PER IL REDDITO DI BASE INCONDIZIONATO
\ La recente tornata
elettorale ha segnato una trasformazione radicale dello scenario in cui i
movimenti si trovano a presentare le proprie istanze rivendicative
\ Lo scenario risulta completamente nuovo e proprio a partire dal nuovo protagonismo del reddito di cittadinanza all’interno del dibattito politico potrebbe aprirsi uno spazio di mobilitazione, da attraversare con tutta la nostra fantasia e il nostro desiderio
\Forse grazie alla crepa aperta involontariamente nella cornice di senso neoliberista, riprodotta indifferentemente da destra e da sinistra, possiamo intravedere nuove pratiche di connessione e ricomposizione possibili
\ Lo scenario risulta completamente nuovo e proprio a partire dal nuovo protagonismo del reddito di cittadinanza all’interno del dibattito politico potrebbe aprirsi uno spazio di mobilitazione, da attraversare con tutta la nostra fantasia e il nostro desiderio
\Forse grazie alla crepa aperta involontariamente nella cornice di senso neoliberista, riprodotta indifferentemente da destra e da sinistra, possiamo intravedere nuove pratiche di connessione e ricomposizione possibili
E
fai l’analista di calciomercato
Il
bioagricoltore, il toyboy, il santone
Il
motivatore, il demotivato
La
risorsa umana, il disoccupato
Perché
lo fai?
[…]
Per
un mondo diverso
Libertà
e tempo perso
E
nessuno che rompe i coglioni
Nessuno
che dice se sbagli sei fuori
Preludio. Meteore e nuovi scenari
Nella
storia recente italiana le elezioni politiche avevano assunto un significato
non particolarmente rilevante. Almeno dieci anni di grandi intese nel nome
dell’austerity avevano reso di fatto trascurabili i risultati
elettorali, nonostante i tentativi costanti di rappresentare l’evolversi degli
scenari politici come radicalmente trasformativi. Dalla caduta di Berlusconi al
governo Monti, dalla velocissima ascesa alla rovinosa caduta della meteora
Renzi, questi anni sono stati governati dall’idea che non ci fossero
alternative e che il compito principale di un qualsiasi governo fosse quello di
assecondare i dettami delle élites finanziarie e di garantire
una stabilità politica indispensabile per rimuovere definitivamente i pochi
elementi residui delle socialdemocrazie europee, quella italiana compresa.
Sotto la coltre disorientante definita dalla crisi, grande mantello che
giustifica tutto, la governance europea ha aggredito senza
pietà gli istituti di mediazione che timidamente resistevano all’avanzare delle
politiche economiche neoliberali. Welfare, relazioni industriali,
mercato del lavoro, sistemi fiscali sono stati trasformati con una velocità
senza precedenti, disegnando un quadro politico e sociale segnato dalla
competizione, dalla precarietà e da gradi di povertà profondi e violenti. In questo
contesto, raramente i movimenti europei sono riusciti ad arginare la violenza
con cui le riforme hanno cambiato radicalmente il tavolo da gioco politico e
sociale in cui si decide sulle vite di milioni di persone.
Le
elezioni del 4 Marzo hanno segnato una trasformazione radicale dello scenario
in cui i movimenti si trovano a presentare le proprie istanze rivendicative. Se
da un lato ad uscirne con le ossa rotte sono proprio quei partiti che hanno
garantito il riprodursi dell’austerity e delle sue forme di governo, dall’altro
l’emergere della scelta elettorale che ha premiato la nuova Lega e il Movimento
5 Stelle costringe quel che resta dei movimenti italiani a ragionare in modo
profondo sui possibili scenari e sulle nuove possibilità che la fase presenta.
Utile dunque, in questo senso, provare a comprendere quel che è successo il 4
Marzo e nei giorni immediatamente successivi a partire dall’urgenza, sempre più
chiara ed evidente, di mettere in discussione nel profondo le forme e le prassi
organizzative entro cui le soggettività antagoniste si sono fino ad oggi
definite. Pensiamo sia necessario non guardare a quel che è successo con uno
sguardo esterno e auto-assolutorio, ma, al contrario, pensandoci coinvolti e
profondamente messi in discussione dagli scenari politici che oggi si
presentano davanti ai nostri occhi. A partire dalla nostra specificità di
Sindacato Sociale che si interroga sulle forme più adatte per organizzare le
battaglie e i conflitti nel confine sempre più labile tra lavoro e non lavoro,
ci sembra che il dibattito sviluppatosi prima e dopo le elezioni sul tema del
reddito di cittadinanza abbia avuto un peso specifico assolutamente rilevante
rispetto agli esiti elettorali.
Il vecchio che muore e il nuovo che avanza
La
partita elettorale si è giocata su due temi privilegiati che hanno informato il
dibattito pubblico degli ultimi anni: da un lato la questione migratoria con il
suo portato polarizzante e dall’altro le questioni legate alla necessaria
ridefinizione dei sistemi di welfare della provincia Italia. Se sul primo tema
ampi settori di movimento si stanno interrogando in modo profondo, tentando di
scardinare le narrazioni razziste e utilitariste che gran parte delle compagini
politiche hanno proposto, sulla questione del welfare e delle nuove forme del
lavoro che la accompagna, ci sembra che le capacità di analisi e di
comprensione dei movimenti sociali siano tutt’oggi insufficienti.
Il
primo dato importante da sottolineare è la sconfitta, pesante e potenzialmente
fatale, proprio delle forze del “buon senso”, in primis il Partito Democratico
di Matteo Renzi. Oltre ad aver pagato il costo della devastazione del diritto
del lavoro italiano (Jobs Act), elevando la precarietà ad unica forma di
relazione lavorativa del nostro paese (il diffondersi dei voucher e del lavoro
gratuito ne sono solo un esempio), il PD non ha capito – o non ha voluto capire
– la composizione del lavoro che nasce e si sviluppa all’interno del paradigma
neoliberale. L’insistenza sugli aiuti alle famiglie, su misure assistenziali e
caritatevoli per un numero marginale di poveri (ReI), il non comprendere le
dinamiche biopolitiche che innervano le forme di vita precarie, sono state il
primo motivo di incompatibilità tra la proposta politica renziana e la
materialità delle vite di milioni di precari, lavoratori autonomi e piccoli
imprenditori. Di fatto il Partito Democratico ha scelto di rappresentare le élite
finanziarie europee e gli ultrasessantenni italiani, quelli che faticano a
comprendere la rivoluzione epistemologica che l’emergere della precarietà come
paradigma riversa nelle vite delle nuove generazioni.
Dal
canto loro le destre, in primis la Lega, hanno sviluppato un discorso che
risulta essere tanto ambivalente quanto profittevole dal punto di vista del
consenso elettorale. L’aggregarsi di forze populiste e razziste come la Lega e
Fratelli d’Italia con Forza Italia e altri soggetti che potevano garantire
all’Unione Europea alcune sicurezze dal punto di vista dei bilanci e del
rispetto di alcuni paletti invalicabili hanno permesso alla coalizione di
arrivare ad un risultato inaspettato e in ogni caso soddisfacente. Dal punto di
vista economico, è stato il connubio tra proposte neoautarchiche e
antieuropeiste e lo slogan “prima gli italiani” a costituire la proposta
complessiva della coalizione delle destre. Nella dimensione paradossale del
dibattito politico degli ultimi mesi, Berlusconi e Salvini sono riusciti a
tenere insieme le rassicurazioni ai partner europei con la proposta leghista,
mai davvero ritrattata, di uscita dall’euro. In questo contesto, lo slogan
“prima gli italiani” ha assunto un significato molto chiaro: nel contesto di
carenza di risorse in cui l’Italia si ritrova, l’organizzazione dei sistemi di
welfare non è inefficace in sé, ma è la presenza di soggettività migranti che
ne usufruiscono a costituire il problema principale dal punto di vista dei
diritti sociali. Poco importa se questi lavorano e contribuiscono dal punto di
vista fiscale alle casse del sistema previdenziale del paese. Le traiettorie di
questa proposta, del resto, sono ben visibili nelle forme entro cui la Lega ha
governato i territori in cui è da sempre maggiormente radicata, come il Veneto
e la Lombardia. Inserire clausole che attestino l’italianità di un soggetto
nelle graduatorie per case popolari e asili nido, affermare che la presenza
massiccia di migranti nel mercato del lavoro italiano da un lato sottrae
occupabilità per gli autoctoni e dall’altro è la causa dell’abbassamento del
costo del lavoro, rivendicare nuovi muri e una radicalizzazione del controllo
dei confini nazionali sono gli elementi cardine della capacità attrattiva delle
retoriche utilizzate dai nuovi fascisti di questo paese.
In
questo quadro, tuttavia, il dato che emerge con più forza è l’esplosione
espansiva del Movimento 5 Stelle, che ha fatto del reddito di cittadinanza uno
dei propri principali cavalli di battaglia.
I Cinque Stelle, il reddito di cittadinanza e le
miopie di noi tutti
Crediamo
che per comprendere, seppur parzialmente, la vittoria schiacciante del
Movimento Cinque Stelle sia necessario partire da un’analisi della composizione
sociale che ha affidato alla compagine grillina la propria preferenza
elettorale. Siamo convinti che chi da sinistra pontifica, con una certa vena
elitista e classista, sull’ignoranza di chi ha votato Luigi Di Maio non solo
sta continuando ad allontanarsi dal sociale che vorrebbe rappresentare, ma
spinge ancor di più l’ago della bilancia politica italiana verso destra. A
votare i 5S sono stati infatti giovani e giovani adulti tendenzialmente
istruiti, nonché protagonisti delle relazioni sociali istruite dal mondo 4.0.
Sono stati dunque precari, inoccupati, disoccupati, lavoratori autonomi,
voucheristi, neet e “bamboccioni” lo zoccolo duro del 33% ottenuto dal partito
di Di Maio, in un contesto in cui l’alta affluenza alle urne afferma in modo
inequivocabile come a determinare le scelte dell’elettorato vi sia il tema
della partecipazione e non quello del disinteresse. L’impressione è che, mentre
le strutture parlamentari storiche si concentravano sulle lobby e sulla
composizione più anziana del paese, i 5S accoglievano simbolicamente le
rivendicazioni di quella composizione sociale condannata da sempre alla
precarietà e alla povertà. In questo senso, la proposta del reddito di
cittadinanza è stato il grimaldello con cui intercettare e sussumere le istanze
sociali delle nuove forme del lavoro precario e autonomo. Basterebbe guardare
all’ultimo evento della campagna elettorale pentastellata in Piazza del Popolo,
con Beppe Grillo in persona che afferma come l’obbiettivo tendenziale dei 5S
sarà il permettere ai cittadini di fare un referendum online ogni domenica per
comprendere la capacità evocativa e il piano discorsivo su cui il consenso di
questa forza populista si è strutturato (“Quando i cittadini avranno gli
strumenti per fare un referendum alla settimana da casa, il Movimento potrà
anche sciogliersi: noi siamo un movimento biodegradabile.”). La proposta di
reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle, pur avendo il merito di aprire
finalmente un dibattito trasversale su un tema per cui solo i movimenti sociali
si sono spesi negli ultimi vent’anni, si presenta come uno strumento dispotico
di controllo sociale, di abbattimento del costo del lavoro e di legittimazione
definitiva di differenti forme di lavoro gratuito. L’idea è quella propria dei
sistemi di workfare, un misto di UK con uno sguardo alla Germania
dell’Hartz IV, in cui per avere accesso ai sussidi un soggetto deve accettare
in modo coatto il lavoro che gli viene proposto, qualsiasi esso sia. In
aggiunta, secondo i Cinque Stelle, chi avrà diritto ad accedere al reddito di
cittadinanza dovrà mettere a disposizione almeno 4 ore alla settimana di lavoro
gratuito al proprio comune di residenza, dovrà dimostrare di cercare lavoro
almeno per due ore al giorno, dovrà presentarsi al centro per l’impiego almeno
una volta alla settimana. Come in molti stanno sostenendo in questi giorni, la
proposta si presenta come una misura ultraliberista in cui la povertà diventa
una colpa da espiare e il diritto ad una vita dignitosa deve essere conquistato
in cambio della disponibilità assoluta allo sfruttamento. In questo senso, il
film “Io, Daniel Blake” di Ken Loach ci mostra, in modo tanto evocativo quanto
violentemente verosimile, come gli effetti economici, sociali ed esistenziali
dei sistemi di workfare producano delle conseguenze estreme in termini di
stigmatizzazione sociale, di isolamento e di povertà diffusa.
Convinti
che il tema del reddito abbia dato un forte contributo ai risultati dell’ultima
tornata elettorale, rimaniamo sconcertati dal dibattito pubblico che si è
sviluppato nei giorni immediatamente successivi alle elezioni. Dal 5 di Marzo,
infatti, nel web e nei giornali mainstream, si è diffusa la voce
che nel Sud Italia moltissime persone hanno preso d’assalto i Centri per
l’Impiego richiedendo il reddito di cittadinanza promesso dai grillini durante
la campagna elettorale. Quella che si è prodotta è secondo noi una narrazione
tossica, entro cui tuttavia si aprono degli spazi importanti per i movimenti
sociali e per le istanze di liberazione che questo scenario ci potrebbe
consegnare. In molti, nel web, hanno ironizzato sull’ingenuità degli elettori
del sud Italia nel credere alla presunta bufala del reddito di cittadinanza. Il
tema che più spesso viene evocato è l’impossibilità di mettere in atto una
misura distributiva a causa dell’assenza di capacità economiche e monetarie
adeguate. Oltre a gerarchizzare in termini etici (lavoristi) gli elettori del
Nord e del Sud, definendo i secondi come “fannulloni” e “ignoranti” e
confermando l’atteggiamento elitario di una certa sinistra nonché dell’ormai
imbarazzante sistema mediatico italiano, crediamo che questo piano discorsivo
sia utilizzato innanzitutto per ribadire il concetto che in Italia non si possa
e non si voglia immaginare la possibilità di inventare un nuovo welfare, per
quanto questo possa essere proposto come una misura ultraliberale che, lungi
dal liberare il sociale dalla precarietà e dalla povertà, lo condanna ad una vita
di ricatti e di sottomissione alle regole del lavoro gratuito.
In
tutto questo, i miseri risultati dell’unica compagine a cui va dato il merito
di aver tentato di strutturare un piano discorsivo differente, cioè Potere al
Popolo, hanno dimostrato chiaramente il carattere controproducente di una
nostalgia per l’etica lavorista poco rintracciabile all’interno della
composizione del lavoro vivo contemporaneo. “Lavorare tutti, lavorare meno” non
solo non coglie il carattere immediatamente produttivo della riproduzione
sociale, ma soprattutto non comprende le esigenze di un’intera generazione che
vive la propria biografia professionale in una dimensione ormai strutturalmente
segmentata e disarticolata.
Lo
scenario per i movimenti dunque risulta completamente nuovo e proprio a partire
dal nuovo protagonismo del reddito di cittadinanza all’interno del dibattito
politico potrebbe aprirsi uno spazio di mobilitazione, da attraversare con
tutta la nostra fantasia e il nostro desiderio.
Disarticolare la cittadinanza maschia, bianca e
occidentale: un nuovo welfare per tutte e per tutti
Nel
panorama politico che la fase ci consegna dovremmo essere capaci di comprendere
immediatamente quali traiettorie adottare per rispondere alla complessa
situazione post-elettorale. Se certamente le alleanze artificiali a cui
probabilmente assisteremo per la costruzione del nuovo governo saranno
determinanti per immaginare ciò che ci aspetta, crediamo che non sia questa la
direzione a cui rivolgere il nostro sguardo antagonista. Differentemente, è
proprio la rottura cognitiva che l’emergere del tema del reddito di
cittadinanza nel dibattito pubblico ci propone a riportarci a condensare le
nostre energie militanti e organizzative su questo terreno. Nonostante le
insidie che la proposta di Workfare dei 5S incorpora, pensiamo che quella che
si presenta sia un’occasione da non perdere.
Basterebbe
osservare la potenza che i movimenti femministi globali e la dirompente rottura
che i processi migratori stanno portando nelle società occidentali per
comprendere come sia lo stesso concetto di cittadinanza a cui la proposta di
reddito pentastellata fa riferimento ad essere messo in discussione. L’idea di
un sistema di welfare rivolta al cittadino bianco eterosessuale e pater
familias che ha informato l’intero assetto sociale occidentale dal
dopoguerra in avanti è completamente saltata di fronte alle insorgenze che
donne e migranti stanno determinando ad ogni latitudine di questo mondo in
subbuglio. È a questa altezza che, come i movimenti femministi e
transfemministi come Non una di meno rivendicano, dovremmo immaginare la
costruzione delle lotte a venire: strutturare una proposta di reddito
incondizionato e per l’autodeterminazione di tutte e tutti potrebbe essere
l’arma con cui affondare definitivamente la gerarchia intersezionale entro cui
il diritto ad avere diritti viene ancora definito. In questo senso, dovremmo
essere capaci di costruire degli spazi che se da un lato siano capaci di
attrarre proprio quella composizione del lavoro vivo precaria e povera che ha
costituito il bacino elettorale del Movimento 5 Stelle, dall’altro aiutino a
decostruire definitivamente l’idea nostalgica di un mondo ordinato secondo le
categorie binarie e gerarchizzanti di donna-uomo, lavoratore-disoccupato,
autoctono-migrante.
Attaccare
la proposta del workfare all’italiana mentre proponiamo una
visione universalistica dei diritti sociali potrebbe fornire nuovo ossigeno a
chi, senza tregua, mette a disposizione il proprio tempo, le proprie energie e
i propri desideri alla trasformazione radicale del presente. In questo senso,
una mobilitazione con vocazione maggioritaria per un reddito di base universale
e incondizionato finanziato dalla fiscalità generale potrebbe
contemporaneamente dare una spinta decisiva alle trasformazioni sociali che i
movimenti delle donne stanno già determinando in tutto il mondo e respingere in
modo definitivo i tentativi di segmentare la classe lungo la linea del colore.
Dovremmo ripartire dal significato scandaloso che l' ”assalto ai centri per
l’impiego”, reale o presunto, ha prodotto nel discorso pubblico,
risignificandolo del potenziale di rottura e di rivendicazione che porta con
sé, e decifrando e valorizzando allo stesso tempo il sussulto di panico che ha
scaturito nei residui di una sinistra ormai completamente avulsa dalla realtà.
Quell’assalto ci parla, o potrebbe farci parlare, dell’espressione di un
bisogno profondo a cui non servono molte parole per esprimersi, una pratica di
rivendicazione che rappresenta anche la disaffezione radicale verso le
politiche economiche e sociali degli ultimi decenni. In altri termini, forse
grazie a questa crepa aperta involontariamente nella cornice di senso
neoliberista, riprodotta indifferentemente da destra e da sinistra, possiamo
intravedere nuove pratiche di connessione e ricomposizione possibili.
Se
il 4 Marzo ci consegna un paese diviso, polarizzato sui temi del welfare e
delle migrazioni, una marea sul reddito di base universale e incondizionato si
presenta come necessità urgente e imprescindibile per chi, ostinatamente, non
vuole cedere alla barbarie che bussa alle nostre porte.