giovedì 11 febbraio 2021

L’IMPOSSIBILE SOVRANITÀ

 -Salvo Vaccaro-

    Ovvero lo spettro ideologico dell’identità 

la sovranità per come l
’abbiamo ereditata, al tempo stesso conquistata o subita, diviene oggi non solamente un concetto vuoto, ma anche una pratica impossibile nell’era delle interdipendenze di segno climatico, ambientale, scientifico, economico (monetario, commerciale, finanziario, industriale, agricolo, etc.), ma anche politico, umanitario e militare


la globalizzazione ha disegnato diverse mappe divisorie del pianeta post-imperiale, estendendo su di esse un dominio il cui controllo è esercitato a distanza e non più attraverso la conquista materiale di popoli e territori ai quali imporre le proprie leggi e le proprie usanze   

A dispetto degli usi recenti che ne estendono il significato sino a coprire tanti campi del dicibile, il concetto di sovranità in filosofia politica è molto netto e preciso, indicando il punto apicale di una vettorialità gerarchica che culmina nel superanus, ossia in qualcuno che non ha nessuno al di sopra di lui, quindi non dipende da alcun altro né soggiace ad altrui volere. Si tratta di una nozione coniata in Europa nel XVI secolo, in simbiosi con la nascita dello stato nazionale, che si pone come erede politico tanto della condizione feudale quanto della teologia politica del millennio cristiano, grosso modo da Carlo Magno – Imperatore del Sacro Romano Impero che riceve la corona, inginocchiato al suo cospetto in attitudine devota e deferente, dal papa Leone III la notte di Natale dell’800 d. C. a S. Pietro in Roma – a Napoleone – che il 2 dicembre 1804, a Notre-Dame di Paris, si auto-incorona fiero e superbo Imperatore dei Francesi non prima di aver “convocato” da Roma con “maniere forti” il papa Pio VII, per farlo assistere all’evento, spettatore riluttante, da una tribuna laterale.  Sovrano, infatti, è proprio colui qui nulli subest, superiorem non recognoscens, a segnare il sommo culmine dell’autorità politica in terra, una terra infine emancipata dalla soggezione teologico-politica. Non è un caso che, nell’antichità, i re non vengono chiamati sovrani, proprio perché al di sopra di loro stava ora il destino, il fato, ora gli dei, poi, dopo Costantino, il dio cristiano unico e onnipotente il cui vicario mondano riconosceva de iure un titolo di autorità politica conquistato de facto nell’unico modo in cui si conquistava il potere, con il conflitto politico per eccellenza, ossia la guerra di conquista, il sangue versato, la violenza legittimata a posteriori appunto dal papa, unico depositario dell’autorità superiore al re di turno. La legittimazione era dunque espropriata alla politica e affidata ad una autorità ad essa esterna, da cui gli infiniti conflitti tra papato e impero che hanno insanguinato il suolo europeo per secoli, impedendo in assenza di date condizioni l’emergenza di un vero e proprio sovrano.  Parallelamente, nel nostro medioevo possiamo riscontrare agevolmente l’acuta frammentazione del potere politico in una serie di posizioni di autorità, ognuna nella propria sfera di pertinenza e competenza, che coesisteva più o meno conflittualmente con altre posizioni di autorità, per cui a tanti sovrani in piccolo o in grande non poteva corrispondere alcun concetto di sovranità nel senso sopra definito. Proprio perché l’affermazione della sovranità dal XVI secolo in poi, chiudendo un’epoca in cui il gioco politico era instabile e quindi lasciava margini di spazio per autonomie pre-politiche (corporazioni, università, arti e mestieri, città rispetto a signorie, etc.) in termini di libertà dal governante di turno, segna la cifra dell’unità politica in via esclusiva rappresentata dalla nascita dello stato nazionale, nel quale il sovrano esprime il controllo de facto e de iure della popolazione in un territorio delimitato da confini sicuri e certi, godendo della disponibilità assoluta del potere legislativo e delle risorse simboliche, umane e materiali. Ecco il senso dello stato nazionale che circoscrive la libertà esperibile rinnovando su basi nuove un dominio sul “patto” governanti-governati con una rinnovata narrazione di legittimazione inventata, sulla scia di Bodin, da Hobbes prima e da Rousseau successivamente. A tal proposito, è significativa proprio l’effigie del Leviatano apparso sulla copertina della I edizione del 1651, nella quale il corpo del Sovrano in pompa magna incoronato, con la spada in pugno nella mano destra a simboleggiare la forza delle armi di cui è detentore monopolista, e il simbolo del potere pastorale nella sinistra a simboleggiare il pieno controllo delegato delle anime della popolazione, a ben osservare si compone delle figure del popolo che egli incorpora e rap-presenta sulla scena, infatti la città su cui egli si impone appare vuota, essendo stata la popolazione appunto ingurgitata e digerita al fine di addomesticarne la presenza potenzialmente sovversiva e indocile: si ricordi l’irruzione del demos nella polis ateniese che rovesciò incredibilmente per quei tempi la tradizionale epopea dei regimi monarchici e aristocratici, portando al potere costituzionale un popolo privo di sangue blu. Al di sopra del Leviatano, si staglia sovrimpressa una significativa scritta biblica (Giobbe 41.24, il libro da cui Hobbes ricava il mostro marino): Non est potestas super terram quae comparetur ei, che così prosegue: qui factus est ut nullum timeret).  Il “contratto sociale” rilega in maniera ferrea il primato dell’obbedienza alla legge emanata dal sovrano, una volta stabilizzato il proprio dominio su territorio, confini e popolazione; il contratto, è bene precisare, non stipula una relazione di reciprocità sia pure asimmetrica, tra sovrano e sudditi (poi divenuti cittadini), bensì legittima l’obbedienza al sovrano sulla base di una spoliticizzazione dello spazio societario nel segno della fuoriuscita dalla vivacità feudale delle autonomie singolari; sulla base di una riduzione di complessità e frammentarietà del potere politico che adesso colma il (già ampio) divario governante-governato senza intermediazioni politiche, bensì solo attraverso l’apparato statale dell’amministrazione delle cose (non delle persone, esattamente come avrebbe voluto Marx senza rendersi conto che ciò era già avvenuto), quella che oggi potremmo chiamare precisamente con il lemma foucaultiano di governamentalità (già Dante parlava di gubernanza, in inglese odierno governance); sulla base di una esclusività del potere politico che, ponendo confini certi e sicuri, disloca il potere della violenza legalmente esercitabile all’interno (polizia) all’esterno (guerra), ponendo le basi per quel giano bifronte che fu lo stato nazionale imperiale, con l’apparente contraddizione per cui, mano a mano che i conflitti interni di divisione del potere politico portarono alla costituzionalizzazione dell’autorità nella legge e non più nel singolo capo di stato, una parlamentarizzazione che sfociò nella sovranità popolare, tale liberalizzazione fu più che compensata dal dominio imperiale in cui quelle libertà conquistate entro i confini nazionali non valevano affatto per le popolazioni sottomesse a ferro e fuoco, per non dire genocidate a partire dal XVI secolo in poi.  Il sovrano senza limiti (destinali, divini, teologici) viene ridimensionato e (letteralmente) scorporato nel processo di astrazione del potere politico che condurrà nell’arco di un paio di secoli all’eclissi della sovranità in nome del pluralismo democratico, giusto mentre l’illimitatezza dell’autorità politica godeva del suo massimo splendore nell’epopea imperialista che controllava mari e poi cieli e oggi atmosfera, sempre rilanciando in avanti le frontiere del conquistabile. Autorità e impero sono due facce della medesima medaglia politica, le vicende della sovranità si scandiscono in tandem, e il principio di rappresentanza che designa l’anticamera teorica della divisione liberale dei poteri à la Montesquieu, istituendo il corpo politico della nazione che parla e agisce tramite i suoi rappresentanti eletti al governo, convive tranquillamente con la coercizione illiberale dell’autorità imperiale su uomini e donne colpevoli di appartenere ad altre nazionalità sottomesse, di parlare altre lingue più o meno sconosciute, di vivere su altri territori ricchi di beni di primaria importanza per i privilegi “liberali” delle nazioni dotate di “civiltà colte”.  L’apice di tale processo multisecolare si ritrova nel momento apparente in cui al sovrano in carne e ossa – quel doppio corpo del re, fisico e simbolico – si sostituisce nei regimi di democrazia rappresentativa il popolo sovrano nel momento in cui viene attivato in quanto tale e chiamato alle urne come corpo politico elettorale. Si tratta di un’astrazione, perché la sua sovranità è circoscritta al perimetro del seggio e delle urne, mentre lo stato di diritto pone al suo vertice un’altra astrazione, la legge, che prosegue quel percorso di spoliticizzazione della società, nello sforzo sovente invano di anestetizzare e surrogare lo scontro politico con il conflitto elettorale da un lato, e la lite giudiziaria dall’altro. Sopra la legge non c’è la politica, che ne è il fondamento produttivo ma non la mossa di legittimazione, pena la reintroduzione del conflitto politico che, all’interno dello stato, è sempre esorcizzato nel fantasma della guerra civile e quindi della disgregazione dello stato e delle sue istituzioni. Ecco perché la legge al di sopra di tutto e di tutti.

Solo che con tale mossa, la sovranità si inabissa come concetto forte della filosofia politica, che rifletteva pur sempre una realtà di fatto, per divenire un pre-testo (letteralmente), un fattore mobilitante la passione politica, un target contingente su cui puntare le armi della battaglia politica e, soprattutto, elettorale, nell’era della campagna elettorale permanente di cui sono instancabili paladini appunto populisti sovranisti. Una ideologia, pertanto, che manca la simmetria combaciante tra concetto e realtà per sbandierare una nozione linguistica priva di contenuto, ma sempre evocatrice di fasti imperiosi di un tempo ormai passato. E di cui si fa fatica a presagirne o intravederne il ritorno, se non appunto come spettro ideologico.  Già, perché nel frattempo, l’organizzazione statuale del pianeta si è andata modificando in profondità, pur mantenendo inalterata, anzi moltiplicata, la cifra del paradigma statale come canone universale cui ricorrere e far ricorso in continuazione, anche per quelle popolazioni che ne sono prive e che non aspirano ad altro che a farsi stato. Solo che l’aggettivo nazionale che lo ha contrassegnato al suo battesimo oggi non lo cresima più… Non è un caso che si afferma la crasi politologica e giornalistica di sovranismo, sovranità e nazionalismo insieme, lemma più nobile da proferire per rinviare a politiche populiste di mobilitazione elettorale permanente, punto fantasmatico su cui convogliare processi sociali, economici, identitari più disparati ma capitalizzabili come surplus politico-elettorale per formazioni di destra in cerca di occupare il trono vuoto del sovrano.  Certo, non occorre scomodare Wittgenstein per sapere che la semantica di un termine, di una parola, di un concetto, di una nozione è data dalla costellazione socio-storica che la utilizza in via contingente, al di là quindi di una fissazione archivistica di significato, buona per superare un esame universitario ma non più per comprendere l’esistente. Se la sovranità come concetto filosofico-politico suona oggi impossibile, ciò non di meno l’uso politico rivive nella contemporaneità simulando e dissimulando giochi retorici e pratiche politiche pronte a ergersi come verità del presente.  Il dovere morale di una esattezza concettuale – discorsiva, quindi criticabile, ma non aggirabile con escamotages retorici o con giochi linguistici di basso profilo – impone una precisazione: la sovranità per come l’abbiamo ereditata, al tempo stesso conquistata o subita (dipende dai punti di vista, specie ai tempi dell’imperialismo coloniale…), diviene oggi non solamente un concetto vuoto, ma anche una pratica impossibile nell’era delle interdipendenze di segno climatico, ambientale, scientifico, economico (monetario, commerciale, finanziario, industriale, agricolo, ecc.), ma anche politico, umanitario e militare. L’intrico di interdipendenze reciproche non esautora ovviamente i rapporti di forza asimmetrici e squilibrati, ma blocca una loro netta gerarchizzazione piramidale in prospettiva politica tale da far riemergere un sovrano qui nulli subest, superiorem non recognoscens. Ciò che abbiamo imparato a chiamare globalizzazione nei suoi molteplici aspetti e secondo le altrettanto numerose letture ermeneutiche e interpretative disegna diverse mappe divisorie del pianeta post-imperiale, in cui il controllo si esercita a distanza e non più attraverso la conquista materiale di popoli e territori ai quali imporre le proprie leggi e le proprie usanze; in cui gli strumenti del dominio reticolare si distribuiscono orizzontalmente non più verticalmente, in cui cioè i giochi di alleanze restituiscono la misura della contingenza instabile anziché della stabilità di assetti di politiche di potenza; in cui concorrono simultaneamente una serie di conflitti di potere che toccano in maggiore o minore misura ogni campo della narrazione biopolitica, quindi l’economico come il culturale, lo scientifico come il filosofico, ove ciascun registro diventa sia una tessera del mosaico planetario privo di un unico sovrano, sia una posta in palio del controllo di potere proteso al privilegio della cattura degli elementi della prerogativa statuale: popolazioni, risorse territoriali, spazio di movimento, tempo di acquisizione e di espropriazione di surplus - di lavoro, di potenza, di profitto, di saperi, di cervelli artificiali e non, di materie prime, di sementi, di acqua extraterrestre, di connessioni, di onde radio, di cromosomi e geni, di dati e banche-dati e via all’infinito.  

questo saggio è stato presentato dall'autore in occasione dell'incontro organizzato il 20\01\2021 dal Caffè filosofico "Beppe Bonetti" sul tema POPOLO DEMOCRAZIA E SOVRANITÀ, di cui proponiamo la diretta FB - /videos/

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