di Antonio Alia
Silvia Federici non ha
bisogno di presentazioni. Militante e intellettuale femminista, da sempre
impegnata nei movimenti sociali, è stata tra le fondatrice della campagna Wages for Housework. Le abbiamo
rivolto alcune domande per offrire una lettura della crisi e delle possibili
alternative con cui sicuramente occorre confrontarsi. L’intervista si chiude
con un commento ad un articolo di Nancy Fraser. Nell’intervento, Silvia
Federici ricorda l’importanza di quel femminismo che ha ispirato lotte e
riflessioni teoriche e che non ha concesso nulla ai processi di
istituzionalizzazione neoliberale. Un femminismo che fa definitivamente i conti
con la fine di ogni possibile riformismo contro cui occorre invece “costruire
nuove strutture e nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato”
d. La crisi globale esplosa nel 2007, a sei anni di
distanza, non trova una soluzione di continuità e se la guardiamo da una
prospettiva storica perde il carattere di fenomeno contingente.
Al contrario sembra rappresentare un ulteriore
tappa del processo di ristrutturazione dell’economia globale iniziato nella
seconda metà degli anni ’70 che, con una formula forse un po’ generica, abbiamo
definito neoliberismo. Sono almeno tre le dimensioni interdipendenti di questa
crisi che tu hai definito sistemica: è una crisi di accumulazione del capitale,
è una crisi fiscale ed è anche e soprattutto una crisi della riproduzione
sociale. Puoi dirci che cosa intendi con quest’ultima categoria?
r.
Intendo che, sia pur in modi diversi, sempre meno il proletariato, in tutte le
sue componenti, ha accesso ai mezzi necessari per la propria riproduzione.
Dallo smantellamento del welfare, alla precarizzazione del lavoro, alla
continua espropriazione di terre, boschi, acque, alla distruzione
dell’ambiente, tutte le politiche al centro della globalizzazione tendono a
separare i produttori dai mezzi di riproduzione, a svalutare la forza lavoro, e
a creare una situazione in cui la possibilità di riprodursi implica una lotta
quotidiana. È una crisi che assume aspetti diversi a seconda dei luoghi e dei
gruppi sociali, ma ormai è verificabile in ogni parte del mondo, inclusa
l’Europa. Per questo si riscontra sempre di più la necessità di creare forme di
riproduzione alternative al mercato e ai servizi pubblici gestiti dallo Stato,
sempre più evanescenti. Non si tratta, infatti, di una crisi contingente; anzi
si dovrebbe smettere di definirla una “crisi”, termine che suggerisce una
situazione temporanea. Il cosiddetto neoliberismo, in effetti, vuole “liberare”
il capitale da ogni responsabilità nei confronti della riproduzione della forza
lavoro, vuole cancellare i residui della politica keynesiana, che tuttora
impegnano lo Stato a garantire (anche se sempre meno) certi livelli di
riproduzione. Si tratta, quindi, di una svolta storica che spazza via ogni
possibilità di mediazione, anche perché l’interdipendenza economica e politica
che la globalizzazione ha creato nell’articolazione dell’accumulazione
capitalistica riduce gli spazi di manovra delle singole regioni.
d. Gli effetti della crisi nella sua triplice dimensione si rendono evidenti soprattutto su scala metropolitana, come per esempio ci suggerisce il caso di Detroit, che abbiamo già analizzato su commonware.org. Le città però sono anche il terreno di lotte sociali e movimenti che insistono proprio sul terreno della riproduzione sociale. Le forme organizzative sembrano assumere i tratti di organizzazioni del comune, cioè di forme di produzione e riproduzione della vita alternative al mercato e allo Stato. In che modo queste esperienze di lotta arricchiscono il nostro concetto di comune o ne sottolineano alcuni limiti?
r.
Nelle città si rendono evidenti gli effetti e gli scopi di una crisi che
spesso, però, comincia nelle campagne con l’espropriazione delle terre, che
oggi, come nel sedicesimo secolo, è la condizione essenziale dello sviluppo
capitalistico. Le megacittà dell’America Latina sono il frutto di espulsioni
massicce di contadini/e dalla terra. Proprio per questo è nelle periferie
metropolitane che troviamo gli esempi più significativi di produzione del
comune, come, per esempio, l’occupazione di terre per la costruzione di
quartieri autogestiti, la creazione di forme di riproduzione collettiva come i comedores
populares, i comitati per gli orti urbani, e così via. Che cosa abbiamo
imparato da queste esperienze? Anzitutto che la “produzione del comune” non può
essere mai solamente un fatto economico e/o una produzione di beni materiali da
condividere, ma anzitutto deve essere produzione di rapporti sociali,
circolazione di conoscenze, superamento delle divisioni che le politiche
istituzionali continuamente creano nel sociale, in altre parole deve essere
produzione di nuove forme di lotta e di cambiamento sociale.
Gli
accampamenti periferici dell’America Latina, come Occupy Wall Street e le mille
occupazioni che si sono verificate in tutto il mondo, e poi le banche del
tempo, le libere università, le fabbriche autogestite, tutti questi
“esperimenti” ci insegnano che la produzione del comune è tanto più efficace
quando non è fine a se stessa, ma é parte di un processo più ampio – quando gli
orti urbani si collegano alle scuole e diventano luoghi di apprendimento e
socialità, luoghi in cui le nuove generazioni imparano che il cibo non è
prodotto nei supermercati; quando la creazione di asili nido libera non solo
tempo per il lavoro ma libera tempo per la lotta; quando le fabbriche
autogestite sono inserite in una realtà sociale che garantisce la distribuzione
di ciò che producono e aiuta a decidere cosa produrre. È necessario quindi
collegare gli orti, le “libere università”, i vari knowledge commons o
le strutture mediche comunitarie che si costruiscono nei quartieri, alle lotte
nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche.
A
questo proposito, negli Stati Uniti stiamo riscoprendo la grande varietà di
iniziative che esistevano nel proletariato prima del New Deal e che il New Deal
ha cancellato. Fino agli anni ’30 gran parte della “sicurezza sociale” era
organizzata dal basso, da organizzazioni di lavoratori, che assicuravano
pensioni, fondi per malattie o incidenti sul lavoro.
Oggi,
invece, la produzione del comune, almeno in Europa e negli Stati Uniti, è solo
agli inizi, perché la ristrutturazione industriale e la riorganizzazione del
territorio che ne sono seguite hanno distrutto le basi materiali delle forme di
organizzazione comunitaria che esistevano nelle aree proletarie, e viviamo in
città il cui tessuto sociale è stato in gran parte disintegrato. Quindi il
“comune” è una realtà in gran parte da costruire, possiamo intravederne solo
alcuni elementi, e realisticamente progettare solo su scala limitata. Però è
necessario immaginare i nostri “commons”, per limitati che ora siano, come
parte di un progetto più ampio. É chiaro, comunque, che non sempre è facile,
specialmente all’inizio, tracciare una linea precisa tra ciò che corrisponde a
un’immediata necessità materiale e ciò che si inserisce in una prospettiva
politica larga. Negli anni che seguirono al golpe di Pinochet in Cile, nei
quartieri proletari, come la Victoria, le donne si mobilitarono di fronte allo
spaventoso impoverimento delle proprie famiglie, unendo le proprie forze per
fare la spesa insieme, cucinare insieme, cucire insieme, avendo come unico
scopo la sopravvivenza; però in questo modo ruppero l’isolamento e la paralisi
che il golpe aveva determinato e trasformarono anche il processo della propria
riproduzione e il proprio ruolo nella comunità.
A
livello più generale, direi che costruzione di forme cooperative/collettive di
riproduzione anche quando motivata dalla necessità della sopravvivenza è un
passo per rompere l’isolamento in cui oggi il lavoro di riproduzione è
organizzato, cosa di cui fanno le spese soprattutto le donne, e assume forme
drammatiche in presenza di bambini piccoli o malati.
d. Non possiamo evitare di notare la forte ambivalenza che caratterizza i commons. Se da un lato costituiscono straordinari dispositivi di soggettivazione, dall’altro sembrano perfettamente compatibili con le politiche di austerità in quanto strumenti di socializzazione dei costi di riproduzione. Non a caso in tempi di crisi i beni comuni sono entrati nell’armamentario retorico e politico dei partiti di governo. In Gran Bretagna, per esempio, il neoliberismo dei conservatori ha cambiato pelle. Se Margaret Thatcher, per giustificare le politiche di dismissione del welfare, sosteneva che “there is no such thing as society”, David Cameron qualche decennio dopo invece afferma la “Big Society”, ovvero la centralità dell’autonomia e delle capacità produttive e cooperative presenti nel tessuto sociale. In Italia le amministrazioni arancioni fanno ricorso sempre più spesso alla partecipazione e al lavoro volontario dei cittadini per sopperire alle lacune del pubblico nella fornitura dei servizi (biblioteche, manutenzione degli spazi urbani, ecc.). Quando il pubblico non riesce più a garantire la riproduzione sociale si ricorre al lavoro e ai saperi diffusi nella società. Come si può sciogliere questa ambivalenza? Come evitare che i commons siano strumenti di gestione della povertà invece che dispositivi di riappropriazione della ricchezza?
r.
Sono d’accordo che il pericolo della cooptazione è forte, anche perché la
scoperta del comune sta avvenendo in aree politiche diverse. Oltre al tentativo
di utilizzare le “capacità produttive e cooperative presenti nel tessuto
sociale” per risparmiare sui costi della riproduzione sociale, troviamo oggi
anche la proposta di istituire il comune come area legale intermedia tra il
pubblico e il privato, coesistente con entrambi invece che alternativa. C’è un
area politica socialdemocratica, rappresentata, per esempio, da finanzieri come
Soros, che si preoccupa delle conseguenze sociali di un processo di
privatizzazione portato agli estremi, e si propone di creare spazi sociali
capaci di attutire i contraccolpi della politica neoliberale.Come ho già
accennato, l’unico modo per evitare che i commons siano cooptati, coinvolti in
progetti di volontariato, o si traducano in una ridistribuzione della povertà è
vedere il comune come un momento di un processo più ampio di cambiamento
sociale, di costruzione di un interesse comune e non come un fine in sé. Non
credo che esista una formula che ci immunizzi dalla cooptazione, ma esistono
modi con cui misurare le potenzialità dei progetti che costruiamo, per esempio
in che misura promuovo una ricomposizione sociale, nel territorio, o una
riappropriazione di forme di ricchezza – tempo, spazi, beni comuni – o
aumentano gli scambi solidali. Il vantaggio è che oggi disponiamo di una vasta
rete di esperienze che ci permettono di valutare varie forme di costruzione del
comune, rapportate al contesto sociale in cui si collocano. Penso al grande
sforzo che le comunità zapatiste stanno portando avanti per costruire una società
libera dai rapporti di mercato; penso anche alla rivoluzione nelle forme della
riproduzione sociale che sta andando avanti nelle periferie urbane dell’America
Latina, che porta Zibechi a parlare di “società in movimento”. Queste forme di
produzione del comune hanno radici storiche molto diverse da quelle che
troviamo in Italia, o in Grecia o a New York. Però ne possiamo trarre esempi
utili*. Credo che un esempio utile per valutare come i rischi della
cooptazione possano essere evitati è quello delle iniziative che si sono messe
in piedi a Napoli in risposta alla cosiddetta crisi dei rifiuti. Io ne ho una
conoscenza di seconda mano, derivata da interviste e articoli. Mi sembra però
che in molti casi, soprattutto con la formazione della Zero Waste network, si
sia trattato di forme di automobilitazione che si proponevano di cambiare i
rapporti sociali nel quartiere e non solo eliminare la spazzatura. Per esempio
si proponevano di resistere alla costruzione di inceneritori, di cambiare il
sistema di riciclo dei materiali, di recuperare materiali destinati a essere
scartati, di ridurre la produzione di scarti, e di aprire un dibattito pubblico
sulle condizioni di un ambiente sano. Anche per questo, pare, il governo
Berlusconi ha fatto ricorso velocemente all’intervento dell’esercito.
d. Sul blog di Effimera ospitato dai Quaderni di San Precario è stata pubblicata – con un bel cappello introduttivo di Cristina Morini – la traduzione di un articolo di Nancy Fraser che, dopo aver messo a critica la compatibilità di un certo femminismo con il neoliberismo, si conclude evocando un modello di welfare gestito dal pubblico. Tuttavia da qualche decennio, anche se in maniera differenziata, il settore dei servizi sociali e del welfare è stato investito da profondi processi di finanziarizzazione e di aziendalizzazione che molta letteratura ha indicato con la formula “New Public Management”. Se da un lato queste riforme possono essere lette come uno strumento che il capitale utilizza per espropriare su un nuovo terreno la ricchezza sociale e tentare risolvere la crisi di accumulazione, dall’altro probabilmente possiamo interpretarle come una risposta dall'alto alla critica, agita dai movimenti sociali e femministi nel corso degli anni ’70, al paternalismo e alle forme di controllo che caratterizzavano il vecchio welfare statale e fordista. Bisogna sottolineare che questi processi di riorganizzazione sono caratterizzati, a differenza di quanto sostiene la rappresentazione dominante del neoliberismo come Stato minimo, da un forte intervento dei poteri pubblici che devono assicurare per esempio la creazione e l’espansione di un mercato, promuovere adeguati strumenti finanziari e garantire competitività e deregulation. Di fronte a questa trasformazione del ruolo dello Stato e a partire dallo sforzo teorico e pratico di pensare e praticare forme di welfare comune, quale deve essere secondo te l’attitudine dei movimenti nei confronti del pubblico?
r.
Ci si dovrebbe domandare che cosa ha spinto Nancy Fraser a questa improvvisa
presa di coscienza che arriva con più di trent’anni di ritardo su quanto molte
femministe hanno già largamente denunciato, ed è inoltre formulata in termini
così generalizzanti da precludere la possibilità di una salutare autocritica.
Risponderò invece con alcune precisazioni.
Anzitutto,
come ho già accennato, attaccando il femminismo in generale Fraser contribuisce
a seppellire tutta quell’ala del femminismo che già negli ’70 si muoveva in una
prospettiva anti-capitalista e ha poi puntualmente contrastato il progetto di
istituzionalizzazione del femminismo portato avanti dalle Nazioni Unite, a cui
una buona parte del movimento femminista ha collaborato. È interessante che
Fraser abbia deciso di ignorare la campagna internazionale per il salario al
lavoro domestico e, inoltre, il movimento femminista che si è dispiegato negli
anni ’80, negli Stati Uniti e in Europa, contro la guerra, le frange radicali
dell’eco-femminismo, ispirate (per esempio) all’opera di femministe come Maria
Mies e Ariel Salleh, il femminismo delle donne nere, e la grande varietà di
gruppi di donne nel “Terzo Mondo” in lotta per un’altra globalizzazione.
Aggiungo che la critica che Fraser muove al femminismo è a doppio taglio e, a
mio avviso, inaccettabile. Se è vero, infatti, che buona parte del movimento
femminista – a livello internazionale – ha appoggiato e stimolato
l’integrazione delle donne nel progetto neoliberale, è altrettanto vero che le
modalità di questo processo non sono quelle indicate da Fraser. Le femministe
hanno giustamente criticato il salario familiare – the family wage – in quanto
istituzione intesa a garantire un ineguale divisione del lavoro nella famiglia e
nella società, costruita sopra il divario tra salario e non salario. Come io e
molte altre compagne abbiamo spesso denunciato, questa ineguale divisione del
lavoro e il contrasto tra lavoro salariato e non-salariato sono stati elementi
fondanti dell’accumulazione capitalistica. Il problema è che sia le femministe
liberali, sia le femministe socialiste hanno sottoscritto la svalutazione
tipicamente capitalistica del lavoro di riproduzione, hanno abbracciato come
unica via di emancipazione il lavoro salariato, proprio nel momento in cui era
oggetto di una grande rifiuto da parte di lavoratori maschi e femmine in tutto
il mondo, hanno abbandonato il terreno della riproduzione come terreno di
lotta, accettando in pratica la sua svalutazione e la sua invisibilità come
lavoro, nell’ipotesi che, una volta pienamente integrate nel mercato del lavoro
salariato, le donne avrebbero avuto un maggiore potere sociale. Quello che è
successo, che molte di noi già avevano previsto all’inizio degli anni ’70, è
noto. L’entrata in massa delle donne nel mercato del lavoro ha aiutato la
ristrutturazione capitalistica del lavoro. Non a caso, si è creata la necessità
di un cambiamento nell’assetto istituzionale, volto a garantire una (parziale)
de-sessualizzazione del mercato del lavoro e l’istituzione di un rapporto più
diretto tra donne, Stato e capitale. Come ho detto, Fraser equivoca. La critica
femminista all’organizzazione del lavoro e del salario nella famiglia, come
anche la critica femminista al “welfare state”, è stata non solo giustificata
ma strategicamente importante per una politica femminista di classe. Come una
vasta letteratura, a cominciare dal libro di Mariarosa dalla Costa Famiglia,
Welfare e Stato (1983), ha dimostrato, l’istituzione del welfare nel
New Deal era in funzione di un nuovo contratto sociale finalizzato all’aumento
della produttività del lavoro e organizzata in modo estremamente selettivo e
divisorio –che per esempio escludeva le lavoratrici domestiche dalla Sicurezza
Sociale (Social Security), oltre a essere organizzato in modo decisamente
razzista. Ciò non vuol dire che il welfare non si dovesse difendere, in quanto
terreno di negoziazione e scontro con lo Stato per la riappropriazione della
ricchezza sociale. L’organizzazione che con altre compagne ho fondato a New
York nel 1973, il Comitato di NY per il Salario al Lavoro Domestico, fin
dall’inizio ha appoggiato le lotte che le donne in welfare portavano avanti
contro i tagli, per un ampliamento del reddito, per l’abolizione dei sistemi
disciplinari connessi, per una diversa organizzazione e definizione sociale del
welfare. Abbiamo sempre sostenuto che i soldi che le donne riceveva mediante
l’AFDC – Aiuto alle Famiglie con Bambini Dipendenti – rappresentavano un primo
salario al lavoro domestico, in quanto rappresentava un riconoscimento da parte
dello Stato che la cura dei bambini è lavoro – e lavoro sociale, non lavoro
d’amore. Una parte centrale della nostra campagna è stata dedicata a protestare
contro le misure intimidatorie e la campagna diffamatoria che sempre più lo
Stato di New York e il governo federale, coadiuvati dalla stampa, hanno portato
avanti contro le donne che ricevevano il welfare. Non capisco come Fraser possa
ignorare tutto questo e spostare il tiro sulla critica femminista alla
divisione sessuale del lavoro e al salario familiare.
Per
quanto riguarda il presente, credo che siamo in momento molto interessante, in
cui la critica al welfare e al pubblico – sacrosanta – si coniuga, almeno negli
Stati Uniti (ma mi pare anche in Spagna) con il tentativo di congiungere
pubblico e comune, in modo che le lotte in entrambe queste aree si possano
potenziare reciprocamente. Mi spiego. Il dibattito sullo smantellamento del
welfare ha portato alla luce il fatto che fino agli anni ’30, negli Stati
Uniti, il 70% dei servizi poi organizzati dallo Stato era forniti da
organizzazioni di lavoratori, che per esempio assicuravano pensioni, cure
mediche, fondi per funerali, assicurazioni per la vita. Questa vasta area di
iniziative (con tutti i suoi limiti, per altro riproposti dal welfare) ha
provveduto alla riproduzione di milioni di persone e ha cominciato a
dissolversi solo dopo il 1935 con l’avvento dello Stato del welfare. Ovviamente
non si vuole riproporre un ritorno al passato, ma rileggere questa storia serve
a sciogliere un immaginario collettivo spesso congelato riguardo alle
possibilità di costruzione di un’alternativa. È altrettanto ovvio che lo Stato
cerchi di catturare le iniziative con cui si cerca di creare forme più
cooperative e più autonome di riproduzione; ma proprio per questo è importante
ricordare che una delle ragioni per cui il “welfare state” fu introdotto negli
anni ’30 fu proprio il tentativo di frenare l’espandersi di queste iniziative
dal basso, che erano la base del potere sociale delle molte Fraternitiesche
proliferavano tra il proletariato, oltre al tentativo di frenare l’ondata di
lotte che era andata crescendo durante la Depressione. In conclusione,
l’alternativa non si pone nei termini concepiti da Fraser. Non so come si possa
concepire oggi di “vincolare il capitale a finalità di giustizia”, o come si
possa pensare di “rafforzare i poteri pubblici”. Il discorso invece è come
collegare le lotte per il comune alle lotte che i lavoratori e le lavoratrici
nel settore pubblico – infermiere, insegnanti, ecc. – stanno portando avanti,
in modo da congiungere le conoscenze e le risorse e costruire nuove strutture e
nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato.
* A New York e in California, per esempio, alcuni
collettivi, ispirandosi alle forme di autogoverno che esistono in varie
comunità indigene dell’America Latina, hanno dato vita a “accountability
projects”, cioè iniziative che permettono di affrontare gli abusi commessi nei
movimenti stessi senza ricorrere alla polizia, attraverso collegamenti con
organizzazioni di quartiere che intervengono in situazioni di crisi, non per
punire e escludere, ma per evidenziare l’importanza di comportamenti solidali.