Maria Concetta Sala

A questo proposito, una breve osservazione: essendo legata alla lingua materna e al suo ordine simbolico, mi auguro che non si tratti di un escamotage per inoltrarsi ancora una volta nel territorio del neutro, del quale mi sono sbarazzata insieme a tante donne con la fatica del lavoro di decostruzione dell’uniformazione agli uomimi e con l’immensa gioia di un guadagno in libertà in quanto donna che fa parte dell’umanità e non di una classe sociale o di una specifica categoria, in quanto soggetto che parla a partire da sé – una pratica politica che parte dal vissuto, dall’esperienza soggettiva e si inoltra nelle relazioni molteplici coltivate nel mondo, in tensione desiderante di continua trasformazione di sé e del rapporto con il mondo nel mondo. Comunque sia, ho scoperto che esiste la pratica di Teiko Judo, e non mi dispiace associare la Resistenza Teiko alla Via della cedevolezza Judo.
È sufficiente scorrere l’indice della rivista «Teiko» per coglierne il senso che il collettivo redazionale vuole dare alla propia ricerca: «mettere in campo anche nuovi strumenti di mobilitazione politica, evitando di rinchiudersi in piccole patrie locali isolate, per trovare altre e nuove strade, rimettendo in circolazione idee e pratiche politiche che provino a catturare il possibile che c’è oggi e a fargli spazio» e «tracciare nuove coordinate politiche per una militanza da reinventare» e «connettere, come indica il sottotitolo, soggetti, movimenti, conflitti». Finalmente si torna a pensare, percepire, immaginare sentieri da percorrere non dall’alto dell’astrazione ma nelle pratiche e mediante le pratiche con lo sguardo fisso sui mutamenti concreti che ci investono e di cui siamo tutte/i parte in gioco!
Una rivista in definitiva di movimento nel fervore dei movimenti che ci sono: la sezione monografica tratta il tema dell’organizzazione politica approfondendolo a diverse latitudini, dal contesto italiano (il collettivo ex-GKN) a quello dell’ America Latina (movimenti femministi) e degli Stati Uniti (il movimento nero), dalla Palestina di Ilan Pappé alla sommossa sociale del Cile, dalle mobilitazioni per il clima alle prospettive femministe contro la guerra in Colombia e al femminismo relazionale della Mensa dei bambini proletari di Napoli, dalla France insoumise alla difesa di autonomie quali la zapatista e quella del confederalismo democratico in Rojava, individuando «i limiti e le potenzialità delle pratiche e delle esperienze».
Molto densa la seconda sezione, Seminari, per le questioni trattate, dalla proposta di Rompere i blocchi all’elaborazione del Partire da sé: il politico della cura (con cui non concordo) fino all’interrogativo Crisi del diritto, ritorno dello Stato, tramonto dell’Europa? Tantissimi scritti dunque, che da un lato danno conto del variegato fluire di movimenti, lotte e pensieri e del proposito di trasformare il linguaggio politico e, dall’altro lato, spronano al confronto e al dibattito, di cui c’è una vera e propria necessità.
In questa concisa segnalazione, data la vastità dei temi trattati nella rivista, non posso che evidenziare gli spunti di riflessione per me nuovi che ho colto in particolare nelle due sezioni finali. L’ultima, la quarta, Materiali, contiene suggerimenti oltremodo notevoli: in apertura un articolo di Davide Gallo Lassere riferisce in modo puntuale del saggio If We Burns (Se noi bruciamo, dieci anni di rivolte senza rivoluzione, Einaudi, 2024) del giornalista americano Vincent Bevis, un resoconto storico dei movimenti in vari paesi del mondo tra 2010 e 2020 scegliendo il Sud del mondo come punto di vista privilegiato; segue l’interessante recensione di Ludovica Fales del film documentario È a questo punto che nasce il bisogno di fare storia della regista austriaca Constance Ruhm, che attribuisce all’archivio femminista una funzione lontana da quella tradizionale giacché sceglie come punto di partenza il pensiero di Carla Lonzi, precisamente l’indagine sulle Preziose; Lidia G. Marino dal canto suo offre una disamina del libro La fabbrica della strategia di Antonio Negri, una serie di lezioni tenute all’Università di Padova tra il 1972 e il 1973; chiude la sezione Maria Teresa Annarumma che si sofferma sulla mostra Après la fin. Cartes pour un autre avenir curata da Manuel Borja-Villel e tenutasi presso il Centro Pompidou di Metz offrendo come chiavi di lettura la nozione di relazione e arcipelago del poeta e scrittore originario della Martinica Édouard Glissant e quella di frontiera e appartenenza della scrittrice chicana Gloria Anzaldua. Si tratta di materiali che a mio parere invitano all’approfondimento.
Le sottosezioni – Inchieste, Lotte, Dialoghi – della penultima sezione, Rubriche, consentono di penetrare in un quartiere di Bologna, di conoscere la storia del percorso di lotta in un’azienda modenese di pizze surgelate, di prestare attenzione a una conversazione intorno a una proposta politica secondo una prospettiva ecologica. Si tratta di approcci che hanno il pregio di accostare senza alcuna supponenza le realtà indagate e di suscitare diversi interrogativi su possibili vie d’uscita nell’apparente deserto.
Le monde ou rien di Federico Antibo si propone di «de-universalizzare la figura del “maranza”», provando a mettere a fuoco «sogni e contraddizioni di persone concrete» e in effetti i frammenti delle interviste, collettive e individuali ai e alle “regaz” sospesi tra le maglie del razzismo istituzionale che abitano le corti popolari della Bolognina – un mondo a margine, un territorio ibrido da leggere come un ecosistema meticcio – non solo svelano la rabbia del loro insorgere nei confronti delle «gabbie da spezzare», ma altresì lo slancio dei sogni a cui aspirano, «puntando alle stelle». La vicenda dell’Italpizza e della lotta condotta soprattutto da donne immigrate che viene restituita nei dettagli da Edera lascia aperto un interrogativo che colpisce nel segno: si può «creare iniziativa politica in grado di non cadere nella difesa categoriale-corporativa, definendo processi aperti che abbiano però capacità di durata, di generare convergenze, lavorare sulla costruzione simbolica…»? Grazie al dialogo condotto da Niccolò Cuppini e Sandro Mezzadra con Rodrigo Nunes, professore di teoria politica presso l’università di Essex e la Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, emerge la proposta politica avanzata nel libro di quest’ultimo Né verticale né orizzontale. Una teoria dell’organizzazione politica (Edizioni Alegre, 2025). Su sollecitazione dei suoi interlocutori Nunes chiarisce la dimensione della sua ricerca politica:
«”Né orizzontale né verticale” non vuol dire “prendiamo ciò che c’è di buono da ciascun lato”, ma capire orizzontalità e verticalità non come modelli astratti da seguire o parti in una disputa in cui sarebbe necessario prendere una posizione dogmatica, ma come tendenze delle dinamiche organizzative che dobbiamo apprendere a utilizzare e gestire secondo le necessità dei processi politici stessi. Questo pensiero dovrebbe funzionare contemporaneamente su tre livelli diversi. C’è quello etico, diciamo una dimensione individuale, che dovrebbe permettere di pensare in termini più flessibili, di adottare un atteggiamento più collaborativo che competitivo […]. L’altro livello, quello delle organizzazioni prese individualmente, che vanno pensate in termini più flessibili, scegliendole non semplicemente perché corrispondono all’identità a cui si crede di dover corrispondere ma perché hanno senso nel contesto in cui stanno agendo. La terza dimensione è quella dell’ecologia nel suo insieme, che ci impone una logica della complementarità, della collaborazione piuttosto che competizione, della strategia aperta e non-dogmatica, della flessibilità tattica, della diversificazione funzionale, e anche una doppia fedeltà: ai nostri singoli progetti ed organizzazioni e, allo stesso tempo, all’insieme dell’ecologia».
Nunes chiarisce anche il problematico rapporto fra globale e locale a partire dal cambiamento climatico e individua la necessità di pensare a forme di azione simultanee su diverse scale, tenendo presente che si agisce sempre a livello locale e che occorre non dimenticare che il termine “locale” «varia secondo la scala a cui ci riferiamo come “globale”: la Terra è locale per rapporto al Sistema Solare, che a sua volta è locale in rapporto alla Via Lattea… ». Non ho letto il libro di Nunes ma la proposta di «adottare una visione ecologica dell’ecosistema di organizzazioni esistenti», non trascurando il dato che ciascuna/o di noi è parte dell’ecologia, sarebbe sicuramente da approfondire e comprendere anche alla luce delle considerazioni e delle riflessioni della filosofa della scienza e scienziata (chimica e fisica) belga Isabelle Stengers citata di sfuggita, dell’approccio empatico all’ambientalismo suggerito ad esempio dalla filosofa Laura Boella e delle strade non convenzionali per esprimere il legame con la natura delineate dalla filosofa Chiara Zamboni.
In tempi di nazionalismo che «arruola a suo sostegno la “civiltà” riconducendo a quest’ultima (per legittimarle e ristabilirle a fronte di potenti movimenti di rifiuto) le gerarchie sociali, quelle di genere e di razza in particolare», in tempi di «riorganizzazione dell’economia in funzione della guerra, con effetti che rimodellano lo sviluppo dei settori trainanti, a partire da quelli delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale, nonché delle attività estrattive che queste richiedono (terre rare, “minerali critici”» e in tempi quindi di «una transizione dagli esiti incerti» – come scrive Sandro Mezzadra – ritengo che l’intento di «Teiko» di mettere al centro la costruzione di una cartografia del presente e darne un’interpretazione politica sia un buon primo passo per sormontare lo stallo ingombrante che induce a credere di vivere in un deserto. Ritengo anche che in tempi bui non sia da sottovalutare l’eredità delle filosofe del Novecento quali per esempio Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano, che sovvertono le consuete categorie politiche e non tralasciano di leggere ciascuna in modo originale la condizione umana, letture che dovrebbero stare a cuore a quante/i desiderano inventare nuove traiettorie e forme politiche.
Chiudo con un omaggio a Lucia Mastrodomenico (ricordata da Maria Teresa Annarumma a proposito della Mensa dei bambini proletari di Napoli), perché dopo questo viaggio in lungo e in largo per il mondo con gli scritti di «Teiko» desidero trasmettere la mia gratitudine con il calore ravvivato dalle sue parole:
«Chi ci può aiutare ad avere amore per la realtà cosi com’è, costruendo per essa vaccini contro il rancore e la violenza? L’amore non si merita, si riceve e si dà per quelli/e che sono e siamo, solo riconoscendolo dentro di noi si dà lo spazio della sua azione. Strette, in cose, progetti, lavoro, obblighi veri ed inventati abbiamo poca sensibilità per le cose essenziali. Credo ci sia la possibilità di allontanarsi da riferimenti che crediamo sicuri e gestibili, la realtà non è così ristretta, a guardarla bene è più grande, possono accadere cose che non ci aspettiamo… » (La teoria non è un ombrello.Dieci anni di AdATeoriaFemminista 2006-2016, a cura di S. Tarantino, T. Dini, N. Nappo, L. Cascella, Orthotes, 2017, p. 68).