martedì 9 febbraio 2021

IL MITO DELLA SOVRANITÀ POPOLARE

 -Antonio Minaldi-

 è possibile definire   cosa sia  la  Democrazia  senza occuparsi del concetto di popolo ? 

il popolo, elemento costituente dello  Stato-nazione (così come il territorio), esclude  lo straniero che assume oggi sempre più in tutto l’’occidente democratico i tratti del volto inquietante e fortemente destabilizzante del migrante

> il concetto di popolo ci appare non solo fortemente identitario ed escludente verso “l’altro da sé”, ma anche decisamente omologante, e dunque discriminatorio, nei confronti degli stessi soggetti che lo compongono 

> il concetto di popolo non solo esclude chi sta oltre i confini, ma finisce spesso col discriminare anche chi sta entro il perimetro


Quale futuro per la democrazia?. Prima di rispondere a questa domanda occorre farsene un’altra: “Che cosa è oggi la democrazia? E che cosa è stata in passato?”. Se considerata nel suo significato letterale di “sovranità popolare”, e cioè di potere (kratos) del popolo (demos), potremo dire semplicemente che la democrazia è una menzogna. In realtà la cosa è meno clamorosa di quanto possa sembrare. È infatti opinione ormai ampiamente diffusa tra analisti e filosofi della politica, considerare la democrazia “una finzione”, o anche “un mito”, come ebbe a dire, per esempio, Luigi Einaudi, liberale e primo presidente della Repubblica italiana. 

Seppure il contenuto irrealistico del suo significato letterale, non significa necessariamente che, almeno a detta di qualcuno, non possa avere anche un valore storicamente positivo e politicamente propositivo. Quando tuttavia l’idea di “finzione”, dalla complessità dell’ambito analitico e teorico, finisce con lo scivolare nella semplificazione banalizzante della comunicazione politica con fini puramente propagandistici e di facile auto-legittimazione, ecco allora che la stessa “finzione” finisce col darsi per l’appunto come menzogna.

Per brevità, cercheremo di sintetizzare schematizzando in tre punti il perché la democrazia debba essere considerata una finzione\menzogna.

1- Il concetto stesso di “sovranità popolare” è dal punto di vista logico un ossimoro, una contraddizione in termini. Sebbene il concetto compiuto di “sovranità” sia un prodotto del pensiero politico moderno, a partire da Macchiavelli e passando in maniera decisiva per Bobin e oltre, la coppia concettuale sovrano-suddito sulla quale quel concetto fonda la sua essenza e la sua significanza, può essere, anche retrospettivamente, applicato ad ogni forma possibile di potere politico, come relazione verticale di governo degli assetti sociali. L’idea di democrazia azzera quella coppia concettuale, presupponendo come possibile che il suddito sia sovrano di se stesso. Ma in questo modo, e paradossalmente, tramite la loro identificazione, suddito e sovrano spariscono, e dunque una democrazia “perfetta”, nel senso hegeliano ma anche marxiano, di giunta al compimento di sé attraverso il suo inveramento storico, dovrebbe estinguersi, estinguendo con sé ogni forma di potere sovrano e statale. Ma il senso concreto del suo valore storico tradisce i suoi presupposti logici. La democrazia diventa allora una eterna promessa, una “impossibilità”, e nelle sue estreme forzature idealizzate, come già detto, una menzogna.

2- Quando si analizza il “che cosa è” della sovranità bisogna tenere ben distinti il tema della legittimazione formale, da quello del funzionamento concreto e reale della macchina del dominio come governo delle cose. È cosa risaputa che gli antichi distinguevano le forme del governo secondo il numero di coloro che lo esercitavano. La monarchia era il governo di uno solo, l’oligarchia o l’aristocrazia il governo di pochi, la democrazia il governo di molti, e al limite di tutti. Nella dimensione reale della storia, tuttavia, i meccanismi del dominio e del controllo sociale hanno sempre avuto bisogno di un insieme di soggetti che ne permettessero il funzionamento e la capacità riproduttiva. A ben vedere dunque una monarchia “pura”, fondata cioè su un monarca assoluto, e una democrazia “vera”, fondata su un reale potere del popolo, non sono mai esistite, perché in realtà l’espressione del potere che deve innervarsi entro le strutture sociali perché queste riproducano le loro realtà funzionali, necessita sempre di una oligarchia di comando, che sappia come e quando usare le giuste leve e che dell’ordine dato conservi memoria storica  e narrazione valoriale. Che si tratti di una casta sacerdotale come negli antichi imperi caratterizzati dall’assolutismo “sovrumano” del monarca-Dio come nell’antico Egitto,”. Oppure che si tratti di una classe sociale, come la nobiltà dei ministri e dei consigli della corona che caratterizzava il medio evo cristiano e i primi passi dello Stato moderno. O che si tratti infine del ceto politico “democratico” dei moderni Stati costituzionali, in ogni caso, siamo sempre di fronte a quella che in termini classici si può definire una oligarchia di potere.

3- Non è possibile definire cosa sia la democrazia, senza occuparsi del concetto di popolo che ne costituisce l’elemento caratterizzante. Concetto tuttavia estremamente problematico. Indefinibile in senso univoco, fuori da una precisa determinazione storica, perché legato ad una dimensione concreta e particolaristica di stampo fortemente identitario. Non esiste, neppure in senso astratto, un popolo, ma tanti popoli, spesso tra loro in competizione, se non l’uno contro l’altro armati. Concetto identitario che in quanto tale schiera i fronti, perché al tempo stesso fortemente inclusivo ed escludente. In pratica lo si può pensare metaforicamente come una sorta di recinto, o come un territorio marcato da precisi confini, che riconosce come parte di sé, e cioè per l’appunto come popolo, coloro che stanno al suo interno, respingendo come non-popolo o popolo-altro, coloro che stanno all’esterno. È sempre stato così sin dalle sue origini, nella esperienza della democrazia diretta della polis ateniese, dove il diritto alla cittadinanza, e dunque all’esercizio del potere, era riservato ai soli maschi adulti e liberi, con esclusione delle donne, dei giovinetti, dei meteci e degli schiavi. In pratica solo coloro in grado di combattere. Il popolo corrispondeva di fatto all’esercito. Forse il solo tentativo di concepire il popolo in modo non restrittivo non appartiene alla storia materiale, ma alla storia del pensiero. È nelle astrazioni in certo modo “visionarie” di J.J. Rousseau, che il popolo diviene un potenziale “tutti” attraverso una sua concettualizzazione di tipo totalizzante. Una totalità sancita dalla unicità e indiscutibilità della “volontà generale” che nel suo comporsi necessariamente si perde i pezzi (i singoli individui). Sta di fatto, che quando i seguaci del ginevrino, concretamente impegnati nelle vicende della rivoluzione, dovettero fare i conti col concetto di popolo pensarono bene di ancorarlo, in modo fortemente identitario all’idea di “nazione”, creando così una narrazione, ancora oggi imperante (malgrado la globalizzazione), fondata sul rapporto indissolubile e fortemente identitario della triade popolo-territorio-sovranità, che definisce il “che cose è” dello Stato moderno.

Neppure le democrazie costituzionali della contemporaneità sfuggono a questa morsa. La definizione di popolo come “L’insieme di tutti i cittadini”, seppure più inclusiva rispetto al passato, anche a costo di svilirne il concetto a quello di una semplice “sommatoria”, per altro allineandosi in questo modo perfettamente all’etica antropologica dell’individuo come monade competitiva del mercato capitalista. Ebbene anche il popolo di tutti i cittadini, del moderno Stato nazione, esclude comunque lo straniero, che assume oggi sempre più in tutto l’’occidente democratico i tratti del volto inquietante e fortemente destabilizzante del migrante.

E non finisce qui! Il concetto di popolo non solo esclude chi sta oltre i confini, ma finisce spesso col discriminare anche chi sta entro il perimetro. Per Cicerone “Popolo non è ogni aggregazione di uomini in qualunque modo unito insieme, ma la convergenza di una moltitudine fondata sulla condivisione del diritto e sulla comunanza di interessi”. Il che significa che un popolo, compreso gli individui che lo compongono, deve dimostrare sempre di essere all’altezza della sua presunta identità. Qualora ciò non avvenga gli individui vengono espulsi dal corpo vivente del popolo, o peggio l’intero popolo perde i suoi caratteri costitutivi scadendo in ciò che di volta in volta è stato chiamato con disprezzo “la plebe”, “il popolino”, “la massa”, “la moltitudine”, “la folla”.

In conclusione, il concetto di popolo ci appare non solo fortemente identitario ed escludente verso “l’altro da sé”, ma anche decisamente omologante, e dunque discriminatorio, nei confronti degli stessi soggetti che lo compongono.

Stabilito ciò che la democrazia non è, sarà ora necessario capire cosa concretamente essa sia.

La cosa che subito balza agli occhi è il fatto che proprio quegli aspetti che sono costitutivi dei regimi democratici, e che nettamente li distinguono da altre forme di gestione del potere, proprio quegli aspetti e quei caratteri che più spesso vengono citati dai suoi sostenitori (e spesso non del tutto a torto) come elementi distintivi di una preferibilità della democrazia su ogni altro possibile regime politico, insomma il “pregio” stesso della democrazia reale e vigente, nulla ha a che fare con l’idea di sovranità popolare. Al contrario “il meglio” delle democrazie costituzionali contemporanee nasce proprio da una, ovviamente non dichiarata, ma implicita e necessaria, negazione della sua pretesa di voler mettere nelle mani di un presunto “popolo”, le leve del potere.

Tutti i possibili meriti delle democrazie contemporanee possono infatti essere schematizzati e sintetizzati in due aspetti generali. Il primo riguarda quell’insieme di vincoli e condizioni che, almeno in teoria e “sulla carta”, costituiscono un modo di perimetrare e limitare l’esercizio del potere sovrano contenendone le possibilità di scelta entro il rispetto di precise “forme” e precisi principi e valori costituzionalmente stabiliti. Ricordiamo sinteticamente: “la sovranità della legge “ come negazione dell’assolutismo e dell’arbitrio; “il pluralismo” delle forze in campo che implica la competizione pubblica e la verifica elettorale periodica con possibilità di circolazione delle élite; “la divisione dei poteri” caratterizzato essenzialmente dalla “autonomia della magistratura” come garanzia contro gli abusi del potere ecc. ecc. Il secondo aspetto, fortemente legato al primo, consiste nell’insieme dei diritti (civili, politici, e nelle Costituzioni del’900 anche sociali) che vengono riconosciuti al cittadino e che, malgrado tutti i limiti di formalismo e di “irrealtà sostanziale”, rappresentano pur sempre il riconoscimento di uno spazio di autonomia soggettiva degli individui sempre sottraibile, almeno in linea di principio, alla potestà statale.

Come si può vedere i caratteri realmente costitutivi della democrazia moderna si iscrivono perfettamente entro la logica del rapporto sovrano-suddito, seppure nel senso e con lo scopo di volerne dare una interpretazione  più progressiva ed antiautoritaria rispetto ai regimi non democratici.

Questi contenuti progressivi delle moderne democrazie possono essere visti a loro volta da due differenti prospettive. Per un verso essi sono il prodotto di un lungo processo storico caratterizzato da lotte di classi e conflitti delle moltitudini contro i poteri dominanti e assolutistici, come testimonia il fatto che tutti i contenuti delle moderne democrazie si sono affermati attraverso traumatici eventi rivoluzionari a partire dalle rivoluzioni inglese, americana e francese, fino ai fatti del secolo scorso che in parallelo alle catastrofi di due guerre mondiali, hanno visto la sempre più significativa presenza conflittuale e l’ascesa di classi, ceti e moltitudini di oppressi, di sfruttati, di discriminati. Se la democrazia  è nel suo senso generale e nelle sue pretese una menzogna, essa è anche per alcuni aspetti specifici una reale conquista dal basso, che “dal basso” è necessario che venga difesa contro i suoi nemici, che poi sono spesso gli stessi che genericamente ne tessono le lodi.

Per un altro verso l’ascesa dei regimi democratici, almeno nella fase originaria delle rivoluzioni “borghesi” del XVII e XVIII, è stata caratterizzata dal contemporaneo affermarsi del modo di produzione capitalistico e del suo sistema di dominio sociale, che ha lasciato inevitabilmente la sua impronta anche in quelle che per altri versi erano reali e irrinunciabili conquiste. Il caso più tipico di tale ambivalenza è quello legato al concetto di libertà. Valore assoluto e indisponibile. Vera conquista rivoluzionaria contro ogni tipo di comando e di obbligazione. Principio cardine di ogni democrazia. Nella logica delle società a comando di capitale tuttavia “la libertà” è diventata la caratteristica tipica del modello antropologico dello homo oeconomicus, dell’individuo egoista, imprenditore di se stesso ed in continua lotta col mondo nel ring della vita. La libertà cioè come pura garanzia formale del rispetto delle regole a garantire sempre la vittoria del più forte.

Conquiste dal basso gestite nella logica della riproduzione della macchina del dominio, questo è il paradosso che fa dei regimi democratici un luogo di conflitto e di scontro, di vittorie precarie e di persistenze autoritarie. Infine: C’è un futuro diverso per le democrazie? O c’è, più radicalmente, un possibile andare oltre?

Quale futuro dunque per la democrazia? Sulle domande che riguardano il domani occorre essere sempre prudenti. In generale possiamo tuttavia dire che ci sono motivi per ritenere che  la democrazia, almeno nell’ambito delle cittadelle imperiali dell’occidente ed entro i limiti che conosciamo, non dovrebbe correre grandi pericoli per il futuro. Nella società caratterizzata dal neo capitalismo post fordista e dalla governance biopolitica sono profondamente mutate le logiche del dominio. La fine della distinzione tra la meccanica alienante del tempo lavoro e il tempo sottratto al lavoro ha portato il comando del capitale ad una appropriazione della ricchezza prodotta dal general intellect, da quella intelligenza collettiva che è il frutto dell’insieme della complessità delle relazioni sociali che si esprimono nella totalità del tempo vita. Ciò comporta un controllo sociale che diviene più pervasivo e totalizzante in quanto occhio che vede (e algoritmo che processa e riduce a dato conoscibile) ogni aspetto in cui si svolge l’esistenza di ciascuno. Al tempo stesso queste forme del dominio diventano più subdole e più elastiche. Esse hanno bisogno di un soggetto che nella propria autonomia contribuisca a creare ricchezza interagendo e pensando, amando e sognando, esprimendo preferenze e pareri, semplicemente vivendo. In teoria, e finché possibile, la cornice di istituzioni democratiche dovrebbe essere il terreno per esprimere al meglio questa forma di dominio sul cittadino “libero” e al tempo stesso “assoggettato”. Per altro verso le soggettività conflittuali ed antagoniste che si esprimono nei movimenti di lotta e di liberazione, fintantoché non saranno in grado di esprimere elementi significativi di alternativa globale all’esistente del dominio, hanno interesse a muoversi entro i parametri delle garanzie democratiche, per quanto queste possano apparire parziali e solo formali, se non a volte puramente illusorie. Le moderne democrazie, finché non si produce una vera rottura che può portare il presente a farsi “dittatura esplicita” oppure un nuovo ordine sociale ad imporsi, restano candidate ad essere il terreno in cui le forze del cambiamento esprimono il loro bisogno di conflitto e le forze del controllo sociale misurano la loro capacità di rovesciare il conflitto stesso in motore per una rinnovata riproduzione dell’esistente. Tutto ciò in teoria, poiché la storia, dovendo fare i conti con l’intelligenza ma anche con l’imperfezione umana, è sempre il prodotto di un complesso intreccio tra logiche deterministiche e imprevedibili soggettività “impazzite”. 

L’accettare i paletti della democrazia “esistente” non può certo esaurire le prospettive d’alternativa che devono caratterizzare i movimenti. La democrazia deve essere considerata qualcosa rispetto alla quale non si può e non si deve tornare indietro, ma rispetto alla quale occorre anche andare avanti. Non si tratta di inventare percorsi già predefiniti come nella vecchia logica veterocomunista. Non c’è un “sol dell’avvenir” già preconfezionato della cui verità il partito, in quanto classe operaia che si è fatta coscienza rivoluzionaria, è depositario e divulgatore presso le altre classi oppresse. Nella dimensione del presente il conflitto è il prodotto di una molteplicità di identità a cui le singolarità possono anche appartenere in modo trasversale ( si può essere al contempo donna, migrante, operaia ecc. ecc.).  Ogni identità esprime i suoi valori e i suoi contenuti anche in modo contraddittorio, e nessuna ricomposizione è possibile aprioristicamente entro un quadro di prospettive consolidate e comuni. L’unica via percorribile è quella di praticare il conflitto e su questo terreno verificare in itinere l’incontro e la possibile comunanza di valori ed interessi. Il punto d’arrivo per il consolidarsi di una strategia del cambiamento sociale che un qualche modo, superi gli attuali assetti sociali fondati sul dominio di capitale è quella che sinteticamente esprimerei col concetto di “alleanza delle moltitudini”. Per “moltitudini” intendiamo l’insieme dei movimenti antagonisti che spaziano oggi dai movimenti di liberazione (delle donne, dei neri, dei migranti, delle comunità etniche e religiose escluse ecc.) ai movimenti  che definiamo “ambientalisti” nel senso ampio di coloro che si battono per un futuro caratterizzato da un diverso rapporto uomo- uomo e uomo-natura, fino ai movimenti per il reddito garantito e contro le diseguaglianze prodotte dalla persistente povertà. Per “alleanza” intendiamo il crearsi di una serie di incontri ed intrecci di valori e contenuti che dal piano contingente sappiano trasferirsi alla prospettiva strategica. Ora tornando a noi, il terreno sul quale può darsi questa alleanza è quello che definirei “democrazia di base”, come luogo in cui si esprimono le lotte e i movimenti con i loro specifici contenuti. La democrazia istituzionalizzata è piuttosto ciò che si definisce “democrazia rappresentativa”. con essa e con chi di volta in volta la gestisce, ci si può, secondo i casi, scontrare o dialogare. Questo terreno di incontro-scontro è, come abbiamo già detto e malgrado tutti i suoi limiti, preferibile a forme di gestione del potere di tipo non democratico, dei tipo cioè, come si dice, “autocratico”. Ma il terreno della crescita dell’alternativa a questo mondo è un altro; quello in cui, prendendo sul serio la menzogna della democrazia storicamente esistente, si crea potere dal basso nella forma del contro potere, e se possibile nell’ipotesi strategica di una istituzionalizzazione non “sovrana”. Nella prospettiva del continuo prodursi e riprodursi di una democrazia di base, la via da percorrere è ancora difficile e impervia, e soprattutto è un percorso di cui non conosciamo né le difficoltà né esattamente il luogo di destinazione. Un sano pragmatismo deve guidarci nelle scelte di lotta, nelle forme organizzative, nella costruzione orizzontale delle alleanze. Per molti versi si tratta di una navigazione a vista. Ma attenzione! Tutto questo non deve mai impedirci di avere sempre lo sguardo fisso verso il futuro! In qualche modo è necessario recuperare il valore positivo dell’utopia. Si badi bene non “la cattiva” utopia della prefigurazione di un futuro che si pretenda minuziosamente organizzato e privo di contraddizioni e conflitti, come in verità nessuna società sarà mai. Ciò di cui abbiamo bisogno è la “buona” utopia di chi non costruisce opere di ingegneria sociale, ma che invece sa proiettare contenuti e valori che si danno entro la dimensione conflittuale del presente verso il domani, come schegge o frammenti, che in quanto possibili promesse di futuro, non traslocano semplicemente e inutilmente nel mondo dei sogni, ma ritornano al presente per dargli un senso e una possibile prospettiva, sempre pronti a cambiare ipotesi ed invertire la marcia o sperimentare nuovi percorsi, qualora il reale ci desse risposte diverse ed inattese.

questo saggio è stato presentato dall'autore in occasione dell'incontro organizzato il 20\01\2021 dal Caffè filosofico "Beppe Bonetti" sul tema POPOLO DEMOCRAZIA E SOVRANITÀ, di cui proponiamo la diretta FB - /videos/

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