- Girolamo De Michele -
andare oltre la tentazione geopolitica
Cosa possiamo costruire nel campo di forze dello sfruttamento, del lavoro vivo, dell’antirazzismo, dei diritti dei migranti? E su quali basi?
Alla fine, a quanto pare, Slavoj Zizek ci ha preso: sono arrivati quelli che la maledizione cinese chiama “tempi interessanti” per l’Europa, e ci siamo dentro fino al collo. Salvo che non c’è niente di cui divertirsi – se non l’ingenuità con cui ci si arresta alla rappresentazione mediatica scambiandola per la realtà: per insipienza dei fondamentali, o per potersi rifugiare nella battutina arguta con la quale è tradizione esercitare un pensiero che la critica l’ha persa per strada.
Resta che siamo nel bel mezzo di una concatenazione di crisi – una policrisi, com’è stata chiamata – nella quale sono alla loro acme crisi economica, migratoria, ecologica, militare e geopolitica (e i segnali di una crisi epidemica, anche solo per la ricomparsa del morbillo, sono poco più lontani).
In primo piano, la crisi ucraina scatenata dall’invasione russa, nella quale Ucraina, Russia ed Europa sono state attirate con l’intenzione di scaraventare la Russia in un nuovo Afghanistan. Lo spettacolo messo in scena in uno studio ovale trasformato nel teatro di casa di Trump è stato definito “senza precedenti”: beh, solo se consideriamo la sua trasformazione in spettacolo in mondovisione. Di quelli andati in scena in modalità privata, si ricordano volentieri la Conferenza di Monaco del ’38, o il viaggio del presidente Cecoslovacco Hácha a Berlino nel marzo 1939: nessuno sembra ricordare il brainwashing cui fu sottoposto Tsipras fra il 12 e il 13 luglio 2015 da parte dei cosiddetti “creditori” – BCE (alla cui testa c’era Mario Draghi), FMI e soprattutto i governi dell’UE, che isolarono la Grecia per acquattarsi ai piedi dell’austerità voluta dal governo tedesco. Ricordiamo che un’unione dei cosiddetti PIIGS avrebbe pesato un terzo del PIL dell’UE, e avrebbe potuto essere una sponda per la politica di disimpegno dall’egemonia tedesca che la Francia di Sarkozy millantava.
Vale la pena perché è in quel momento che è morta una certa idea di Europa: le conseguenze, sul medio periodo, si sono mostrate cinque anni dopo, con l’incapacità di rovesciare gli assetti finanziari dell’Europa e sfruttare la crisi pandemica per riformare le politiche sociali, a partire dalla sanità.
Questa Europa, figlia di quella, oggi presenta il conto proponendo una politica di riarmo che faccia da argine alla crisi aperta dal disimpegno USA in Ucraina, ma anche da volano per la crisi economica: una versione brutale di quella, da i toni più melliflui, proposta da Draghi – in un contesto certo molto diverso, con un diverso rapporto con gli USA, ma che prefigurava comunque l’uso della leva militare come volano per la produzione – nel suo Rapporto del 2024 (qualcuno crede davvero che un progetto da 800 miliardi di euro sottratti al fondo di coesione sia stato partorito dalla mente solitaria di Ursula von der Leyen nell’arco di una notte?), dove una politica di riarmo era presentata come risposta europea ai giganti USA e Cina. Draghi sosteneva che, a fronte di un’Europa che si muoveva, sul piano economico, in ordine sparso, negli ultimi anni gli USA avevano investito sul reddito disponibile reale pro capite (ovviamente è una crescita statistica, come Biden ha scoperto a proprie spese), dotandosi di una base sociale in grado di reggere una guerra commerciale; la Cina sulla componentistica, rendendosi indispensabile per le politiche del Green Deal (o greenwashing). È su questo sfondo che dovremmo collocare un ipotetico rilancio dell’economia europea fondato sulla produzione bellica. Così come, al di là del gusto macabro di realizzare un video kitsch là dove c’è uno spaventoso cimitero a cielo aperto, con migliaia di morti sotto le macerie che si aggiungono alle decine di migliaia vittime di 15 mesi di genocidio, la trasformazione di Gaza in porto privato nordamericano – con annesso resort per ricchi, senza alcun cenno a chi sono quelli che oggi possono permettersi questo tipo di lusso (o una Green Card pagata 5 milioni di dollari) – significa uno sbocco sul Mediterraneo per la Via della Seta statunitense alternativa a quella cinese; che richiede, per essere realizzata, quel minimo di macelleria necessaria a spianare epicentri di crisi: come avvenne nell’ex Jugoslavia, con consenso quasi unanime. Una volta calmati i testosteronici bollori di chi si esalta a immaginare nuove guerre, o rimpiange una combattiva gioventù guerriera, bisognerebbe chiedersi come si crede sarà gestita questa svolta bellicista e militarista. Già adesso, senza un (esplicito) richiamo all’unione contro il nemico, senza una (esplicita) accusa di disfattismo per chi non si adegua, l’esercizio del dissenso è sotto schiaffo: ancora non siamo alla brutalità di un Jeff Bezos che bandisce dal Washington Post ogni parere avverso alla linea liberista – “per il pluralismo delle idee c’è Internet” – o all’annunciata espulsione dalle università di chi manifesta o dissente; ma il Decreto sicurezza è di certo su quella strada. Cosa accadrà quando ne andrà “della sicurezza nazionale”, quando il dissenso potrà essere tacciato di sabotaggio, tradimento e intesa col nemico? Già adesso – lo ha ricordato di recente Sergio Bologna – la maggioranza dei lavoratori dipendenti lavora con contratti scaduti: “ciò significa diminuzione del salario perché i rinnovi ritardati in genere non riequilibrano mai il perduto, al massimo concedono qualche spicciolo di risarcimento per la vacatio” (ecco il segreto di Pulcinella dell’aumento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, peraltro con percentuali dimezzate per il lavoro femminile: si assume perché oggi con i contratti scaduti il lavoro vivo costa poco). Cosa accadrà quando a questa moltitudine sottopagata verrà ricordato che dalla loro produttività dipende la salvezza dei “sacri confini” di un’Europa che si riarma vertiginosamente?
Ancora Draghi ammoniva: “i valori fondamentali dell’Europa sono la prosperità, l’equità, la libertà, la pace e la democrazia in un ambiente sostenibile. L’UE esiste per garantire che gli europei possano sempre beneficiare di questi diritti fondamentali. Se l’Europa non sarà più in grado di fornirli ai suoi cittadini – o dovrà sacrificarne alcuni per averne altri – avrà perso la sua ragion d’essere”. Bisognerebbe ricordare a Draghi cosa ne è stato di questi valori per il popolo greco, nel momento in cui si prevede di tagliare i fondi agli ultimi per finanziare il riarmo, secondo uno schema di progresso industriale che inevitabilmente andrà ad acuire le differenze all’interno della UE. Resta che la realizzazione del suo libro dei sogni – a volte anche il capitale sa essere onirico, se non psichedelico – è pensato come condizione imprescindibile per finanziare, attraverso un aumento di produttività del 5% del PIL europeo (una percentuale da anni Sessanta), il modello sociale esistente. Ma cosa ne è di questi sogni, quando la loro realizzazione è correlata a politiche sostenute da aperti avversari di questo insieme di valori? Almeno su una cosa Draghi ha ragione: l’Europa non è un feticcio, una bandiera buona per tutte le stagioni, una scatola vuota. La creazione di un’Europa differente da quella attuale, o il mantenimento dello stato di cose esistente, non è cosa distinta dai processi politici, economici e sociali con i quali si realizza il nuovo o si perpetua l’esistente. E non è indifferente con chi si marcia per realizzare cosa. Per dire: si può sdoganare quanto si vuole Friedrich Merz, raccontandolo come il politico moderato venuto dall’imprenditoria – dal gigante finanziario BlackRock, per essere più chiari – che fa da argine all’ADF, ma resta sempre un uomo dell’estrema destra della CDU, disponibile ad aperture verso l’estrema destra nazi-razzista sui migranti (e non solo).
Che fare, dunque? In primo luogo, smetterla con la tentazione geopolitica: prendere atto del fatto che le nostre forze sono oggi minoritarie, e chiedersi non “per il bene dell’Europa”, ma nel campo di forze dello sfruttamento, del lavoro vivo, dell’antirazzismo, dei diritti dei migranti, cosa possiamo costruire, e su quali basi. Riappropriarsi dei terreni sui quali siamo arretrati, a partire dalla rete. Imbastire contro-narrazioni avverse alla post-verità del capitale finanziario e delle piattaforme, e dar loro corpo e sangue nelle lotte.
All’indomani della prima vittoria presidenziale di Trump, Alain Badiou proponeva di prendere sul serio la minaccia comunista evocata da Bolsonaro e Trump, contrapponendo al loro comunismo inesistente un nuovo comunismo, un comunismo reale: prosperità, equità, libertà, pace e democrazia in un ambiente sostenibile prese sul serio, senza mediazioni al ribasso, sono un buon punto di partenza. È un programma minimo, certamente: chiediamoci come cominciare a realizzarlo.