giovedì 18 aprile 2024

IL MONDO COME PROGETTO MANHATTAN

 -Giuliano Spagnul- Recensione al libro di Jean-Marc Royer

All’apice dell’evoluzione Homo Sapiens ha trovato “una forma di servitù mai vista nella storia dell’umanità: il lavoratore connesso”. Un nuovo tipo di legame che lo rende “oggi più profondamente isolato e attaccato al computer di quanto lo fosse il proletariato degli inizi del XIX secolo al suo telaio; al quale, inoltre, non verrebbe mai in mente di distruggere la macchina…”

Il mondo come progetto Manhattan di Jean-Marc Royer (Mimesis 2023) non è il solito saggio sulla storia del nucleare e dei suoi apprendisti stregoni. Dai laboratori nucleari l’autore allarga la prospettiva al laboratorio globale di guerra generalizzata alla vita (come recita anche il sottotitolo) che capitalismo e metodo scientifico, in stretta e assidua collaborazione, hanno portato avanti negli ultimi due secoli. E, va aggiunto, con enorme successo.

Per capire come questo sia stato possibile, e per capire, soprattutto, come possano due rivoluzioni, una sul metodo del pensare e l’altra su quello del produrre, trovare una comune sinergia è fondamentale rilevare il punto in cui i loro obiettivi aderiscono alla perfezione: “ridurre tutto ciò che è reale e vivente a una misura o relazione commensurabile, in breve a un’astrazione.”

In che altro modo sperimentare soluzioni più o meno finali per masse o gruppi di individui, propedeutiche a un’apocalisse globale da raggiungere in tempi non biblici ma immaginabili nell’arco di una vita umana, se non riducendo(ci) a numeri, astrazioni, appunto? Siamo tutti ormai, dopo il 1945 (Auschwitz-Hiroshima) entrati nel nuovo mondo in cui la “civiltà capitalistica” esprime la sua essenza compiuta, “ossia la sua propensione ad autodistruggersi trascinando il mondo nel suo crollo.”

I suoi servi più solerti, siano gli Eichmann  o gli Oppenheimer, operano nella fertile banalità del male “mobilitando qualcosa di più profondo e potente, che risiede in ogni essere umano, nella sua immaginazione, e che diventa capace di scuotere il mondo in pochi giorni quando si struttura intorno a un ideale o a un valore universale.”

Ideali e valori, anche questi, sublimati nella loro astrazione affine all’astrazione a cui gli umani (della nostra età moderna) sono stati ridotti. “Ciò che resta da capire” ci avverte l’autore (ed è decisivo) “è la natura di questa immaginazione.”

La bellezza di questo testo, al di là dell’encomiabile analisi e storia del nucleare di guerra e di “pace”, sta proprio nel porre in primo piano il ruolo dirimente dell’immaginario. “Cioè tutto ciò che struttura l’inconscio di ciascuno dei suoi contemporanei e che costituisce non solo il principale ingrediente di coesione, ma anche la più potente leva di cambiamento sociale.”

Nemico pubblico del “totalitarismo democratico” non è il mondo dell’immaginario, ma la capacità di immaginare (e quindi di pensare) che trova la sua forza e nutrimento nella polisemia del linguaggio. Quel “mettere insieme un mondo nello spazio irriducibile tra le parole e le cose” che rende difficoltosa e incerta qualunque modalità di “razionalità calcolatrice e universale, di cui si intuisce che i computer sarebbero i grandi programmatori in tempo reale.”

La scientificità, l’ingiunzione permanente ad essere oggettivi fanno da corollario a questo desiderio “di porre fine all’incredibile disordine della realtà” una volta per tutte, costi quel che costi.

Anche la fine del mondo!

A lettura finita, di un libro che contiene molte altre cose importanti che lasciamo al lettore scoprire, rimane una domanda (1) che non viene affrontata ma che in un qualche modo si trova sottotraccia in tutto il discorso sulla scienza. Se si deve alla fisica classica, newtoniana, la riuscita di quel processo di astrazione che starebbe alla base dell’affermarsi della civiltà del dominio e sfruttamento assoluto, potremmo pensare che, al contrario, la relatività, la meccanica quantistica, i principi di indeterminazione e quant’altro scaturiti negli inizi del secolo scorso, pongano in fieri una turbolenza capace di invertire il processo necropolitico in atto?

Non sono, forse, queste teorie e pratiche che modificando, nelle sue basi, il concetto di natura a rendere impossibile, oltre che illegittimo, l’idea di uno sfruttamento generalizzato e perpetuo della natura stessa?

A questa domanda, sempre con l’ausilio di quanto si trova espresso nel libro (almeno per quello che ci ho letto o voluto vedere io) possiamo rispondere di no. Nessuna rivoluzione scientifica si pone, di per se stessa, come autonoma produttrice di modi di vita e cambiamento radicali, del nostro rapporto col mondo, con il reale ecc.

È l’iniezione dell’immaginario che le dà la possibilità di operare in un senso o in un altro, e questo vale per qualunque innovazione o cosiddetta “scoperta”. Si scopre quel che già si sa, quando serve. Quando la razionalità medievale degli scolastici non è più comprensibile per nessuno, si scopre quel che già tutti, in qualche modo, sanno e si grida: Eureka!

Capire allora la “natura di questa immaginazione” è la sfida per poter sperare di cambiare noi e, con noi, il mondo.

 

Nota 1: Devo a Giorgio Griziotti, profeta (o poeta) di sventure col suo Boomernauta


da.labottegadelbarbieri.org