turchia come “ospiti”, ma che non gli garantisce la piena protezione prevista dalla convenzione.
I respingimenti non avvengono però solo dalla Grecia verso la Turchia ma, peggio ancora, dalla Turchia verso la Siria. Parlano chiaro i rapporti di Human Rights Watch sulla violazione delle norme internazionali sui diritti umani nella zona di confine dal 2015 in poi (anno della chiusura ufficiale della frontiera). Le guardie di frontiera turche sparano indistintamente sui civili siriani che hanno tentato di varcare il confine. Alle uccisioni e ai ferimenti si aggiungono altri abusi sistematici: detenzione, percosse e rifiuto di assistenza medica. La complicità dell’Unione Europea è riprovata dalla notizia di un finanziamento pari a più di 80 milioni di euro che si aggiunge ai 6 miliardi previsti dall’accordo e che è stato destinato all’acquisto di attrezzatura militare per il pattugliamento della frontiera e del muro che sigilla parte del confine con la Siria.
Nella “nuova Turchia” di Erdoğan ogni forma di dissenso politico – e di solidarietà ai dissidenti – è ormai legalmente definita e ampiamente accettata come sostegno al terrorismo. La gestione dei flussi migratori costituisce parte integrante del processo di costruzione del consenso politico alle politiche sovraniste di uno stato autoritario che continua a strumentalizzare il forte sentimento di appartenenza nazionale. Alla soppressione dello stato di diritto e alle gravi violazioni dei diritti umani di cui è responsabile il governo di Erdoğan finora l’Europa si è limitata a reagire con blandi rimproveri che confermano l’assetto reazionario della stessa. La pacatezza delle reazioni dipende certamente dagli interessi economici dell’Unione e di alcuni Stati membri nei settori dell’industria bellica, delle infrastrutture e dell’energia ma anche dalla minaccia della riapertura della frontiera tra la Grecia e la Turchia.
L’esternalizzazione delle frontiere europee è in parte già completata attraverso la ratifica di patti di collaborazione che di fatto reprimono il diritto alla fuga. Da un lato il processo di Karthoum e, dall’altro, l’accordo tra la Turchia e l’Unione Europea, il quale avvalla la premessa che la Turchia sia “un paese sicuro” e mostra l’efficacia della strategia del respingimento. Secondo le limitazioni geografiche della Convenzione sui rifugiati del 1951, la Turchia non garantisce il riconoscimento dello status di rifugiato – e dunque il diritto d’asilo – a nessun cittadino che non sia europeo. I richiedenti asilo aspettano per anni il reinsediamento in paesi terzi, mentre i siriani possono al massimo beneficiare di un regime di protezione temporanea che gli consente di vivere in Turchia come “ospiti”, ma che non gli garantisce la piena protezione prevista dalla convenzione.
I respingimenti non avvengono però solo dalla Grecia verso la Turchia ma, peggio ancora, dalla Turchia verso la Siria. Parlano chiaro i rapporti di Human Rights Watch sulla violazione delle norme internazionali sui diritti umani nella zona di confine dal 2015 in poi (anno della chiusura ufficiale della frontiera). Le guardie di frontiera turche sparano indistintamente sui civili siriani che hanno tentato di varcare il confine. Alle uccisioni e ai ferimenti si aggiungono altri abusi sistematici: detenzione, percosse e rifiuto di assistenza medica. La complicità dell’Unione Europea è riprovata dalla notizia di un finanziamento pari a più di 80 milioni di euro che si aggiunge ai 6 miliardi previsti dall’accordo e che è stato destinato all’acquisto di attrezzatura militare per il pattugliamento della frontiera e del muro che sigilla parte del confine con la Siria.
La
politicizzazione dell’umanitario
A
nostro giudizio, la dinamica di reciproca generazione che si è venuta a creare
tra la criminalizzazione delle pratiche di solidarietà operata dai governi nazionali
dell’Unione Europea e il rilancio dal basso delle stesse pratiche di
solidarietà e sostegno materiale (con le loro infrastrutture autonome)
evidenzia una “politicizzazione dell’umanitario” ormai inevitabile, con cui
bisogna fare attivamente i conti. Ai movimenti e a tutte le forze solidali
transnazionali tale politicizzazione dell’umanitario offre spazi di intervento
e possibilità di trasformazione dell’ordine esistente che non vanno sprecati.
Non si tratta, ovviamente, di riproporre la semplificazione di un’indistinta
sfera umanitaria contrapposta alle autorità statali; al contrario, gli assi di
collaborazione tra intervento statale e securitario da una parte e misure
umanitarie dall’altra non hanno mai cessato di rafforzarsi a vicenda.
Piuttosto, ciò che la criminalizzazione in corso delle pratiche di solidarietà
attiva dimostra è la differenziazione interna all’universo di esperienze
etichettate comunemente come “umanitarie”. Non a caso, nel discorso pubblico,
assistiamo a un costante alternarsi nell’utilizzo dei termini “solidarietà” e
“umanitario”. A generare reazioni repressive da parte delle istituzioni non è
l’intervento in quanto tale bensì le modalità in cui questo avviene. A essere
oggetto delle politiche statali di repressione sono l’accoglienza e il soccorso
prestati al di fuori dei circuiti ufficiali della gestione delle migrazioni,
vale a dire le alleanze trasversali – tra migranti e non – che scaturiscono da
tali pratiche di solidarietà.
La recente vicenda del sequestro del vascello umanitario di Proactiva Open Arms – l’organizzazione non governativa spagnola creata da volontari in modo autorganizzato nel 2015 – porta alla luce le contraddizioni della politica emergenziale messa in campo a difesa della “Fortezza Europa”. Proactiva Open Arms fa parte della minoranza di organizzazioni umanitarie che hanno deciso di aderire al “codice di condotta” per il soccorso dei migranti (tre contro le cinque che rifiutarono). Adottato dal ministro Minniti nell’estate del 2017, il “codice di condotta” è stata la risposta governativa alle pressioni che forze populistiche e nazionalistiche – come il Movimento 5Stelle e la Lega in Italia – hanno esercitato al fine di irrigidire ulteriormente il controllo delle frontiere. L’adesione al “codice di condotta” non ha però consentito a Proactiva Open Arms di sottrarsi alla repressione delle autorità giudiziarie italiane. Anzi, è stata utilizzata dalla Procura di Catania per motivarne la criminalizzazione.
La recente vicenda del sequestro del vascello umanitario di Proactiva Open Arms – l’organizzazione non governativa spagnola creata da volontari in modo autorganizzato nel 2015 – porta alla luce le contraddizioni della politica emergenziale messa in campo a difesa della “Fortezza Europa”. Proactiva Open Arms fa parte della minoranza di organizzazioni umanitarie che hanno deciso di aderire al “codice di condotta” per il soccorso dei migranti (tre contro le cinque che rifiutarono). Adottato dal ministro Minniti nell’estate del 2017, il “codice di condotta” è stata la risposta governativa alle pressioni che forze populistiche e nazionalistiche – come il Movimento 5Stelle e la Lega in Italia – hanno esercitato al fine di irrigidire ulteriormente il controllo delle frontiere. L’adesione al “codice di condotta” non ha però consentito a Proactiva Open Arms di sottrarsi alla repressione delle autorità giudiziarie italiane. Anzi, è stata utilizzata dalla Procura di Catania per motivarne la criminalizzazione.
Ecosistemi
della solidarietà: per una rete di città solidali
L’esperienza
di Proactiva Open Arms dimostra come la disobbedienza alle politiche di
criminalizzazione della solidarietà sia oggi una scelta di fatto obbligata a
disposizione dei movimenti e delle variegate forze – spontanee e organizzate –
che si mobilitano a sostegno dei migranti che rivendicano il diritto di fuga e
attraversamento autonomo delle frontiere. Affinché tale disobbedienza non
rimanga isolata, ma acquisti valenza politica, è fondamentale rafforzare la
cooperazione all’interno del movimento di solidarietà con i migranti. Nei
giorni successivi al sequestro della nave di Proactiva Open Arms, la sindaca di
Barcellona Ada Colau ha richiamato l’attenzione sul ruolo che le
amministrazioni locali possono svolgere all’interno del movimento di solidarietà
con i migranti, facendosi promotrici di reti di solidarietà e di contestazione
alla militarizzazione delle frontiere e alla politica della paura e dell’odio
che oggi incombe nella sfera pubblica europea.
In quanto spazi di accoglienza e rifugio, le città e le metropoli rappresentano veri e propri avamposti, hub e nodi diffusi, del movimento di resistenza alle politiche di repressione. Le città e metropoli sono infatti spazi in cui già oggi si osserva una moltitudine – perlopiù ancora invisibile o dispersa – di esperienze e mobilitazioni a difesa dei diritti umani, della democrazia e del bene comune. La vitalità e diversità istituzionale di cui le città-metropoli dispongono sono la testimonianza vivente del loro potenziale costituente: sindaci e amministrazioni che resistono alle politiche europee di austerità, ma anche consigli di quartiere e soprattutto uno strato diffuso di associazioni, movimenti, gruppi spontanei e singoli cittadini solidali. La ricchezza e varietà di tali “ecosistemi della solidarietà” offre un contributo essenziale al movimento di accoglienza e sostegno logistico a migranti e rifugiati.
Il ruolo che le città e metropoli svolgono già oggi nel movimento di solidarietà con i migranti e per il diritto alla circolazione nello spazio europeo e mediterraneo è decisivo a livello pratico, ma può diventarlo ancora di più sul piano politico. Crediamo infatti che il potenziale politico e istituzionale delle “città solidali” non sia ancora valorizzato nelle sue effettive possibilità. Un più incisivo e consapevole sforzo di valorizzazione di tale potenziale è in grado di generare nuovi spazi costituenti di democrazia post-nazionale, mettendo in discussione l’indirizzo sovranista oggi dominante nell’Unione Europea e nei paesi alleati nelle politiche di difesa e fortificazione dei confini nazionali. È a partire dalle città e metropoli, ma anche dai luoghi di frontiera come la Val di Susa, che è possibile lanciare una sfida alla criminalizzazione della solidarietà cui oggi si assiste e, al tempo stesso, dare avvio a un più ampio processo costituente capace di ridefinire l’idea e l’esperienza stessa di Europa e di globalizzazione.
In quanto spazi di accoglienza e rifugio, le città e le metropoli rappresentano veri e propri avamposti, hub e nodi diffusi, del movimento di resistenza alle politiche di repressione. Le città e metropoli sono infatti spazi in cui già oggi si osserva una moltitudine – perlopiù ancora invisibile o dispersa – di esperienze e mobilitazioni a difesa dei diritti umani, della democrazia e del bene comune. La vitalità e diversità istituzionale di cui le città-metropoli dispongono sono la testimonianza vivente del loro potenziale costituente: sindaci e amministrazioni che resistono alle politiche europee di austerità, ma anche consigli di quartiere e soprattutto uno strato diffuso di associazioni, movimenti, gruppi spontanei e singoli cittadini solidali. La ricchezza e varietà di tali “ecosistemi della solidarietà” offre un contributo essenziale al movimento di accoglienza e sostegno logistico a migranti e rifugiati.
Il ruolo che le città e metropoli svolgono già oggi nel movimento di solidarietà con i migranti e per il diritto alla circolazione nello spazio europeo e mediterraneo è decisivo a livello pratico, ma può diventarlo ancora di più sul piano politico. Crediamo infatti che il potenziale politico e istituzionale delle “città solidali” non sia ancora valorizzato nelle sue effettive possibilità. Un più incisivo e consapevole sforzo di valorizzazione di tale potenziale è in grado di generare nuovi spazi costituenti di democrazia post-nazionale, mettendo in discussione l’indirizzo sovranista oggi dominante nell’Unione Europea e nei paesi alleati nelle politiche di difesa e fortificazione dei confini nazionali. È a partire dalle città e metropoli, ma anche dai luoghi di frontiera come la Val di Susa, che è possibile lanciare una sfida alla criminalizzazione della solidarietà cui oggi si assiste e, al tempo stesso, dare avvio a un più ampio processo costituente capace di ridefinire l’idea e l’esperienza stessa di Europa e di globalizzazione.