Oltre la Trappola della Rappresentanza
\ ci troviamo di fronte al problema che la forza collettiva, essenzialmente operaia, sulla quale si basavano quei movimenti è stata dispersa
\ potremmo dire che oggi è tutto da ricostruire… ci sono molti esperimenti interessanti, ma hanno enormi difficoltà a disegnare una forza soggettiva e una organizzativa ben definita
\ l’impossibilità di fare un passo in avanti si trasforma in un’alternativa del tipo: fedeltà impotente o prelazione dei partiti che propongono la trasformazione del movimento in forma elettorale
Jacques
Rancière è, tra gli intellettuali francesi contemporanei, uno dei più assidui
nel prendere la parola in pubblico per analizzare le dinamiche sociali e
politiche del nostro tempo. Già allievo di Louis Althusser, dopo aver
partecipato alla pubblicazione di Leggere il Capitale ha rotto
con l’ortodossia strutturalista e, a partire dalla pubblicazione del suo Le
Maître ignorant ha orientato la sua ricerca su due versanti: da una
parte – con volumi quali Au Bords du Politique, La Haine pour la
démocratie, Le Partage du Sensible e La Mésentente –
ha dato vita a una corposa critica libertaria dell’ordine dominante che,
mettendo in tensione ricerca estetica e filosofia politica, ruota attorno alla
valorizzazione della democrazia come irruzione di un nuovo partage del
sensibile sulla scena dell’ordine sociale; e dall’altra, si è dedicato al
recupero della memoria dell’emancipazione operaia, con testi fondamentali
quali La Nuit des prolétaires o Le Philosophe Plébéien.
Lo abbiamo intervistato in occasione della sua partecipazione alla Biennale
Democrazia di Torino dove, il 28 marzo, terrà una lezione nell’Aula
Magna Cavallerizza Reale, dal titolo Oltre l’odio, per la democrazia
Nel suo
libro L’odio per la democrazia, lei ha proposto una originale
genealogia dell’odio che i governanti hanno sempre rivolto contro il «governo
della moltitudine». Allo stesso tempo analizzava il passaggio a forme di govrenance che
mescolavano neoliberismo economico e anti-liberalismo politico. Può
ripercorrere con noi i passaggi fondamentali del suo ragionamento?
In quel
libro ho messo in questione l’equivoco contenuto nella nozione di
neo-liberalismo. Con questo termine s’intende spesso l’idea di un trionfo del
libero mercato che si accompagnerebbe all’indebolimento degli Stati e dei loro
poteri: in sintesi, una forma di regolamentazione dell’ordine sociale che non
passerebbe più da obblighi e repressione, ma dalla coincidenza con i desideri
dei soggetti – tanto sul piano dell’iniziativa e della creatività nel lavoro
quanto nelle forme sempre più raffinate del consumo. Ora mi sembra invece che
la legge del mercato capitalista si sia imposta in modo del tutto autoritario
attraverso un sistema di vincoli per il quale gli Stati e le organizzazioni
internazionali hanno sottomesso tutte le forme della vita alle esigenze del
profitto. Gli Stati sono davvero diventati, come anticipato da Marx, dei
comitati d’affari del Capitale. Gli Stati oggi impongono delle soluzioni ai
problemi, giustificate da saperi specialistici che consideriamo inaccessibili
ai cittadini. L’idea di un «potere di tutti» incarnato dal sistema della
rappresentanza mi sembra dunque sempre più ridicola. Questa situazione allora
ci obbliga a richiamare alla memoria lo scarto che sempre esiste tra democrazia
e rappresentanza. Il sistema della rappresentanza politica, nella sua
definizione originaria, non coincide con il governo del popolo mediato dai suoi
rappresentanti, ma con il governo esercitato “sul” popolo da coloro che, si
pensa, rappresentano gli interessi generali della società. La democrazia,
invece, è il potere esercitato dagli uguali in quanto uguali. Questo tipo di
potere si esercita attraverso delle istituzioni e delle forme di azione che
sono autonome dalle istituzioni statuali e dagli appuntamenti elettorali.
Nel saggio Il
Disaccordo lei sottolinea la centralità del dissenso e della
differenza come motori fondamentali della costruzione politica. Se l’ordine del
discorso dominante pretende di attribuire ai governi un potere di pacificazione
generale della società, enfatizzando il rapporto tra espressione del consenso e
meccanismi elettorali, mi pare che la sua ricerca indichi piuttosto che fare
politica significa lasciare emergere le soggettività sociali e le loro forme di
azione. A quali condizioni, oggi, una tale emersione è possibile?
C’è politica
fintanto che emergono l’idea e la pratica di un potere che sia altra cosa
dall’espressione della superiorità di un gruppo – i ricchi, i colti, i nobili o
altro. Ciò suppone, di fatto, l’emergere di un soggetto che non sia già dato
come gruppo sociale ma che si costruisca attraverso le sue azioni: il popolo
non è la popolazione, i proletari non sono gli operai, eccetera. Detto ciò, i
soggetti politici si sono spesso agganciati a dei gruppi sociali. In ogni caso
così è stato per il movimento operaio, il cui nome coniugava in modo equivoco
la forza soggettiva di una rete di azioni e istituzioni con la forza di un
gruppo sociale numeroso che occupava il cuore della produzione. Con il
trasferimento delle fabbriche ai margini del mondo, questa identificazione non
è più possibile. Abbiamo oggi dei movimenti che si definiscono esclusivamente
attraverso le proprie pratiche, come per esempio quando si occupano delle
piazze e vi si installano tende e assemblee. Ma l’occupazione delle piazze non
è l’occupazione da parte dei produttori dei luoghi della produzione. Il potere
capitalistico non è più concentrato in fortezze da assaltare ma presente su
tutta la superficie della nostra società. Ciò significa, certo, che può essere
attaccato globalmente da qualsiasi punto – lottando contro il progetto di
costruzione di un aeroporto, ad esempio – ma ciò significa anche che il
rapporto tra il particolare e il globale non può più essere simbolizzato nello
stesso modo che ieri: più che la figura di una soggettività sociale capace di
creare attorno a sé una dinamica di allargamento, oggi il dissenso rischia di
trovarsi prigioniero dei suoi stessi luoghi e delle sue stesse contraddizioni
interne.
Lei ha
criticato la postura teorica di intellettuali come Alain Badiou,
Slavoj Žižek o Peter Sloterdijk. Il radicalismo di questi
autori, lei dice, è il correlato di una visione heideggeriana del mondo
contemporaneo, sistematicamente descritto come spazio totalizzato dalla tecnica
e dal mercato. Si tratta secondo lei di una «descrizione elementare del
nichilismo». In cosa questo tipo di analisi impediscono lo sviluppo di una
prospettiva critica?
Ho provato a
sostenere due cose diverse tra loro. Innanzitutto ho voluto sottolineare come,
a volte, pensatori si dicono fedeli a Marx, ne capovolgano di fatto la logica:
Marx vedeva nello sviluppo capitalistico la formazione delle condizioni che
avrebbero permesso l’avvento del comunismo. Mentre al contrario, in questi
autori, il comunismo appare come una specie di uscita eroica dalla palude nella
quale il capitalismo ci sta lentamente sprofondando. La visione marxista è
stata quindi evidentemente capovolta dal riferimento al pensiero heideggeriano
della salvezza sull’orlo dell’abisso. Ma ciò significa anche che questi autori
squalificano, nel nome del loro comunismo futuro, tutti i movimenti reali che
si oppongono all’impero dello Stato e del Capitale. Identificando capitalismo e
democrazia, poi, si ritrovano nella posizione di quei pensatori reazionari per
i quali la democrazia è il regno del mercato e le forme di lotta contro
l’impero capitalista sono esse stesse equiparabili al comportamento dei
consumatori formati dal regno del mercato. Così per esempio Žižek si è
trovato a salutare benevolmente la «lucidità» con la quale Sloterdijk ha
denunciato la «kleptocrazia» sindacale o con la quale Finkielkraut ha sostenuto
che la rivolta dei giovani delle banlieues era l’espressione della frustrazione
di consumatori avidi delle merci che vedevano alla televisione. Nel mio libro
Lo Spettatore Emancipato ho studiato il modo in cui i temi della critica del
feticismo, della società dei consumi e della società dello Spettacolo sono
stati recuperati dal pensiero dominante e sono diventati dei temi reazionari
che squalificano sistematicamente i movimenti di lotta.
Lei ha molto
insistito sull’importanza di inventare nuove istituzioni politiche: una
«immaginazione politica», che tuttavia a suo avviso «manca crudelmente oggi».
La pensa ancora così o possiamo dire che si incominciano a intravvedere
esperimenti che vanno in questa direzione?
In generale
non do mai consigli ai movimenti. Tento più semplicemente di individuare gli
elementi che possono avere un valore di rottura rispetto a ciò che è ordinario
tanto nel dominio, quanto nella protesta o ad ogni presupposto tipico delle
visioni avanguardiste. In tal senso resto persuaso che la trasformazione non
può che venire da quei movimenti che riescono a salvaguardare la loro autonomia
rispetto all’agenda del potere dello Stato: ovvero da quei movimenti che
riescono a inscriversi nella lunga durata senza prendere la forma né del
partito elettorale, né del partito di avanguardia. Ora è chiaro che c’è
qualcosa di paralizzante dire questo. Tuttavia resto persuaso del fatto che
l’autonomia presuppone lo sviluppo di forme alternative in tutti i settori
della vita sociale: produzione, consumo, informazione, educazione, salute etc.
Si tratta di quello che è stato teorizzato nel movimento greco sotto il nome di
«spazi sociali liberi». Sappiamo tutti quanto forme di questo tipo siano state
importanti per i movimenti comunisti e anarchici del passato. Qui di nuovo, ci
troviamo di fronte al problema che la forza collettiva, essenzialmente operaia,
sulla quale si basavano quei movimenti è stata dispersa. In qualche modo
potremmo dire che oggi è tutto da ricostruire, a partire da iniziative di
collettivi che sono semplicemente gruppi di individui. Si tratta di un compito
gigantesco. Quindi direi così: sì, ci sono molti esperimenti interessanti, ma
hanno enormi difficoltà a disegnare una forza soggettiva e una organizzativa
ben definita. Viene sempre un momento in cui l’impossibilità di fare un passo
in avanti si trasforma in un’alternativa del tipo: fedeltà impotente o
prelazione dei partiti che propongono la trasformazione del movimento in forma
elettorale come Syriza, Podemos o La France Insoumise.
A proposito
del movimento dei Gilets Jaunes lei ha parlato di una formidabile de-sincronizzazione del
tempo della politica. Dopo quasi cinque mesi di mobilitazioni, può darci la sua
lettura del movimento dei Gilets Jaunes?
La mobilitazione dei Gilets Jaunes ha seguito una
logica che mi pare assai significativa e comune a molte mobilitazioni recenti:
a partire da una rivendicazione limitata e negoziabile, il movimento ha
instaurato una temporalità specifica che da una parte segnala una distanza
rispetto al corso normale delle cose e dall’altra costituisce un acceleratore
dell’azione e del pensiero. Si produce allora uno sviluppo autonomo che supera
radicalmente l’obiettivo iniziale della lotta. Mi pare insomma che nei
Ronds-Points occupati dai Gilets Jaunes sia successa esattamente la stessa cosa
che era successa nelle piazze occupate dai grandi movimenti democratici degli
ultimi dieci anni: in uno spazio di lotta che è allo stesso tempo uno spazio di
vita e di riflessione condivisa, la protesta contro una tassa sulla benzina
diventa un movimento globale contro l’ineguaglianza fiscale, e poi contro
l’ineguaglianza dell’intero ordine sociale. A partire da quel momento gli attivisti
e lo Stato non vivevano più nello stesso tempo. Il potere statale ha risposto
sgomberando con la forza i Ronds-Points. Temo che perdendo questi luoghi di
riflessione e di azione autonoma, il movimento abbia perso la sua dinamica
iniziale. L’azione dei Gilets Jaunes tende oggi a concentrarsi sulle
manifestazioni parigine del sabato e queste a trasformarsi in scontri
programmati tra forze dell’ordine e specialisti della manifestazione violenta.
Questi appuntamenti programmati fanno perdere al movimento la propria autonoma
temporalità, ma è solo lì che si è esercitato il potere di invenzione
democratica collettiva.