“A partire dagli anni Sessanta Arrighi si era impegnato (nel confronto con Amin, Franck, Wallerstein) nella costruzione di un modello interpretativo che tenesse insieme la questione del dominio spaziale e quella del dominio di classe…” (pagina 12)
Con queste parole, nella sua introduzione al libro Adam Smith a Pechino, Salvo Torre delinea il senso generale dell’azione teorica condotta da Giovanni Arrighi.
L’espressione “dominio di classe” si riferisce alla tendenza fondamentale del capitalismo che è la trasformazione del tempo in valore, e l’accumulazione di valore grazie alla sottomissione del lavoro umano ridotto ad astrazione.
L’espressione “dominio spaziale” si riferisce all’estendersi territoriale del dominio del capitale, nelle forme del colonialismo, dello schiavismo, del genocidio e dell’ecocidio.
Il pensiero di Marx costituisce uno sforzo titanico mirato a ridurre l’infinita varietà degli eventi del mondo a una tendenza iscritta nella relazione tra gli uomini, e più precisamente nei rapporti di produzione che di quella infinita varietà sono la fonte e la misura. Quello sforzo titanico non era (nelle intenzioni del titano) meramente descrittivo, ma implicava l’azione pratica della minoranza cosciente della società, un’azione che definiamo lotta di classe.
Il cuore dell’evoluzione storica sta nell’intreccio di tendenza all’astrazione (trasformazione in valore del tempo concreto) e persistenza del residuo (il proliferare di eventi e di cose esterne al processo di astrazione).
La lotta di classe agisce sulla tendenza all’astrazione, e mira a sovvertire il rapporto di forza (il paradigma) entro cui questa tendenza si svolge.
Ma le cose del mondo non smettono di proliferare, irriducibili all’astrazione.
Nel suo libro Arrighi parla di “frattura tra marxisti essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo Mondo dall’eredità dell’imperialismo coloniale, e marxisti che si preoccupavano principalmente dell’emancipazione della classe operaia.” (Pagina 47).
Posso confermare, sulla base della mia memoria personale, che la discussione più importante, e in qualche modo divisiva, nel movimento studentesco del 1968, e più in generale nei circuiti marxisti degli anni ’60, fu proprio quella che opponeva coloro che si definivano “antimperialisti” a coloro che si definivano “anticapitalisti”.
Non si trattava tanto di una contrapposizione politica, ma di una disputa teorica che andava molto al di là delle congiunture immediate dell’azione.
Per quanto mi riguarda mi riconoscevo decisamente nelle posizioni che consideravano la lotta operaia nei paesi ad alta industrializzazione come il fulcro decisivo del processo rivoluzionario, e come la leva per la trasformazione dei rapporti di forza in ogni ambito della relazione sociale.
Mi riconoscevo cioè in una posizione operaista.
Le posizioni che allora si definivano terzomondiste contenevano un’intuizione relativa al peso crescente della contraddizione (marxianamente secondaria) tra centro capitalista e mondo colonizzato che in termini maoisti si definivano come “popoli oppressi”.
Il Maoismo fu per alcuni anni un movimento mondiale perché esprimeva la consapevolezza di questo doppio fronte della rivolta. Mao Zedong corresse la formula ereditata dall’Internazionale: “Proletari di tutto il mondo unitevi” con una formula nuova: “Proletari di tutto il mondo e popoli oppressi unitevi”.
Lin Biao, leader dell’Armata Popolare di Liberazione Cinese, affermò che le campagne avrebbero strangolato le metropoli a livello mondiale, come la Lunga Marcia aveva fatto in Cina.
Ma questo strangolamento doveva realizzarsi entro le condizioni che Mao aveva espresso con la formula: “la classe operaia deve dirigere tutto”. Solo una direzione operaia (cioè solo la centralità dell’internazionalismo operaio, traduzione cosciente del processo di astrazione dal caos degli eventi del mondo) poteva rendere possibile la liberazione dalla schiavitù su scala mondiale.
Quando la classe operaia delle metropoli venne sconfitta tra gli anni ’70 e gli anni ’80, il panorama strategico cambiò completamente. Non più un unico progetto universale di emancipazione, ma la guerra di tutti contro tutti.
Cinquanta anni dopo lo vediamo bene: il sud globale, che Lin Biao chiamava “periferie del mondo” sta circondando il mondo bianco, lo sta tendenzialmente strangolando. Ma l’anima di questo processo è la vendetta nazionalista. I popoli oppressi partecipano alla competizione per il profitto, e si riconoscono in leader come Narendra Modi (primo ministro dell’India, ndr.) che fondano il loro potere sul nazionalismo e la persecuzione delle minoranze.
Dal sud dove le guerre e la mutazione climatica hanno reso la vita impossibile, milioni di donne e di uomini invadono il Nord del mondo con una migrazione massiccia. La loro intenzione non è strangolare la metropoli, ma sottomettersi al regime salariato. Ciò non toglie che, sia pure senza volerlo, la loro migrazione massiccia contribuisce allo strangolamento dell’occidente.
Perciò la maggioranza delle popolazioni del nord si sentono assediate, e reagiscono con il razzismo la guerra. Nessuna solidarietà è più possibile. L’internazionalismo è morto, e il fronte del lavoro si trasforma in un mosaico di frammenti incapaci di ricomporsi in soggetto politico.
In queste condizioni assistiamo al ritorno massiccio dello schiavismo e al dispiegarsi della guerra civile globale.
Cinquanta anni dopo la discussione tra operaisti e terzomondisti dovremmo riconoscere che entrambe le posizioni sono state smentite dall’evoluzione sociale e geopolitica. Grazie alla globalizzazione, (dimensione spaziale del dominio) è stata sconfitta la lotta operaia, che era tutta centrata sulla dimensione temporale del dominio.
Il residuo spaziale (ambiente, guerra, migrazione) ha rovesciato la tendenza.
Questo non significa però che la posizione terzomondista si sia affermata perché non si sta verificando affatto una rivoluzione socialista dei popoli oppressi: nessuna unità internazionale degli oppressi è all’orizzonte, ma piuttosto una proliferazione caotica dei conflitti nella prospettiva di una guerra sempre più estesa.
Il dissolversi della coscienza universalizzante di cui fu portatore il proletariato internazionalista comporta anche il dissolversi di ogni altra dimensione universalizzante. Il diritto è lettera morta, perché solo la forza è oggi in grado di regolare i rapporti tra gli umani. La civiltà moderna lascia allora il passo a una inciviltà senza precedenti: brutalità che grazie alla tecnica moltiplica la forza animale contro ogni diritto.
Come dice Thomas Wade, uno dei protagonisti della trilogia fantascientifica di Liu Cixin Il problema dei tre corpi: “Se perdiamo la nostra umanità perdiamo molto, ma se perdiamo la nostra bestialità perdiamo tutto.”
Sconfitto l’internazionalismo operaio, dissolto l’universalismo del diritto borghese, sulla faccia della terra resta solo la bestialità della forza assistita dall’iper-tecnologia. Il nazismo è dappertutto.
Nel settembre del 1939 era possibile intravvedere, al di là dell’immane distruzione che si preparava, una prospettiva di nuovo ordine del mondo (che fosse il comunismo, la democrazia, il liberalismo), oggi invece stiamo entrando in una guerra le cui conseguenze sono inimmaginabili, mentre nessuna prospettiva di riforma del mondo appare più ipotizzabile.
Il ritorno del Nazionalismo in Europa, il ritorno del genocidio in Medio Oriente segnalano l’irrimediabilità della condizione umana sul pianeta, e in questo senso aprono una prospettiva di ultimità della quale la generazione più giovane è acutamente cosciente.
Il rapporto tra la tendenza e il residuo si è dunque rovesciato in un prevalere del caos su ogni possibile progetto. La tendenza (lotta di classe, riduzione del tempo di lavoro) che ci parve un tempo destinata a ridurre i margini residuali alla irrilevanza, si rivela invece oggi sommersa e cancellata dal residuo, cioè dalla massa delle esternalità che precipitano: devastazione dell’ambiente planetario, guerra frammentaria asintoticamente globale, e psicosi dilagante nella mente collettiva (che si legge erroneamente come un ritorno del fascismo novecentesco, mentre è puro e semplice scatenamento della psicosi senile dell’occidente terrorizzato).
Nel libro precedente, Caos e governo del mondo, Arrighi aveva delineato un’altra problematica, quella del rapporto tra crisi dell’ordine politico e governance, che in quel libro è delineata in termini di confliggenti egemonie geopolitiche ed economiche.
Il problema della governance su dinamiche caotiche si è rivelato in effetti quello decisivo negli ultimi due decenni; ma più che in termini di egemonia politica preferisco impostare la questione in termini di relazione tra il caos della società umana e il sistema di automatismi finanziari tecnologici e militari che si impongono senza più alcuna mediazione di tipo ideologico o politico. In Extrastatekraft, Keller Easterling parla in proposito di infrastrutture come piattaforme di governance tecnica cui la produzione e la società in generale non possono sottrarsi, e che modellano le forme di interazione secondo finalità che non sono più contestabili.
Mentre il residuo caotico ha preso il sopravvento, la tendenza si è irrigidita in piattaforme tecniche globali che costringono il residuo caotico entro una maglia stretta di automatismi.
Credo che sia giunto il momento di riconoscere che l’impresa filosofica che deriva da Marx – pur mantenendo intatta la sua potenza esplicativa – ha perduto ogni presa sull’evoluzione della società del ventunesimo secolo.
Il marxismo, nella sua complessità, è stato il tentativo di risolvere la complessità caotica delle forme di vita (e di morte) esterne al rapporto tra lavoro e dominio in termini di lotta di classe. La concretezza dei residui sociali veniva risolta entro la tendenza all’astrazione crescente del lavoro e alla capacità del lavoro astratto di rovesciarsi in autonomia soggettiva dal dominio astratto.
Quella prospettiva è venuta meno.
Ne La maledizione della noce moscata Amitav Gosh osserva che il colonialismo aveva creato le condizioni di una devastazione irreversibile perché potesse compiersi il processo di accumulazione primitiva. Questo è il punto. Quando l’accumulazione primitiva si è compiuta, quando è iniziata la lotta tra operai e capitale industriale, la devastazione del pianeta era già avviata irreversibilmente, e lo schiavismo aveva già creato condizioni di violenza razzista che nessuna riforma poteva cancellare.
Per concludere questa mia deriva (che temo non riguardi solo me), voglio allargare il campo delle mie considerazioni a un altro aspetto, che è quello della guerra atomica, e dell’annichilimento della civiltà umana, prospettiva sempre più realistica, e comunque sempre più stringente.
Il pericolo della guerra atomica era naturalmente presente alla coscienza del movimento del ’68 globale, ma non divenne ostacolo al dispiegarsi di un processo di organizzazione autonoma. Si trattava di un residuo che la tendenza era destinata a superare, dissolvere, riassorbire.
In una lettera a Mario Tronti scritta del 1962, Raniero Panzieri scrive di avere incontrato un intellettuale tedesco: …”Anders, quello che sostiene che ormai siamo tutti alienati, non dal capitale ma dalla bomba atomica. Come vorrei descriverti la scena di questa riunione dei Quaderni rossi con quest’ultima incarnazione, quasi suprema, dell’ideologia borghese! E le facce di Romolo (Gobbi) e di Monica (Brunatto) e la cattiveria di Rieser (“mi hanno riferito che in Giappone la lotta contro la bomba la fanno perché è una lotta antimperialistica e anticapitalistica.”) Ma bando alla messa al bando. Parliamo delle cose concrete.”
Raniero Panzieri ride del “pessimismo” di Gunther Anders. Noi operaisti eravamo maestri del sarcasmo: ridevamo di tutti coloro che non credevano nella potenza salvifica della tendenza.
Sessant’anni dopo c’è poco da ridere: la previsione di Anders – secondo cui la bomba atomica rendeva inevitabile il ritorno del nazismo su scala globale – appare oggi molto più realistica della previsione di Panzieri, e degli operaisti in generale.
Ciò non toglie che per qualche decennio quell’errore di prospettiva fu fecondo, e permise al nuovo marxismo di anticipare l’evoluzione sociale e di sperimentare forme di autonomia sociale e di vita felice.
Perciò non mi pento del mio operaismo: abbiamo ignorato per qualche decennio l’inevitabile prevalere del residuo bestiale e abbiamo creduto nel possibile prevalere della tendenza umana. Anche se ora siamo smentiti dal ritorno della belva bionda, anche se la maledizione della noce moscata inghiotte ora il pianeta, grazie a quell’errore di prospettiva abbiamo permesso alla società di sperare e di respirare.
Mezzo secolo più tardi dobbiamo riconoscere che l’operaismo – anche nelle sue versioni più elaborate, come quella che include nella definizione di classe operaia il lavoro cognitivo – ha perduto la sua scommessa.
La classe operaia industriale tende a riconoscersi in una forma politica che possiamo definire come nazional-operaista, fondamentalmente razzista e alla fine perdente.
L’internazionalismo ha perduto il suo fondamento sociale, e si è ridotto a mera aspirazione ideologica.
Il processo di emancipazione dal colonialismo, per parte sua, non si è affatto fermato, ma ha perduto il suo carattere internazionalista (che solo la direzione operaia rendeva possibile), e si manifesta come emergenza di capitalismi nazionali in feroce competizione tra di loro, e in guerra contro il nord del mondo.
Si sono quindi create le condizioni di una guerra globale frammentaria dalla quale non si intravvede una via d’uscita.
Il pacifismo è ridotto a mera aspirazione morale, e la guerra si iscrive nei rapporti sociali come fattore catastrofico, che non permette di intravvedere una conclusione che non sia la devastazione della civiltà umana.
Anders e Panzieri non sono destinati a incontrarsi di nuovo, ma penso che oggi Raniero non riderebbe più di Gunther.
30 marzo 2024
pubblicato anche su effimera.org/