-f.m. pezzulli-
-le trasformazioni tecnologiche e di
organizzazione della produzione oggi definiscono i processi di accumulazione e
valorizzazione ed evidenziano modalità di produzione caratterizzate da un
elevato grado di non misurabilità, forme essenzialmente immateriali \ le forme
giuridiche, giuslavorista, statuali e sindacali di remunerazione sono rimaste
ancorate alla remunerazione di stampo fordista \ Uno dei fatti conclamati del
cambiamento di paradigma produttivo è proprio l’aumento del lavoro precario e
sottopagato sino all’incremento del lavoro schiavistico gratuito e dall’aumento
dell’orario di lavoro
FMP: Da un po’ di tempo, in particolare dalle
ultime elezioni politiche che hanno visto primeggiare il Movimento 5 Stelle, il
discorso sul “Reddito” è tornato alla ribalta con particolare vigore; ma anche,
come nel passato recente, con tutta una serie di ambiguità dovute alla sua
declinazione nei termini del sussidio, come se si trattasse di una aiuto
offerto dallo Stato a coloro i quali, cittadini italiani, sono in una
condizione di povertà assoluta o relativa. Pasquale Tridico, il Ministro in
pectore del potenziale governo Di Maio, in ultimo dà una ulteriore definizione
restrittiva della proposta del M5S «un reddito minimo condizionato alla
formazione e al reinserimento lavorativo». Da questo punto di vista il Reddito
di Cittadinanza è molto differente da quanto auspicato dallo stesso Beppe
Grillo e, in particolare, da ciò che abbiamo anzitempo definito Reddito di
esistenza o, più semplicemente, Reddito di base. Ci spieghi perché, a
differenza del Reddito di cittadinanza, quest’ultimo approccio non ha nulla a che
vedere con le diverse forme di assistenzialismo oggi presenti in Italia?
AF: Il Reddito d’esistenza, o Reddito di base (RdB),
deve essere erogato a tutti i residenti, cittadini o non cittadini, come
reddito individuale (e non familiare) e soprattutto deve essere un reddito
incondizionato: cioè non deve presupporre nessuna contropartita in termini di
obblighi, di comportamenti reali o morali che siano. Inoltre, un terzo elemento
per definire il RdB è che il fondo da cui attingere le risorse monetarie necessarie
derivi direttamente da una quota della ricchezza sociale prodotta. Gli
strumenti possono essere diversi: la politica fiscale (a livello territoriale,
nazionale o sovranazionale), le relazioni industriali come esito di una
vertenza collettiva nazionale o territoriale, la politica monetaria
(quantitative easing) sino a immaginare un circuito monetario complementare e
alternativo di creazione di moneta.
Per comprendere in modo appropriato
questi aspetti bisogna, per prima cosa, compiere un salto di prospettiva
culturale prima ancora che politica: occorre ribadire con forza che il RdB è
una “variabile distributiva primaria”, cioè che il RdB interviene direttamente
nella distribuzione del reddito tra i fattori produttivi. Allo stato attuale,
si riconosce solo il salario come remunerazione dell’attività di lavoro; il
profitto come la remunerazione dell’attività d’impresa e la rendita come
remunerazione di una proprietà. A queste occorre aggiungere il RdB come
remunerazione di quel tempo di vita (oggi diventata produttivo) che non viene
certificato come tale. Variabile distributiva primaria significa che non è una
variabile redistributiva, nel senso che prima si dà una distribuzione del
reddito (tra salari, profitti e rendite) sulla base dei rapporti di forza esistenti
all’interno di un certo processo di accumulazione e poi, una volta stabilita
questa distribuzione, c’è un’organizzazione sovra individuale (di solito è lo
Stato) che interviene per affinare questa distribuzione attraverso un processo
re-distributivo indiretto.
FMP: Ti interrompo brevemente ma, a questo
punto, la domanda sorge spontanea: se il RdB è una forma di remunerazione e non
di sussidio o assistenza, in realtà cosa remunera?
AF: Il salto culturale consiste nel fatto
che bisogna riconoscere che il RdB è la remunerazione di quell’attività
produttiva di valore, dal punto di vista capitalistico, che oggi non viene
certificata come prestazione lavorativa. Questo è l’esito di un processo
epocale di cambiamenti strutturali nei processi di produzione e organizzazione
del lavoro, che hanno segnato il passaggio da un capitalismo materiale fordista
ad un capitalismo bio-cognitivo finanziarizzato. Parto da questo assunto: oggi
la produzione di valore si basa contemporaneamente su forme di estrazione di “plusvalore
assoluto” e di “plusvalore relativo”, dove per plusvalore assoluto si intende
l’esistenza di un processo di accumulazione originaria – in un’organizzazione
capitalistica basata sul rapporto capitale lavoro e sulla proprietà privata
quale quella nella quale noi viviamo – che si estende orizzontalmente
modificando il rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Una parte
di quest’ultimo lavoro, che nel capitalismo materiale fordista, veniva
considerato non produttivo di plusvalore e quindi non remunerato, oggi è
divenuto produttivo, mentre le forme giuridiche, giuslavorista, statuali e
sindacali di remunerazione sono rimaste ancorate alla remunerazione di stampo
fordista. Quindi si è creato uno iato, e cioè che una forma di lavoro produttivo
non viene certificato come tale sulla base di regole concertative sindacali che
non sono adeguate. Qui c’è un problema sindacale enorme! Questa attività di
vita che produce valore senza alcun riconoscimento è vero e proprio lavoro
gratuito (nel senso di non pagato), o, usando un’espressione più cruda ma più
sincera, è lavoro schiavista, che dovrebbe essere remunerato attraverso
l’introduzione di un RdB.
FMP: Su questo punto, nei decenni trascorsi,
alcuni tra i sindacati e i partiti della sinistra hanno detto più o meno
esplicitamente: va bene, riconosciamo che queste nuove forme di lavoro sono
produttive e dunque proviamo ad agire anche con esse attraverso la
concertazione sindacale in modo da poterle salarizzare. Non vediamo pertanto
perché ci dovrebbe essere bisogno di un RdB. Cosa dici in proposito?
AF: Credo che questo modo di procedere abbia
evidenziato un secondo problema teorico culturale, di cambio di prospettiva, di
cambio di mentalità e di approccio metodologico. Un problema che nasce dal
fatto che le trasformazioni tecnologiche e di organizzazione della produzione
che oggi definiscono i processi di accumulazione e valorizzazione hanno sempre
più interessato e evidenziato modalità di produzione caratterizzate da un
elevato grado di non misurabilità, forme essenzialmente immateriali. Quando si
mettono a valore tutta una serie di attività che sono legate ai processi
d’apprendimento e alle reti di relazione, si mettono in moto dei meccanismi che
gli economisti chiamano economie di apprendimento e economie di rete. Queste
sono economie di scala di tipo nuovo, dinamiche perché con lo scorrere del
tempo permettono di aumentare il livello di produttività. E non c’è niente di
più dinamico e flessibile del linguaggio e della relazione. E dato che le
tecnologie informatiche sono diventate sempre più pervasive, anche
nell’agricoltura per intenderci, è chiaro che la nuova capacità di
valorizzazione – le nuove forme di sfruttamento insite nel rapporto
capitale/lavoro – oggi nascono si alimentano dallo sfruttamento dei processi di
apprendimento e relazione. Teniamo presente che le economie di apprendimento si
basano sulla generazione e diffusione della conoscenza, cioè il valore si crea
proprio quando la conoscenza si diffonde. La conoscenza non è una risorsa
scarsa come le merci fisico-materiali ma ha una proprietà fondamentale: più si
scambia, più si diffonde e diventa abbondante e ciò mette in moto un meccanismo
cumulativo fortemente produttivo. Questa produttività si manifesta e si
valorizza nel momento stesso in cui entrano in gioco le economie di rete,
ovvero la relazione e la cooperazione. Apprendimento e relazione sono due facce
della stessa medaglia: se la conoscenza non si diffonde non c’è relazione e non
c’è creazione di valore economico (plusvalore, che oggi assume la forma di
“valore di rete”): le forme dell’accumulazione e della valorizzazione
bio-capitalista richiedono sempre più forme di cooperazione sociale. Non si
tratta evidentemente di cooperazione nel senso di: “mettiamoci insieme e
facciamo una grande famiglia”, ma di co–operazione, operazioni fatte insieme,
che sono operazioni che spesso nascondono forme di gerarchia e di sfruttamento.
Questo elemento rende difficilmente misurabile il valore del lavoro all’interno
della cooperazione sociale. Se nella fabbrica tradizionale la produttività, ad
esempio il cottimo, era basato su precisi meccanismi tecnici che permettevano
(e tuttora permettono) di misurare la produttività individuale, nel capitalismo
contemporaneo la produttività della cooperazione sociale non è misurabile in
termini di produttività individuale. Questo è un primo nodo problematico. Il
secondo nodo è che lo stesso prodotto della cooperazione sociale non è
misurabile. Quando si producono simboli, linguaggi, idee, forme di
comunicazione, dati, controllo sociale, c’è un problema di misurazione. Non
possiamo più dire: “tu fai “tot” quindi, ti pago “tot”: questo non
è più possibile.
FMP: Ma anche se il “prodotto” non è più
misurabile ci sarà pur qualcun altro a dare questo valore oppure no?
AF: Certo che c’è. Questo qualcun altro sono
i mercati finanziari, perché oggi quello che dà valore alla produzione
capitalistica a livello globale è il valore del capitale sociale delle aziende
che organizzano, gestiscono e sfruttano la cooperazione sociale, aziende che
sono quotate in borsa ed è la borsa che di riffa o di raffa dà una misura del
valore, che è, tuttavia, una misura indiretta, imperfetta e fuori controllo.
Per ritornare al nostro discorso, comunque, queste considerazioni ci portano a
dire che la struttura salariale classica non è più adeguata, non coglie le
trasformazioni che oggi agiscono. La struttura salariale classica può essere
ancora utile in quelle parti del ciclo produttivo in cui esiste una misura del
valore-lavoro. Dal punto di vista teorico, tutte queste tematiche portano alla
necessità di rivedere, ripensare e ridefinire la teoria del valore lavoro di
marxiana memoria ma non ad una sua eliminazione.
Dinanzi a questi problemi, dinanzi
all’inadeguatezza della forma salariale come indice della remunerazione del
lavoro, il pensiero neo-operaista ritiene che un RdB (che si aggiunge
alle forme salariali di remunerazione dove queste sono misurabili) è qualcosa
di strutturalmente diverso dal salario, non è un’estensione della forma salariale,
seppur complementare e sinergico (quindi non sostitutivo): qualcosa che tiene
conto del cambiamento quantitativo e qualitativo che le nuove produzioni hanno
generato.
FMP: Ma se non è possibile definire una unità
di misura a quale livello facciamo il RdB?
AF: Il ragionamento ci porta a dire che il
RdB debba essere fissato ad un livello “relativo” (non assoluto) e tale misura
relativa potrebbe derivare dalla risposta alla seguente richiesta “politica”:
«all’interno del processo di cooperazione sociale che si esplica in un
determinato territorio, e che produce un “tot” di ricchezza, stabiliamo una
quota che vada a compensare, a remunerare, la cooperazione sociale che non
viene certificata come entità lavorativa e che quindi non viene remunerata».
Quindi la distribuzione primaria del reddito va al di là del reddito da lavoro
certificato, del reddito da impresa e del reddito di proprietà, perché a queste
variabili distributive “classiche” si deve aggiungere
il reddito della cooperazione sociale oggi invisibilizzata e non riconosciuta.
E’ necessario al riguardo riprendere un
lavoro di inchiesta, che abbia come obiettivo la
definizione della
cooperazione sociale in un territorio (ad esempio il Mezzogiorno), la sua
perimetrazione e l’indagine sulla sua composizione sociale per individuare e
definire la catena del valore. Tale valore può essere misurato? E
possibile farne una stima? E’ possibile individuare chi, concretamente,
si appropria del valore di questa cooperazione sociale?
Come punto di inizio, in linea di
massima, possiamo indicare come minimo livello relativo del RdB la soglia di
povertà relativa. D’altra parte, oggi esistono forme di erogazione di reddito
gestite dallo Stato, tipo le pensioni sociali, che sono al di sotto della
soglia della povertà relativa (480 euro circa mentre la soglia della povertà
relativa è di 780 euro circa, nel 2018) e più miseri sussidi di max 350 euro a
famiglia per che vive in condizioni di povertà assoluta (e neanche per tutti
costoro), come il ReiI (reddito di Inclusione). La soglia di povertà relativa è
il livello minimo e qual è il livello massimo? Il livello massimo è definito
dall’esito del conflitto. Come nel regime salariale si fissava un livello
minimo di salario e poi su questo si organizzava la lotta per incrementarlo,
cosi lo stesso principio, mutatis mutandis, dovrebbe valere per la
definizione del livello del RdB inteso come remunerazione del valore prodotto
dalla cooperazione sociale che oggi, invece, viene espropriata e canalizzata a
vantaggio di pochi.
FMP: Ma perché una proposta di Reddito
aderente a questa impostazione teorica ha visto la sinistra e il sindacato
divisi, molto perplessi ed anche, a volte, ostili?
AF: Innanzi tutto perché la sinistra è
imbevuta ancora di un’etica lavorista, che è oggi tanto più assurda quanto più
ci troviamo in una realtà, che lungi dall’essere in un contesto di fine del
lavoro è piuttosto caratterizzata dal lavoro senza fine. Uno dei fatti
conclamati del cambiamento di paradigma produttivo è proprio l’aumento del lavoro
precario e sottopagato sino all’incremento del lavoro schiavistico gratuito e,
non casualmente, dall’aumento dell’orario di lavoro ( i due fenomeni sono
fra loro correlati), Un secondo aspetto è che sul discorso degli ammortizzatori
sociali il sindacato si legittima come istituzione sociale riconosciuta del
tutto inadeguata a rappresentare le nuove forme di lavoro. E’ il sindacato a
decidere chi va in cassa integrazione, quando, con che tipo di cassa
integrazione, e questo è un potere. Confindustria e CGIL sono sempre stati
d’accordo per non mettere mano ad una seria riforma e semplificazione di
quella giungla, distorta e iniqua, che è oggi il sistema degli ammortizzatori
sociali. Il sindacato trova una sua ragione di esistenza e di legittimità istituzionale,
il padronato può scaricare sulla società i costi dei processi di
ristrutturazioni e di licenziamento.
Intervenire dunque in modo strutturale a
favore di un welfare che permetta al lavoratore di passare da una
richiesta retriva del diritto al lavoro al diritto alla scelta del lavoro vuol
dire ridurre fortemente la sua ricattabilità. Si tratta di un potenziale
effetto sovversivo all’interno di proposta eminentemente riformista come quella
del RdB, che ha comunque degli elementi antisistemici in nuce (ma
solo se è incondizionato): elementi che trovano i custodi dell’ordine e della
disciplina dello status quo presente assolutamente contrari.
FMP: Da quanto detto credo che si capisca
perché il RdB non deve essere considerato come una forma di assistenza sociale.
Vuoi aggiungere qualcos’altro in merito?
AF: Si, perché in queste ultime settimane è
costante il ritornello che accomuna il reddito all’aiuto per le “fasce più
deboli della società”. La retorica (per di più, spesso fasulla) del Rei
(Reddito di Inclusione) ne è la conferma. E’ come dire: ti diamo un po’ di
reddito cosi non crepi visto che sei povero. Ma io sono una persona degna, sono
un salariat*, un migrant*, un operai*, un precari*o, un lavorator* autonomo,
un/a freelance, ecc., non sono un povero cristo, un pezzente che ha bisogno
della carità delle dame di San Vincenzo o della carità istituzionale. Il RdB è
la remunerazione di un’attività produttiva e in quanto tale deve essere per
forza incondizionata. Se il RdB è la remunerazione di un’attività produttiva
che ho già svolto, il RdB è nient’altro che la restituzione del maltolto, e
quindi non si deve dare nulla in cambio, perché è un diritto. Dobbiamo capire
che è possibile estendere questo discorso a tutte quelle attività semplici,
umane, quotidiane, che sono diventate produttive di plusvalore, come ad esempio
le attività legate al consumo e quelle legate alla cura e riproduzione sociale,
alla gestione dell’arte, dell’ozio e del gioco, solo per citare alcuni esempi.
Al riguardo, un ruolo sempre più importante è svolto dalla riproduzione
sociale, concetto oggi – come ci dice Cristina Morini e altre teoriche del
pensiero neo-femminista (vedi il la proposta di reddito di autodeterminazione
del movimento Non una di meno) – che va al di là del semplice
lavoro di cura ma innerva sempre più il sistema di welfare, il “buen vivir”.
Conoscenza, relazione e riproduzione sociale sono oggi i gangli della
valorizzaione del capitalismo bio-cognitivo ed è su questi gangli che occorre
immaginare pratiche non solo di resistenza ma di offensiva.
FMP: Quali credi siano i dispositivi di
lotta, i dispositivi pratici che possono essere usati affinché il RdB sia
riconosciuto come remunerazione della cooperazione sociale?
AF: Personalmente, credo che in un mondo
flessibile come il nostro le risposte non possono che essere flessibili. Non
c’è una risposta unica, ci sono tanti percorsi che devono essere attivati: c’è
il percorso dell’inchiesta, tesa a favorire un processo di soggettivazione di
liberazione, E’ necessario ribadire che ci sono una serie di attività umane che
non sono naturali, ma sono attività sulle quali c’è qualcuno che specula, che
sfrutta queste attività e ci guadagna qualcosa. Una volta si chiamava coscienza
di classe, oggi il concetto di classe è molto diverso, non so se si può dire
coscienza di moltitudine, ma non entro nel merito. Vi è anche un problema
di informazione, di soggettivazione e l’inchiesta ha il vantaggio di ampliare
la conoscenza e di contaminare.
Poi c’è il piano istituzionale e
giuridico-legislativo: laddove ci sono le condizioni per agire in tal senso,
reputo che attivarsi per una proposta di legge non significhi
automaticamente la rinuncia al conflitto, anzi penso che le due cose
dovrebbero andare di pari passo. Su questo, però, devono essere ben chiare tre
precondizioni affinché un meccanismo giuridico istituzionale possa mettersi in
moto.
La prima è che debba esistere
separazione fra assistenza e previdenza ed una riappropriazione del valore
espropriato della cooperazione sociale deve essere finanziata da un fondo che
attinga all’insieme dei profitti e delle rendite finanziarie di quell’1% che
oggi governa il globo. Ma limitiamoci, ora come esempio di politica concreta, a
pensare l’istituzione di un’adeguata politica fiscale in grado di finanziare un
fondo per il finanziamento del RdB, in grado di promuovere un “bilancio del
welfare” come componente autonoma del bilancio pubblico (seconda
precondizione). Si tratta di un esercizio di pensiero, in grado di mostrare che
ci sarebbero i mezzi per la sua attuazione.
Tale “bilancio unico di welfare”
rendiconta tutte le entrate fiscali (non previdenziali o derivanti dai
contributi sociali) che si ritengono necessarie (esito di una scelta politica)
per finanziare la misura del RdB (tra le quali, ovviamente, un adeguato
prelievo dai profitti e dalle rendite finanziarie e di proprietà intellettuale
che oggi ne sono esenti) e le uscite corrispondenti che possono assumere
aspetti diversi: reddito diretto, indiretto, eccetera. L’importante è che le voci
di entrata e le voci di uscita siano confrontabili in un unico bilancio.
Potrebbe sembrare una sciocchezza ma dietro c’è un problema politico enorme.
Oggi le forme di welfare che si basano sul sostegno diretto al reddito sono
suddivise tra vari capitoli di spesa, che fanno capo a livello nazionale a
diversi ministeri ed a livello regionale a diversi assessorati, spesso in
competizione fra loro. Ogni assessorato fa il suo bilancio di welfare in modo
autonomo e non coordinato con misure di welfare attuate da altri assessorati.
Cosi si attuano, come abbiamo sperimentato in molti casi (ad esempio nella
Regione Friuli V.G), distorsioni e interventi selettivi e iniqui. Si tratta
di un problema politico che riguarda la coordinazione, oggi inesistente,
tra le misure di welfare che ogni assessorato definisce su un proprio capitolo
autonomo di spesa, con effetti spesso paradossali. Avere un bilancio unico di
welfare è importante perché permette di capire e razionalizzare l’esistente.
Peraltro la legge 326, legge Bassanini sulla riforma del welfare locale, già
prevede una simile istituzione: si tratterebbe di applicare, ciò che la
legislazione già prevede, tra cui l’istituzione di un Osservatorio sulle
politiche di welfare e sulla distribuzione di reddito, in grado di
razionalizzare le differenti erogazioni di welfare selettivo. Lo stesso
problema, come già osservato, esiste a livello nazionale, per quanto riguarda
il sistema degli ammortizzatori sociali.
La terza precondizione riguarda le forme
di tassazione,: è necessario definire una concezione diversa della
prestazione lavorativa dal punto di vista fiscale, alla luce delle
trasformazioni avvenute. Ogni sistema fiscale si basa sulla tassazione dei
fattori produttivi. Per quanto riguarda l’imposizione diretta abbiamo l’imposta
sui alla quale si aggiunge la tassazione dei consumi e degli scambi, via
imposizione indiretta (Iva). Sono questi i due cespiti principali della
tassazione. La domanda che ci si pone è: quali sono i fattori produttivi oggi
tassati in Italia? Il lavoro salariato dipendente, cioè l’Irpef, e la
tassazione della proprietà dei mezzi di produzione, cioè delle imprese, delle
società di capitale, cioè l’Ire (recentemente ridotta dal governo Renzi). Con
il processo di precarizzazione e di flessibilizzazione e lo sviluppo del lavoro
autonomo di seconda e terza generazione, esito del processo di
frammentazione del ciclo produttivo, tali nuove forme di lavoro vengono
considerate attività di impresa, quando in realtà si tratta di pura prestazione
lavorativa etero diretta. Si tratta di riformulare la tassazione del fattore
lavoro adeguatamente a quelle che sono le nuove forme di prestazione
lavorativa. E’ assurdo che ancora oggi tutte le volte che bisogna fare un po’
di cassa si aumentano i contributi ai lavoratori autonomi, pensando che i
lavoratori autonomi siano quella figura piccolo borghese mitica degli anni ’50.
Mentre se andiamo a vedere la struttura produttiva oggi, con la taylorizzazione
del terziario, lo sviluppo del settore logistico, eccetera, vediamo che ci sono
nuovi modelli di prestazione puramente lavorativa che quindi dovrebbero avere
una tassazione omogeneizzata a quella delle prestazioni lavorative e non
dell’impresa.
Ma ciò che conta è prendere atto che i
fattori produttivi oggi fondamentali per la produzione di ricchezza non sono
solo le macchine e il lavoro salariato dipendente, ma soprattutto la conoscenza
e il territorio. Se la conoscenza è il fattore produttivo dove si genera
apprendimento, il territorio è il luogo dove la conoscenza si diffonde e si
generano economie di rete, è chi gestisce questi processi che dovrebbe essere
tassato. Ci sono, oggi, una serie di attività di accumulazione (gentrification,
diritti di proprietà intellettuali, rendita finanziaria) che potrebbero
costituire una nuova e aggiuntiva fonte di prelievo fiscale, a cui attingere
per finanziare il fondo necessario a garantire un RdB incondizionato a tutti
coloro che sono al di sotto della soglia di povertà relativa.
FMP: Per concludere, una domanda tanto cara ai
giornalisti, relativa alle risorse economiche necessarie per istituire il RdB.
Quanto è concreta tale problematica?
AF: Su questo punto, occorre una seria
riflessione. La vulgata massmediatica riduce la questione del RdB ad una
problematica meramente economico, oltreché di assistenza sociale e pongono la
questione della mancanza di risorse, soprattutto in tempi di austerity e di
riduzione della spesa pubblica, vincolata dai patti europei di stabilità.
Si tratta di un falso problema, sollevato ad arte.
In Italia esistono circa 12,5 milioni di
individui al di sotto della soglia di povertà relativa (780 euro mensili, che
aumentano a seconda della composizione del nucleo familiare, sulla base delle
tabelle Istat e Eurosta). Erano 8,5 milioni dieci anni fa.
L’Istat ha reso noto in un audizione
alla commissione bilancio del Senato, con riferimento alla situazione economica
del 2016, che le risorse necessarie per far sì che tutti coloro che si trovano
al di sotto della soglia di povertà relativa raggiungano tale livello di
reddito minimo assommano ad un ammontare stimato intorno ai 15-16 miliardi di
euro l’anno. Attualmente, lo Stato italiano elargisce in modo distorto e
iniquo, tra sussidi di disoccupazione, Aspi, Naspi e le forme rimaste di
Indennità di mobilità e cassa integrazione, una cifra pari a circa 8-9 miliardi
di euro. Se si procedesse a una riforma del sistema degli ammortizzatori
sociali che abbia come scopo l’erogazione di una unica misura di reddito minimo
incondizionato in grado di sostituire le forme attualmente esistenti di
sostegno al reddito sino alla soglia di 800 euro mensili (9600 euro l’anno), la
somma netta da sborsare (tenendo conto che alcuni sussidi di disoccupazione sono
superiori agli 800 euro mensili) è di circa 10-11 miliardi di euro l’anno. Si
tratta di una cifra del tutto sostenibile, se pensiamo che nelle ultime tre
leggi di stabilità (2016 – 2018) il governo italiano ha generosamente elargito
al solo sistema delle imprese più di 25 miliardi di euro, tra incentivi al Jobs
Act, riduzione dell’Ire (tassa sui profitti), eliminazione dell’Irap,
decontribuzioni per l’assunzione di giovani, nonché superammortamenti per gli
invstimenti in tecnologia. Ma di che cosa stiamo parlando? Ci prendiamo in
giro? Come si vede, la questione non è economica ma squisitamente di scelte
politiche (e di classe).