martedì 23 luglio 2019

HEIDEGGER E IL “PENSIERO DEBOLE”


     alcuni frammenti filosofici  

 oltre le metafisiche della modernità 


Emma Schiavone


si pensi al rapporto  dell’esserci con l’essere, nel quale si  distingue la particolarità del primo  rispetto a tutti gli altri enti. Da qui  l’impossibilità di definire l’essere in  senso assoluto, in modo totalizzante. L'essere si manifesta di volta in volta dentro un dispositivo di nascondimento, influenzando chi cerca di definirlo
L’influenza che il  cercare  subisce dal suo cercato fa parte del  senso più proprio del problema dell’essere 
Ovviamente in H. non si afferma alcun  primato dell’esserci, ma si rileva il rapporto primario,   singolare e privilegiato -se non   proprio esclusivo- tra Sein e Dasein, la cui estrinsecazione è data dentro la temporalità transeunte

1.       Alla  luce di quella che oggi viene  definita da più  parti la “condizione postmoderna” della socie­tà (ed  aggiungiamo  per inciso  alla  luce  della connessione  dell'opera di Heidegger con quella  di Nietzsche)  è possibile una rilettura della  intera riflessione heideggeriana che ne metta in  evidenza la ricchezza intuitiva e, ci sia consentito  dirlo, anche  il limite nei dubbi che non può fare a  meno di sollevare.
Seguendo la linea interpretativa proposta  da Gianni Vattimo, tendente a mettere in rilievo gli aspet­ti nihilistici presenti nell'opera  di  Heidegger, possiamo caratterizzarne il pensiero come "pensiero debole"  dove  l'essere viene a  perdere  tutte  le connotazioni "forti" proprie della metafisica,  per divenire un essere-depotenziato: "senso" dell'esse­re quindi unicamente come  direzione, come movimen­to  continuo che coinvolge l'esserci e  l'ente  non per  condurli in luogo stabile, un punto fisso  da cui partire, ma verso una nuova dis/locazione.
Così inteso il pensiero di Heidegger ha a che fare  con la condizione postmoderna  della società proprio  perché ciò che con esso si intende  non  è nient'altro  che ciò che con il prefisso "post"  si tenta di pensare. La condizione in cui versano oggi tutte le discipline ("SCIENZA" inclusa) è si quella di una perdita di legittimità,  di crisi dei  fonda­menti,  ma soprattutto perché è  la nozione stessa di  "fondamento" che entra in crisi,  né tantomeno quindi  può pensarsi ad un superamento di essa  col ritrovare nuovo valore, ulteriormente  dispiegatosi, come  se la storia -hegelianamente  intesa- non  sia progressiva  illuminazione   ed    appropriazione dell'origine. 
Sono concetti come quello di  "oltre­passamento" e "novità”, propri della  modernità, che oggi sono venuti meno, oltrecché di  “unità” della storia, visto il profursi di storie moltepli­ci che si accompagnano a quell'unica STORIA che  si è  voluta raccontare e che coincide con quella  dei vincitori. 
Usare  questo  tipo  di  categoria  significa rimanere dentro la modernità e servirsi di strumen­ti che non sono in grado di penetrare  l'epoca  nella quale viviamo.


2.       La  posizione assunta da Heidegger  nei  con­fronti del pensiero occidentale e, radicalizzando l'in­dagine  apertasi con Sein und Zeit, il suo  continuo ripercorrere criticamente all'indietro le tappe che  hanno  segnato la nostra storia  -che  coincide  con quella  metafisica-  possono essere visti come il tentativo di aprire all'uomo una diversa possibili­tà di  esistenza,  proprio a partire  dalla crisi che attanaglia  la tarda-modernità. 
Tale  critica si incentra infatti sulla  ridu­zione operata dal pensiero metafisico, da Platone a Nietzsche,  dall'essere  all'ente  obliandone la fondamentale differenza  e  riducendo il  primo  a fondamento del  secondo, processo  che  trova  il suo culmine nell'era della tecnica dominata  dalla pianificazione totalizzante e dalla  calcolabilità. Ma già sin dalle prime opere Heidegger precisa  che si deve abbandonare l'idea di essere  inteso come Grund:  l'essere  è evento,  esso  accade e  non “è”, non potendosi ridurre quindi a semplice presen­za non si può di esso avere prensione, possesso. 
Ciò che qui, però, non deve essere  frainteso è che la critica di Heidegger nei  confronti 
del pensiero  metafisico non è preludio ad un suo  pre­sunto oltrepassamento verso un 
al di  là della metafisica che ci conduca, essendo questa dimentica dell'essere, in un altro luogo dove l'essere  possa nuovamente  risplendere ed imporre il  suo dominio incontrastato. L'oltrepassamento di cui parla Heidegger non è da intendersi come superamento dialettico, bensì ha a che fare con ciò che Heidegger indica col termine Verwindung, rassegnando in esso una molte­plicità di significati tutti concorrenti nell'esplicitarne la definizione: Verwindung come accettazione ed approfondimento, rassegnazione-risegnata.
La  metafisica non è una delle  tante  storie che dell'essere  sono possibili. Essa  è  la  sola storia dell'essere e come tale non può essere messa da parte, superata, ci appartiene ed appartiene  al pensiero come unico suo oggetto, come  ri-memora­zione (An-denken). Ri-memorare la storia dell'esse­re, la metafisica, prestare attenzione ai segni che da  essa  ci sono trans/messi  non significa  però prenderne atto e da essi ripartire, bensì anche,  e qui si  presenta l'altro significato  del  termine Verwindung, ri\segnarli, di\storcerli.
Il  pensiero di Heidegger si  presenta  cos썠come  ermeneutica,  come trans/missione  di quegli orizzonti all'interno dei quali, di epoca in epoca, è possibile all'uomo un particolare rapportarsi al mondo,  laddove l' An-denken di tali orizzonti  non ci  conduce  mai al possesso di alcun Grund ma si presenta soltanto come regressus in  infinitum. 


3.       L’intento dissolutivo nei confronti della nozione di verità, metafisicamente intesa, si arricchisce di nuove connotazioni nell’elaborazione del concetto di opera d’arte come “messa in opera della verità”, concetto sviluppato nel saggio L’origine dell’opera d’arte: nell’opera ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente. «Nell’opera d’arte è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera della verità. Che cos’è dunque la verità perché si realizzi temporalmente come arte? » (H., 1968 p.25)
Per poter comprendere cosa Heidegger  voglia intendere con questa espressione si deve tener presente la duplice funzione che l’opera assolve come «esposizione» del mondo – da un lato- e come «produzione» della terra – dall’altro: «L’opera in quanto opera, espone un mondo … All’esser opera dell’opera appartiene l’esposizione di un mondo». (ivi, pp.30-31)
Ma che cos’è il mondo? 
Che esso non stia ad indicare l’insieme di tutte le cose con le quali l’uomo entra in rapporto, bensì l’orizzonte, il contesto all’interno del quale è possibile il darsi degli enti, era già venuto in chiaro sin da Essere e Tempo.  Ciò che qui si precisa è che tale orizzonte non è una struttura stabile, fissa, ma storico-finita, tant’è vero che Heidegger parla non più del mondo, ma di un mondo. «Analizzato più a fondo l’orizzonte-contesto si rivela non come una struttura di nessi fra cose, ma come un sistema di significati. Che l’esserci abbia già sempre, in quanto esiste, un mondo, non significa che di fatto sia in relazione attuale con tutte le cose, ma che è familiare con un sistema di segni e di significati, potremmo dire, che dispone già sempre di un linguaggio».(V,1991, p.76)
Così esplicitato il concetto di mondo ci permette di chiarire l'analisi: vengono in luce quelli che sono gli elementi, i tratti propri di un’epoca che ci consentono di individuarla -nella sua peculiarità e difformità- dall’epoca precedente. Ma l’orizzonte che l’epoca apre non è posseduto una volta per tutte dall’uomo. Se ci limitassimo a questo primo aspetto esso costituirebbe una struttura stabile, fissa, e solo all’interno della quale sarebbe possibile la nostra conoscenza. Se la riflessione heideggeriana si limitasse dunque a questo primo aspetto, dovremmo concludere che l’orizzonte che l’opera apre (ed all’interno del quale è possibile "il conoscere") è una struttura fissa, un a priori di tipo kantiano. Ma l’orizzonte dato non è – come dicevamo- posseduto una volta per tutte dall’uomo. Tale orizzonte non è il sempre uguale schermo trascendentale della ragione kantiana. Pertanto possiamo inferire che: l’opera espone un mondo non un’ipostasi della mondanità temporalmente statica.


Bibliografia

Gianni Vattimo, Al di là del soggetto, 1981
G. Vattimo, P. A. Rovatti,Il pensiero debole,1983
Gianni Vattimo, La fine della modernità, 1985
Martin Heidegger, Sentieri interrotti , 1968   
  “         “      , Essere e Tempo, 1971