NATURA AUTONOMA O SUBORDINATA?
\ Lavoro digitale e i limiti del diritto: sviluppare il sindacalismo sociale nella contrattazione
metropolitana e invertire i rapporti di forza del lavoro vivo nella città-piattaforma. Forzare il diritto
verso forme sempre più ampie di tutela del lavoro vivo -diretto e/o indiretto-
sussunto nel rapporto sociale della costituzione materiale del capitale
Da
un po’ di tempo ha preso piede una convinzione che, in realtà, ciclicamente
torna in auge nella storia del capitalismo: l’idea che le tecnologie digitali e
l’automazione totale siano il preludio per l’avvento di una società
post-capitalistica, ovvero un mondo senza più conflitti economici e
sfruttamento dove ci penseranno droni, robot e IA a fare quello che prima
facevano gli umani, i quali non avranno che da dedicarsi alla libera
condivisone delle proprie passioni.
Le
lotte dei rider impiegati dalle piattaforme di food delivery incrinano questa
fiducia nel potere emancipatorio della tecnologia e mettono a nudi i nodi
politici scoperti delle trasformazioni in corso.
Le
pratiche messe in campo sono significative sia dell’estensione dei rapporti di
produzione oggi che della posta in palio: azioni legali, scioperi, sabotaggio
semantico, contrattazione metropolitana, forme di coordinamento locale e
transnazionale. Da una parte, la sfida comune a tutte le esperienze di
auto-organizzazione nella gig economy è costruire un corpo collettivo (in
opposizione al feticcio della community e all’isolamento dei singoli
lavoratori); dall’altra scardinare l’ideologia di una fine del lavoro (come
rapporto di classe) veicolata dalle piattaforme, le nuove macchine mitologiche
del capitalismo contemporaneo.
Si
tratta, ipotizziamo, di un conflitto radicato in un segmento particolare del
capitalismo contemporaneo il cui peso non sta tanto (ancora) nella portata del
suo sviluppo economico quanto nel suo ruolo politico di apripista per una più
generale ridefinizione dei rapporti e delle condizioni di produzione.
Lavoro
digitale e limiti del diritto
Recentemente
ha suscitato molto clamore mediatico la sentenza della causa – la prima in
Italia di questo genere – che sei rider di Torino hanno intentato contro
Foodora (una delle piattaforme leader dei servizi di food delivery) per
contestare l’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro sulla base di una
non-riconosciuta natura subordinata dello stesso. La causa di questo recesso/licenziamento?
L’aver partecipato ad azioni di protesta per ottenere delle condizioni di
lavoro migliori.
Tanti
sono i casi di contestazioni legali che su scala europea hanno contrapposto
rider e piattaforme in questi mesi. In alcuni giudici e ispettori del lavoro
sono stati favorevoli ai lavoratori digitali, in altri hanno privilegiato il
punto di vista delle piattaforme.
La
questione principale – nel processo torinese così come in tutti gli altri casi
– riguarda la natura autonoma (così dicono le piattaforme) o subordinata (così
sostengono i rider) di questi nuovi (ma in parte vecchi) lavori. In
particolare, a Foodora è stato contestato il controllo costante esercitato sul
processo lavorativo tramite lo smartphone e la pressione psicologia alla totale
messa a disposizione (dell’azienda) cui erano sottoposti i lavoratori.
Da
parte sua, l’azienda ha sostenuto che così come manca l’obbligo per i rider di
garantire un certo monte orario così non c’è l’obbligo per le piattaforme di
far lavorare i propri collaboratori; sarebbero i rider a dare le proprie
disponibilità senza obblighi – come se si trattasse di un passatempo e non di
un’attività economica fortemente etero-organizzata e etero-diretta.
Nonostante
la retorica smart e la narrazione di un’economia dei lavoretti e della
condivisione, emerge chiaramente una contrapposizione netta e a tratti
insanabile fra due letture diverse del capitalismo di piattaforma. La dicotomia
semantica del “loro dicono” contrapposta al “noi diciamo” che condensa la
distanza fra due modi radicalmente diversi di descrivere le soggettività del
lavoro digitale è già parte di un rifiuto della voce unica delle piattaforme, è
l’affermazione di un punto di vista autonomo ed eterodosso.
Non
è un caso che le piattaforme abbiano elaborato un loro particolare vocabolario
per (non) nominare il lavoro. Nella semantica del food delivery sembrano non
esistere dipendenti, contratti, licenziamenti, turni ma solo collaboratori,
login, disponibilità. Nominare diversamente il lavoro fa parte di un processo
di trasformazione delle condizioni e dei rapporti di produzione di più ampio
raggio. Vuol dire negare il lavoro come luogo di conflitto fra soggettività
diverse e con interessi contrapposti a favore di una messa a valore di se
stessi. Vuol dire negare che esistano soggetti diversi laddove tutto fa parte
di una idilliaca quanto irreale community digitale. Vuol dire negare quei
diritti e quei rapporti produttivi conquistati dalle lotte operaie della
seconda metà del Novecento e ormai insostenibili per le mutate condizioni di
produzione. Questo naturalmente ha profonde conseguenze – sulle nuove economie
così come sulle vecchie – in termini di condizioni di lavoro, accesso al
welfare, sicurezza dei lavoratori, equilibrio vita-lavoro, discriminazioni.
In
tal senso, non colpisce l’esito negativo (per i rider) della sentenza del
processo torinese, sebbene ancora non siano state depositate le motivazioni che
hanno spinto il giudice ad accogliere la difesa presentata da Foodora.
Tuttavia, alcune considerazioni – due sui limiti del diritto del lavoro e una
più generale sulla sua innovazione – possano essere avanzate.
Le
riforme che per anni sono state presentate come necessarie per il rilancio
dell’occupazione e della produttività hanno progressivamente svuotato il
diritto del lavoro della sua capacità di controbilanciare il potere di comando
del capitale aprendo sempre più a una deregolamentazione del mercato del lavoro
(quindi alla possibilità di applicare contratti “deboli” in termini di tutele e
salari) a sfavore di altre istanze (quelle legate alla possibilità di
riproduzione della forza-lavoro di cui parlava Marx).
Inoltre
il diritto sembra incapace di cogliere le mutate condizioni in cui opera il
capitale contemporaneo: cambiano forme, tempi e spazi del lavoro e con questi
anche le tecniche e i dispositivi disciplinari. Le tecnologie digitali
permettono il passaggio da metodi coercitivi e autoritari a forme di soft
power: il comando sul lavoro non è più diretto (se non raramente) perché la
disciplina si è fatta molto più indiretta, resiliente, distribuita su attori e
momenti (produttivi e sociali) diversi: dai meccanismi di rating aziendale a
quelli di accesso prioritario alla prenotazione turni. La subordinazione alla
piattaforma si dispiega ben prima del processo lavorativo laddove non si può
fare altrimenti se non come vuole l’algoritmo piuttosto che come il rider
vorrebbe (la famosa falsa libertà di cui sempre Marx parlava): l’obbligo a
svolgere una mansione è anticipato dalla necessità di mettersi a disposizione
(del capitale); il contratto civile viene affiancato dal contratto interiore
che la forza-lavoro deve stabilire con se stessa per valorizzarsi.
Il
punto, dunque, non è tanto far rientrare questi nuovi lavori all’interno di
questa o quella tipologia contrattuale (ormai svuotate della loro capacità di
tutela del lavoro e superate da altre forme di contrattualizzazione). Il punto
è forzare il diritto a riconoscere e intervenire sulle trasformazioni in corso
nella costituzione materiale del capitale come rapporto sociale fra chi ha
potere di comando e chi ha forza-lavoro. Questo potere oggi sta sempre meno nel
possesso dei mezzi di produzione e sempre più nel possesso delle infrastrutture
(digitali e logistiche) e degli algoritmi. Le piattaforme fanno leva su
entrambi e non si limitano a mettere insieme contenuti e utenti, domanda e
offerta, clienti e produttori; piuttosto riplasmano il processo produttivo da
cima a fondo e inglobano a tal punto la cooperazione sociale da sostituire la
società stessa con le community digitali.
La
città come piattaforma
Il
piano legale è senza dubbio uno degli assi lungo i quali si snodano i conflitti
del lavoro digitale. Tuttavia, è sempre più chiaro che se contemporaneamente
non si mettono a nudo i nuovi rapporti di potere sarà difficile forzare il
diritto del lavoro a riconoscere le nuove forme della subordinazione al
capitale. Di più, occorre sfidare le pratiche disciplinari del lavoro digitale
perché è il solo modo di evidenziare tutte le crepe che attraversano il diritto
e la sua capacità di regolare questi fenomeni. Questo implica uno slittamento
di piano, dalla costituzione formale a quella materiale, o meglio alle
contraddizioni e agli antagonismi che agitano i nuovi rapporti di produzione.
Non
si può dire che in questi anni non ci siano stati scioperi e proteste nella gig
economy. A partire dall’estate del 2016, un vero e proprio ciclo di lotte nei
servizi di food delivery via app si è diffuso in tutta Europa nonostante la
difficoltà nel mettere in campo azioni sindacali vincenti. Dall’Inghilterra
alla Francia, dalla Spagna all’Italia, dal Belgio all’Olanda, non c’è paese in
cui si sono diffusi questi servizi che non abbia avuto le sue vertenze. Vanno
segnalati almeno due aspetti particolari di queste esperienze: il loro
carattere sociale e metropolitano.
Nella
maggior parte dei casi si è trattato di percorsi di auto-organizzazione dei
lavoratori che si sono sviluppati al di fuori dei sindacati tradizionali,
laddove questi ultimi sono stati usati più come strumento legale in fase di
contrattazione che come forma organizzativa. Le pratiche messe in campo – dal
mutualismo alle critical mass – sembrano accomunate dall’intento di ricostruire
un corpo collettivo che si opponga al potere dell’algoritmo per affermare sia
un’alterità dei rider rispetto alla narrazione fornita dalle piattaforme
(necessaria per farsi riconoscere tutele e retribuzioni maggiori) sia
l’autonomia decisionale dei lavoratori in merito a come organizzare il processo
produttivo (assegnazione turni, aree di consegna, etc). Riprendendo Kim Moody,
possiamo dire che si tratta di esperienze di sindacato come movimento del
lavoro vivo, piuttosto che come istituto rappresentativo.
L’altro
aspetto da segnalare riguarda il carattere fortemente metropolitano di queste
esperienze, sia per quanto riguarda la dimensione organizzativa – si tratta di
movimenti sindacali che mettono assieme i rider di una città – che quella
rivendicativa – più che cambiare le regole delle piattaforme in generale,
puntano ad essere efficaci almeno a livello locale. Detto altrimenti, la città
conquista una centralità geografica sia in quanto luogo di lavoro (le strade
cittadine, in primis) sia in quanto spazio del politico (come dimensione di
scontro e contrattazione). Questo perché le città sono sempre più il punto in
cui i flussi globali di merci, gli attori economici transnazionali e le
infrastrutture digitali si incrociano con la materialità dei corpi. Le città,
dunque, come luoghi per la ri-produzione e il consumo ma anche luoghi in cui ci
si può incontrare, organizzare, scioperare, assemblare un corpo collettivo.
Il
punto quindi non è tanto se esistano contraddizioni aperte nella gig economy.
Piuttosto occorre interrogarsi su come potenziare questi percorsi di
sindacalismo sociale e metropolitano che più o meno spontaneamente si sono
diffusi in tutta Europa.
Come
costruire un corpo collettivo in grado di contrastare efficacemente il potere
dell’algoritmo?
Quali
pratiche mettere in campo per invertire i rapporti di forza fra lavoro vivo e
piattaforme in maniera più stabile?
Lavori
in corso
Come
detto, non esistono relazioni industriali sedimentate nella gig economy.
Soprattutto non ci sono pratiche e soggetti collettivamente riconosciuti. Si
tratta, quindi, di un campo di sperimentazione non solo per nuove dinamiche di
valorizzazione del capitale, ma anche per nuovi processi di soggettivazione
della forza-lavoro.
Se
partiamo dall’assunto che la città sia la dimensione geografica all’interno
della quale si producono tanto dinamiche organizzative quanto rivendicative tra
i rider, allora è proprio a partire da questo livello che possono essere
sperimentate forme di contro-potere in grado di istituzionalizzarsi (ad
esempio, nel diritto) e perdurare nel tempo, così come processi di coalizione
che permettano di unire ciò che le piattaforme separano.
È
in questa direzione che possono essere letti i recenti tentativi sia di avviare
forme di contrattazione territoriale sia di creare un coordinamento fra
esperienze sindacali metropolitane.
A
partire dal mese di gennaio 2018, a Bologna ha preso forma una inedita
contrattazione metropolitana tra amministrazione locale, Riders Union
(collettivo cittadino formato da rider e solidali) e, in seconda battuta, le
piattaforme di food delivery. Nei mesi precedenti i rider avevano messo in
campo diverse azioni di protesta, dai presidi pubblici agli scioperi. In questo
caso il governo della città è intervenuto cercando di svolgere una funzione di
mediazione fra le parti in campo – probabilmente anche sulla scia di quanto
stava accadendo in altre città, come Bruxelles. Si tratta – va notato – di una
contrattazione che oltrepassa lo schema dei contratti collettivi nazionali e
riconosce un’esperienza di sindacalismo metropolitano e sociale come pienamente
legittima sulla base di rapporti di forza accumulati nel tempo. È nata così
l’idea di una Carta dei diritti del lavoro digitale nel contesto metropolitano
che – riprendendo quanto richiesto nei mesi precedenti dai rider bolognesi alle
singole piattaforme – prova a introdurre alcuni elementi cruciali per
contrastare il potere dell’algoritmo: monte orario garantito, salario minimo,
assicurazione. L’obiettivo primario è quello di stabilire diritti e condizioni
di lavoro uniformi per tutti i lavoratori del settore in modo da spezzare
quella tendenza all’individualizzazione e all’imprenditorializzazione di se
stessi alla base della gig economy.
Chiaramente
la replicabilità ed efficacia di questa esperienza non è immediata. A Milano,
per esempio, il Comune ha avviato un percorso simile ma ha escluso finora i
rider dal tavolo, depotenziando quindi il valore politico della contrattazione.
Oppure è evidente che il rischio concreto è che le piattaforme non firmino la
carta o che quest’ultima sia limitata a una dimensione locale. Tuttavia, se
allarghiamo lo sguardo, questo tipo di sperimentazioni possono essere utili
tanto a riconoscere la forza-lavoro come corpo collettivo irriducibile alla
narrazione delle piattaforme, quanto a innovare gli strumenti giuridici a
diposizione per riconoscere e contrastare la natura etero-organizzata ed
etero-diretta del rapporto di lavoro. La contrattazione metropolitana,
dunque, rispecchia la natura territoriale tanto dei processi economici in atto
quanto dei soggetti promotori e delle pratiche messe in campo. Inoltre non
chiude a forme di regolamentazione più estesa, anzi fornisce un esempio
concreto della sua fattibilità. Strappa margini di contro-potere alle
piattaforme per consolidare ed estendere un rapporto di forza.
Inoltre,
se la città costituisce la dimensione spaziale all’interno della quale
costruire forme di sindacalismo metropolitano nella gig economy, ciò non
implica che sia allo stesso tempo l’unica scala geografica della
contrapposizione capitale lavoro all’interno del capitalismo di piattaforma. Il
carattere globale di quest’ultimo spinge, necessariamente, alla costruzione di
forme di coordinamento e processi di coalizione fra esperienze territoriali. Se
questo possa bastare per contrastare un capitale che è sempre più
transnazionale e finanziarizzato non è detto, ma sembra essere un passaggio
obbligato.
I
tentativi di far dialogare tra loro le diverse esperienze metropolitane per ora
ci sono stati anche se timidi, principalmente a causa del carattere fluttuante
e (spesso) temporaneo delle stesse. Ma la strada per la costruzione di uno
sciopero sociale transnazionale dei lavoratori del food delivery sembra
percorribile. Il nodo è costruire una contro-logistica delle lotte alternativa
e opposta a quella individualizzante del capitale. La gestione della
cooperazione e dei flussi diventa la posta in gioco di questo scontro, laddove
il potere dell’algoritmo può essere contrastato sia in maniera diretta (con
scioperi su scala allargata) che in maniera indiretta (progettando piattaforme
la cui proprietà sia comune e non privata).
In
questo senso, il 15 aprile a Bologna si è svolta la prima assemblea dei rider
italiani, a cui hanno partecipato i gruppi auto-organizzati di Bologna, Milano
e Torino e lavoratori di altre città italiane (Modena, Roma, Padova), oltre che
il collectif des coursiers di Bruxelles e il collectif des livreurs autonomes
di Parigi. La giornata si è articolata in tre sessione il cui obiettivo è stato
diffondere pratiche organizzative, co-progettare una serie di rivendicazioni,
connettere le esperienze di sindacalismo metropolitano all’interno di uno
spazio europeo di lotta.
È
nata così la proposta di riappropriarsi del 1 maggio come giornata simbolica in
cui rompere l’invisibilità politica del lavoro (inteso come spazio di
conflitto) a partire proprio da queste esperienze di auto-organizzazione del
lavoro digitale.