-Salvo Vaccaro-
Ovvero lo spettro ideologico dell’identità
la sovranità per come l’abbiamo ereditata, al tempo stesso conquistata o subita, diviene oggi non solamente un concetto vuoto, ma anche una pratica impossibile nell’era delle interdipendenze di segno climatico, ambientale, scientifico, economico (monetario, commerciale, finanziario, industriale, agricolo, etc.), ma anche politico, umanitario e militare
A dispetto degli usi recenti che ne estendono
il significato sino a coprire tanti campi del dicibile, il concetto di
sovranità in filosofia politica è molto netto e preciso, indicando il punto
apicale di una vettorialità gerarchica che culmina nel superanus, ossia in
qualcuno che non ha nessuno al di sopra di lui, quindi non dipende da alcun
altro né soggiace ad altrui volere. Si tratta di una nozione coniata in Europa
nel XVI secolo, in simbiosi con la nascita dello stato nazionale, che si pone
come erede politico tanto della condizione feudale quanto della teologia
politica del millennio cristiano, grosso modo da Carlo Magno – Imperatore del
Sacro Romano Impero che riceve la corona, inginocchiato al suo cospetto in
attitudine devota e deferente, dal papa Leone III la notte di Natale dell’800
d. C. a S. Pietro in Roma – a Napoleone – che il 2 dicembre 1804, a Notre-Dame
di Paris, si auto-incorona fiero e superbo Imperatore dei Francesi non prima di
aver “convocato” da Roma con “maniere forti” il papa Pio VII, per farlo
assistere all’evento, spettatore riluttante, da una tribuna laterale. Sovrano, infatti, è proprio colui qui nulli subest, superiorem non recognoscens,
a segnare il sommo culmine dell’autorità politica in terra, una terra infine
emancipata dalla soggezione teologico-politica. Non è un caso che,
nell’antichità, i re non vengono chiamati sovrani, proprio perché al di sopra
di loro stava ora il destino, il fato, ora gli dei, poi, dopo Costantino, il
dio cristiano unico e onnipotente il cui vicario mondano riconosceva de iure un titolo di autorità politica
conquistato de facto nell’unico modo
in cui si conquistava il potere, con il conflitto politico per eccellenza,
ossia la guerra di conquista, il sangue versato, la violenza legittimata a
posteriori appunto dal papa, unico depositario dell’autorità superiore al re di
turno. La legittimazione era dunque espropriata alla politica e affidata ad una
autorità ad essa esterna, da cui gli infiniti conflitti tra papato e impero che
hanno insanguinato il suolo europeo per secoli, impedendo in assenza di date
condizioni l’emergenza di un vero e proprio sovrano. Parallelamente, nel nostro medioevo possiamo
riscontrare agevolmente l’acuta frammentazione del potere politico in una serie
di posizioni di autorità, ognuna nella propria sfera di pertinenza e
competenza, che coesisteva più o meno conflittualmente con altre posizioni di
autorità, per cui a tanti sovrani in piccolo o in grande non poteva
corrispondere alcun concetto di sovranità nel senso sopra definito. Proprio
perché l’affermazione della sovranità dal XVI secolo in poi, chiudendo un’epoca
in cui il gioco politico era instabile e quindi lasciava margini di spazio per
autonomie pre-politiche (corporazioni, università, arti e mestieri, città
rispetto a signorie, etc.) in termini di libertà dal governante di turno, segna
la cifra dell’unità politica in via esclusiva rappresentata dalla nascita dello
stato nazionale, nel quale il sovrano esprime il controllo de facto e de iure della
popolazione in un territorio delimitato da confini sicuri e certi, godendo
della disponibilità assoluta del potere legislativo e delle risorse simboliche,
umane e materiali. Ecco il senso dello stato nazionale che circoscrive la
libertà esperibile rinnovando su basi nuove un dominio sul “patto” governanti-governati
con una rinnovata narrazione di legittimazione inventata, sulla scia di Bodin,
da Hobbes prima e da Rousseau successivamente. A tal proposito, è significativa
proprio l’effigie del Leviatano apparso sulla copertina della I edizione del
1651, nella quale il corpo del Sovrano in pompa magna incoronato, con la spada
in pugno nella mano destra a simboleggiare la forza delle armi di cui è
detentore monopolista, e il simbolo del potere pastorale nella sinistra a
simboleggiare il pieno controllo delegato delle anime della popolazione, a ben
osservare si compone delle figure del popolo che egli incorpora e rap-presenta
sulla scena, infatti la città su cui egli si impone appare vuota, essendo stata
la popolazione appunto ingurgitata e digerita al fine di addomesticarne la
presenza potenzialmente sovversiva e indocile: si ricordi l’irruzione del demos nella polis ateniese che rovesciò
incredibilmente per quei tempi la tradizionale epopea dei regimi monarchici e
aristocratici, portando al potere costituzionale un popolo privo di sangue blu.
Al di sopra del Leviatano, si staglia sovrimpressa una significativa scritta
biblica (Giobbe 41.24, il libro da cui Hobbes ricava il mostro marino): Non est potestas super terram quae
comparetur ei, che così prosegue: qui
factus est ut nullum timeret). Il
“contratto sociale” rilega in maniera ferrea il primato dell’obbedienza alla
legge emanata dal sovrano, una volta stabilizzato il proprio dominio su
territorio, confini e popolazione; il contratto, è bene precisare, non stipula
una relazione di reciprocità sia pure asimmetrica, tra sovrano e sudditi (poi
divenuti cittadini), bensì legittima l’obbedienza al sovrano sulla base di una
spoliticizzazione dello spazio societario nel segno della fuoriuscita dalla
vivacità feudale delle autonomie singolari; sulla base di una riduzione di
complessità e frammentarietà del potere politico che adesso colma il (già
ampio) divario governante-governato senza intermediazioni politiche, bensì solo
attraverso l’apparato statale dell’amministrazione delle cose (non delle
persone, esattamente come avrebbe voluto Marx senza rendersi conto che ciò era
già avvenuto), quella che oggi potremmo chiamare precisamente con il lemma
foucaultiano di governamentalità (già
Dante parlava di gubernanza, in inglese
odierno governance); sulla base di
una esclusività del potere politico che, ponendo confini certi e sicuri,
disloca il potere della violenza legalmente esercitabile all’interno (polizia)
all’esterno (guerra), ponendo le basi per quel giano bifronte che fu lo stato
nazionale imperiale, con l’apparente contraddizione per cui, mano a mano che i
conflitti interni di divisione del potere politico portarono alla
costituzionalizzazione dell’autorità nella legge e non più nel singolo capo di
stato, una parlamentarizzazione che sfociò nella sovranità popolare, tale
liberalizzazione fu più che compensata dal dominio imperiale in cui quelle
libertà conquistate entro i confini nazionali non valevano affatto per le
popolazioni sottomesse a ferro e fuoco, per non dire genocidate a partire dal
XVI secolo in poi. Il sovrano senza
limiti (destinali, divini, teologici) viene ridimensionato e (letteralmente)
scorporato nel processo di astrazione del potere politico che condurrà nell’arco
di un paio di secoli all’eclissi della sovranità in nome del pluralismo
democratico, giusto mentre l’illimitatezza dell’autorità politica godeva del
suo massimo splendore nell’epopea imperialista che controllava mari e poi cieli
e oggi atmosfera, sempre rilanciando in avanti le frontiere del conquistabile.
Autorità e impero sono due facce della medesima medaglia politica, le vicende
della sovranità si scandiscono in tandem, e il principio di rappresentanza che
designa l’anticamera teorica della divisione liberale dei poteri à la Montesquieu,
istituendo il corpo politico della nazione che parla e agisce tramite i suoi
rappresentanti eletti al governo, convive tranquillamente con la coercizione
illiberale dell’autorità imperiale su uomini e donne colpevoli di appartenere
ad altre nazionalità sottomesse, di parlare altre lingue più o meno
sconosciute, di vivere su altri territori ricchi di beni di primaria importanza
per i privilegi “liberali” delle nazioni dotate di “civiltà colte”. L’apice di tale processo multisecolare si
ritrova nel momento apparente in cui al sovrano in carne e ossa – quel doppio
corpo del re, fisico e simbolico – si sostituisce nei regimi di democrazia
rappresentativa il popolo sovrano nel momento in cui viene attivato in quanto
tale e chiamato alle urne come corpo politico elettorale. Si tratta di
un’astrazione, perché la sua sovranità è circoscritta al perimetro del seggio e
delle urne, mentre lo stato di diritto pone al suo vertice un’altra astrazione,
la legge, che prosegue quel percorso di spoliticizzazione della società, nello
sforzo sovente invano di anestetizzare e surrogare lo scontro politico con il
conflitto elettorale da un lato, e la lite giudiziaria dall’altro. Sopra la
legge non c’è la politica, che ne è il fondamento produttivo ma non la mossa di
legittimazione, pena la reintroduzione del conflitto politico che, all’interno
dello stato, è sempre esorcizzato nel fantasma della guerra civile e quindi
della disgregazione dello stato e delle sue istituzioni. Ecco perché la legge
al di sopra di tutto e di tutti.
Solo che con tale mossa, la sovranità si inabissa come concetto forte della filosofia politica, che rifletteva pur sempre una realtà di fatto, per divenire un pre-testo (letteralmente), un fattore mobilitante la passione politica, un target contingente su cui puntare le armi della battaglia politica e, soprattutto, elettorale, nell’era della campagna elettorale permanente di cui sono instancabili paladini appunto populisti sovranisti. Una ideologia, pertanto, che manca la simmetria combaciante tra concetto e realtà per sbandierare una nozione linguistica priva di contenuto, ma sempre evocatrice di fasti imperiosi di un tempo ormai passato. E di cui si fa fatica a presagirne o intravederne il ritorno, se non appunto come spettro ideologico. Già, perché nel frattempo, l’organizzazione statuale del pianeta si è andata modificando in profondità, pur mantenendo inalterata, anzi moltiplicata, la cifra del paradigma statale come canone universale cui ricorrere e far ricorso in continuazione, anche per quelle popolazioni che ne sono prive e che non aspirano ad altro che a farsi stato. Solo che l’aggettivo nazionale che lo ha contrassegnato al suo battesimo oggi non lo cresima più… Non è un caso che si afferma la crasi politologica e giornalistica di sovranismo, sovranità e nazionalismo insieme, lemma più nobile da proferire per rinviare a politiche populiste di mobilitazione elettorale permanente, punto fantasmatico su cui convogliare processi sociali, economici, identitari più disparati ma capitalizzabili come surplus politico-elettorale per formazioni di destra in cerca di occupare il trono vuoto del sovrano. Certo, non occorre scomodare Wittgenstein per sapere che la semantica di un termine, di una parola, di un concetto, di una nozione è data dalla costellazione socio-storica che la utilizza in via contingente, al di là quindi di una fissazione archivistica di significato, buona per superare un esame universitario ma non più per comprendere l’esistente. Se la sovranità come concetto filosofico-politico suona oggi impossibile, ciò non di meno l’uso politico rivive nella contemporaneità simulando e dissimulando giochi retorici e pratiche politiche pronte a ergersi come verità del presente. Il dovere morale di una esattezza concettuale – discorsiva, quindi criticabile, ma non aggirabile con escamotages retorici o con giochi linguistici di basso profilo – impone una precisazione: la sovranità per come l’abbiamo ereditata, al tempo stesso conquistata o subita (dipende dai punti di vista, specie ai tempi dell’imperialismo coloniale…), diviene oggi non solamente un concetto vuoto, ma anche una pratica impossibile nell’era delle interdipendenze di segno climatico, ambientale, scientifico, economico (monetario, commerciale, finanziario, industriale, agricolo, ecc.), ma anche politico, umanitario e militare. L’intrico di interdipendenze reciproche non esautora ovviamente i rapporti di forza asimmetrici e squilibrati, ma blocca una loro netta gerarchizzazione piramidale in prospettiva politica tale da far riemergere un sovrano qui nulli subest, superiorem non recognoscens. Ciò che abbiamo imparato a chiamare globalizzazione nei suoi molteplici aspetti e secondo le altrettanto numerose letture ermeneutiche e interpretative disegna diverse mappe divisorie del pianeta post-imperiale, in cui il controllo si esercita a distanza e non più attraverso la conquista materiale di popoli e territori ai quali imporre le proprie leggi e le proprie usanze; in cui gli strumenti del dominio reticolare si distribuiscono orizzontalmente non più verticalmente, in cui cioè i giochi di alleanze restituiscono la misura della contingenza instabile anziché della stabilità di assetti di politiche di potenza; in cui concorrono simultaneamente una serie di conflitti di potere che toccano in maggiore o minore misura ogni campo della narrazione biopolitica, quindi l’economico come il culturale, lo scientifico come il filosofico, ove ciascun registro diventa sia una tessera del mosaico planetario privo di un unico sovrano, sia una posta in palio del controllo di potere proteso al privilegio della cattura degli elementi della prerogativa statuale: popolazioni, risorse territoriali, spazio di movimento, tempo di acquisizione e di espropriazione di surplus - di lavoro, di potenza, di profitto, di saperi, di cervelli artificiali e non, di materie prime, di sementi, di acqua extraterrestre, di connessioni, di onde radio, di cromosomi e geni, di dati e banche-dati e via all’infinito.
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