-giorgio
cremaschi-
DOPO
TRENTA ANNI DI ACCORDI RAGGIUNTO L’OBIETTIVO STORICO CGIL/CISL/UIL/CONFINDUSTRIA
\il salario
costituzionale che definiva la dignità del lavoro indipendentemente dal mercato
non esiste più e con esso finisce pure il diritto alla contrattazione \l’intesa interconfederale programma la riduzione dei
salari reali nei contratti nazionali e lega rigidamente quelli aziendali ai
massimi profitti dell’impresa \milioni di lavoratori
costretti alla perenne precarizzazione e subordinati allo sfruttamento
schiavistico non vedranno mai la “retribuzione sufficiente per un’esistenza
libera e dignitosa”
\prospettiva di vita non meno drammatica è per le nuove generazioni che la scuola prepara con l’infamia dell’alternanza scuola lavoro quale ideologia propedeutica al lavoro gratuito
\prospettiva di vita non meno drammatica è per le nuove generazioni che la scuola prepara con l’infamia dell’alternanza scuola lavoro quale ideologia propedeutica al lavoro gratuito
L’articolo
36 della Costituzione recita: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente
ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Può
sembrare un concetto scontato, ma non lo è. La nostra Costituzione afferma che
la retribuzione secondo quantità e qualità del lavoro-produttività e merito
avviene solo DOPO che al lavoratore sia stato garantito il salario adeguato a
una vita libera e dignitosa. Questo vuol dire quel: “in ogni caso”. Dunque la
retribuzione che fa vivere dignitosamente non dovrebbe mai essere messa in
discussione, merito e produttività dovrebbero essere premiati con un di più. Se
un lavoratore non fa il suo dovere ci potrebbero essere provvedimenti
disciplinari, ma la sua paga non dovrebbe diventare un cottimo, né tanto meno
un bonus. La retribuzione costituzionale non dovrebbe essere compressa nel nome
del mercato e del profitto.
Abbiamo
usato il condizionale perché, come tanti altri articoli della prima parte della
nostra Carta, anche l’articolo 36 oggi è lettera morta. Con la precarizzazione,
con lo sfruttamento schiavistico e con il lavoro gratis, a cui oggi prepara la
scuola con l’infamia dell’alternanza scuola lavoro, ci sono milioni di
lavoratrici e lavoratori che la “retribuzione sufficiente per un’esistenza
libera e dignitosa” non la vedono neanche da lontano.
L’articolo
36 è stato spesso evocato in tribunale nelle cause dei lavoratori sottopagati,
per affermare il loro diritto ad una giusta retribuzione. E non essendoci in
Italia un salario minimo di legge, la magistratura normalmente ha considerato
come riferimento salariale quanto stabilito dai contratti nazionali. Quindi il
contratto nazionale nel nostro sistema ha assunto il valore di livello minimo
che deve essere garantito, a cui possono e debbono aspirare tutti i lavoratori.
Il salario costituzionale nel nostro sistema è quello dei contratti nazionali.
Cosa
avviene però se gli stessi contratti programmano la riduzione del potere
d’acquisto dei salari? Succede che il salario abbandona la Costituzione e che
la retribuzione lì prevista diventa irraggiungibile per la grande maggioranza
del lavoro dipendente, anche per quello assunto a tempo indeterminato.
Pochi
giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già
stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi
quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i
dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo
il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento
euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che
ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50
netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali
eccessivi. Quindi per lo stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi.
Per
i privati va meglio? Neanche per sogno.
L’accordo
sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di
Cgil Cisl Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione
salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’
intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea
successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla
Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti
salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera
definitivo a quest’intesa.
L’accordo
interconfederale programma la riduzione dei salari reali nei contratti
nazionali e lega rigidamente quelli aziendali ai massimi profitti dell’impresa.
A livello nazionale i soli aumenti previsti saranno quelli che rivalutano i
minimi tabellari, che sono solo una parte della retribuzione effettiva di un
lavoratore. Si dovrà calcolare quanto cresce il costo della vita, sottrarre da
esso i costi energetici e dei beni importati – l’aumento della bolletta
elettrica, del gas, della benzina che non si recupera in busta paga – e infine
si arriverà a definire quanto sarà l’aumento reale in busta paga. Con questo
sistema i metalmeccanici hanno ricevuto l’incremento favoloso di 3 euro
mensili.
Si
crea così più spazio per la contrattazione a livello aziendale, come dicono i
firmatari dell’accordo e i soliti esperti liberisti e confindustriali? Certo
che no. I lavoratori non possono rivolgersi alla loro azienda dicendole: visto
che il contratto nazionale non ci ha dato i soldi che ci spettano, ora ce li
dai tu. Eh no, risponderà l’azienda, l’accordo interconfederale stabilisce che
ogni centesimo in più debba essere guadagnato con lavoro in più e legato
all’andamento dei profitti aziendali. Per essere chiari, se l’azienda va
benissimo ai lavoratori tocca qualcosa, che però può essere loro tolto se la
situazione cambia. Il salario aziendale diventata totalmente variabile, verso
l’alto ma anche verso il basso. Il salario fisso vale sempre meno e quello che
dovrebbe integrarlo è sempre più aleatorio: oggi c’è, domani no. Insomma i
lavoratori vengono trattati come i manager, ma con retribuzioni mille volte
inferiori.
In
sintesi con questo sistema contrattuale il salario reale può solo calare. Del
resto lo stesso concetto di aumento della retribuzione viene bandito dalle
regole del gioco. I sindacati non possono rivendicare più soldi solo perché i
lavoratori non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Guai, questo
significherebbe alimentare la vecchia lotta di classe e rifiutare la moderna
collaborazione con l’impresa!
Ci
sono voluti quasi trenta anni di accordi, dal taglio della scala mobile negli
anni ’80, alle varie intese degli anni ’90 e dell’ultimo decennio; alla fine
l’obiettivo storico delle classi imprenditoriali è stato raggiunto: il salario
costituzionale, quello che definisce la dignità del lavoro indipendentemente
dal mercato, non esiste più. E con esso non esiste neppure più la
contrattazione. I sindacati che accettano questo modello non possono e non
devono chiedere più nulla, devono solo applicare delle formule rinunciando a
fare il loro mestiere.
I
metalmeccanici tedeschi hanno raggiunto le 28 ore settimanali assieme
all’aumento dei salari. L’accordo sul sistema contrattuale italiano non solo
impedisce che simili risultati possano essere mai acquisiti, ma vieta persino
che possano essere richiesti. La piattaforma della IgMetall, nel sistema
sottoscritto da Camusso e compagnia, sarebbe semplicemente fuorilegge. Neppure
i vertici della UE avrebbero saputo imporre ai lavoratori italiani un sistema
così capace di farli lavorare sempre di più e guadagnare sempre di meno.
Cgil
Cisl Uil e Confindustria cancellano la possibilità per i lavoratori di ottenere
contratti degni di questo nome, ma si mettono definitivamente assieme in
affari. Fondi pensione, sanità privata, formazione e traffici vari sul lavoro,
di questo si occuperanno davvero.
Alla
firma dell’intesa i leader sindacali e confindustriali si sono abbracciati e
hanno fatto sapere alla politica che essa non deve occuparsi di loro, che i
lavoratori sono cosa loro. Pensano così di essersi salvati dal crollo del PD,
partito che, pur con finte polemiche, hanno sempre sostenuto. Hanno organizzato
un sindacato unico di regime in cui padroni e vertici sindacali operano
affratellati in una sola corporazione. A sua volta lo stato, con le parole
della Corte dei Conti, ha teorizzato la riduzione dei salari dei propri
dipendenti. Il fiscal compact e il pareggio di bilancio obbligatorio
costituzionalmente si fanno contratto.
È
il tallone di ferro che schiaccia tutto il mondo del lavoro, un regime di
austerità e di impoverimento permanente che si afferma con la complicità di
Cgil Cisl Uil.
La
ricostruzione del valore costituzionale del lavoro e del suo salario passa
attraverso la rottura del sistema di relazioni sindacali che si è affermato in
questo decenni. E ovviamente questa rottura dovrà anche riguardare i grandi
sindacati confederali, che per salvare sé stessi hanno abbandonato i lavoratori
al mercato ed ai tagli della spesa pubblica.