di Mimmo Sersante
Riproduciamo la conversazione tra
Mimmo Sersante e Toni Negri all’interno della riedizione di Fabbriche
del soggetto (Ombre Corte, Verona
2013), preceduta dalla lettera inviata da Mimmo Sersante al “manifesto” in
seguito alla pubblicazione della “recensione” di G. Roggero al libro (7
dicembre 2013)
“Leggo con sorpresa la recensione di Gigi Roggero a Fabbriche
del soggetto di Toni Negri, un libro importante per chiunque sia
interessato a conoscere il pensiero filosofico dell’Autore. Ora a me sembra che
le intenzioni di Roggero siano altre. Nessun cenno al tema veramente in
questione nei saggi raccolti in volume, nessuna valutazione circa la cosiddetta
fase etica del percorso negriano che pure avrebbe meritato una qualche
attenzione, non fosse per i nomi tirati in ballo e con i quali Negri stabilisce
un serrato vis-à -vis: Hegel, Kant, Rawls, Kelsen, Habermas,
Luhmann, Thom, Wittgenstein, Agamben, Frege e ovviamente Marx, Foucault e
Deleuze. Possibile che mezza filosofia occidentale tirata in ballo per meditare
sulla sconfitta e pensare alla ricostruzione non abbia sollevato in Roggero un
qualche dubbio circa la natura squisitamente filosofica del volume in
questione? O non considera “l’etica una politica”? L’elogio dell’assenza di
memoria offre forse la chiave di lettura per apprezzare questo archivio
negriano proprio perchè ogni ipotesi di ricostruzione dopo la catastrofe
subita, ogni possibilità di ricostruzione del mondo devono lasciarsi alle
spalle “ogni residua illusione di continuità” che Roggero, a me sembra, intende
invece difendere e riattualizzare. Perché altrimenti mostra di avercela così
tanto con Negri, spocchiosamente definito genio individuale dalle belle idee, e
con sparuti gruppi di intellettuali per i quali, ormai in profonda
solitudine, si sarebbe ridotto a scrivere? Perché tanto livore?” (Mimmo Sersante)
A mo’ di introduzione alla nuova edizione di
“Fabbriche del soggetto” – Una conversazione con Antonio Negri
Mimmo Sersante – Il
libro raccoglie testi scritti tra il 1981 e il 1986, gli anni forse più duri
della tua vita di militante comunista ma anche più produttivi dal punto di
vista della ricerca filosofica. Mi riferisco all’incontro con Spinoza e la
filosofia poststrutturalista francese. Sono anche gli anni della rivoluzione
neoliberista e della crisi irreversibile delle politiche keynesiane in tutto
l’occidente capitalistico. L’Italia non fa eccezione. Da noi anzi la sconfitta
fu più lacerante se pensiamo all’ottimismo alimentato per vent’anni dalle lotte
autonome degli operai e degli studenti. Ci sono pagine in questo libro di
esplicita autocritica sui limiti della ricerca, tua e di molti tuoi compagni,
condotta durante gli anni Settanta sul tema del soggetto.
Antonio Negri –
Questa autocritica la troviamo in primo luogo in La costituzione del
tempo. Prolegomeni1. Qui abbiamo la critica al fatto che non
eravamo riusciti a mettere assieme le determinazioni costitutive e le
dimensioni politiche di organizzazione, per l’appunto la composizione tecnica e
la composizione politica di classe. C’è stato questo rovello per tutti gli anni
Settanta: di non riuscire a far funzionare, di fronte alla dissoluzione della
struttura tecnica della classe operaia, il vecchio schema che era quello degli
anni Sessanta e che aveva funzionato alla Fiat e a Porto Marghera. In quel
periodo ci troviamo di fronte a un’accelerazione nella trasformazione che non
ci permette di inseguirla organizzativamente. Cominciano a esserci fatti come
il Parco Lambro oppure i comportamenti dei nuovi assunti nelle fabbriche, che
portavano la nuova composizione sociale dentro le fabbriche stesse, e che noi
eravamo assolutamente incapaci di inseguire; avevamo capito che quello era il
problema ma non riuscivamo a dargli una forma organizzativa, sempre che una
forma organizzativa possa darsi di questo processo. Il fatto di non essere
riusciti a dare una risposta a questo processo ha significato che ci si muoveva
sul terreno organizzativo sempre attorno alla solita alternativa: da una parte
l’alternativa teorica di comprensione aperta, espansiva che tuttavia non trova
soluzione, dall’altra parte invece una scelta interiorizzata, identitaria che
finiva, non solo per i singoli ma anche per gruppi che altrimenti si ritenevano
impotenti, per tradursi in organizzazione armata. I termini dell’autocritica,
dunque, erano questi, e noi questa autocritica ce la siamo fatta ampiamente. Il
vecchio schema della trasformazione della composizione tecnica in
organizzazione della composizione politica non funzionava più; eravamo di
fronte alla dimensione sociale del lavoro. Questa dimensione sociale non
riuscivamo a organizzarla, e ci trovavamo di fronte a questa alternativa
continua: inseguimento teorico che falliva come funzione organizzativa anche se
aveva dei successi colossali dal punto di vista della conoscenza e, dall’altra
parte, tentativi identitari di piccoli gruppi che finivano inevitabilmente
nella lotta armata. A questo si accompagnava, sia pure con qualche incertezza,
un’altra autocritica che era fortissima, quella di non aver capito che i
rapporti di forza erano ormai perdenti dopo il ’77. Se l’avessimo capito
avremmo con tutta probabilità innalzato delle difese più forti di quelle che
riuscimmo a predisporre allora.
Sersante – Il
libro non si sofferma sulla genesi della crisi e della sconfitta ma pone il
lettore, certamente in quegli anni non un lettore generico, in medias res,
nel bel mezzo della situazione che tu indichi con il concetto marxiano di
“sussunzione reale”. Ma prima di accompagnarlo a riflettere su questo nuovo
mondo che la rivoluzione capitalista sta costruendo, c’è un invito pressante
che rivolgi al lettore: di rovesciare l’aforisma “pessimismo della ragione,
ottimismo della volontà”, accolto invece alla lettera dai filosofi della
postmodernità. Forse dietro l’invito c’è Spinoza, sicuramente il bisogno di
tornare al pensiero e all’azione nonostante la pesante sconfitta.
Negri –
Sì, forse il concetto di sussunzione reale era qualcosa di provvisorio, anche
se la sua elaborazione risale agli anni Settanta. Lì c’è il sentimento che il
processo sia irreversibile… Cosa vuol dire “ottimismo della ragione”? Vuol dire
che la mutazione è avvenuta e quindi siamo più forti nel contrastare il dominio
capitalistico, che la sussunzione reale ci dà la possibilità di batterci e di
vincere sul terreno delle nuove lotte sociali, che è anche fondamento di una
nuova fase teorica. E in effetti avevamo per certi versi ragione perché è in
quella fase che i conti dello Stato cominciano ad andare fuori controllo, è la
fase nella quale questi devono difendersi da un processo di
insurrezione allargata e spendono, spendono, spendono; è il momento in cui la cassa
integrazione è al 95 per cento, in cui la scuola è ben pagata. A Milano, ad
esempio, c’era piena occupazione nonostante la crisi: tutti segni che il
rapporto di forza funzionava a nostro esclusivo vantaggio. Di qui l’invito
all’ottimismo. Su questo terreno è possibile il rovesciamento delle prime
culture postmoderne che cominciano ad apparire sull’orizzonte: Lyotard,
Baudrillard e compagni. Il nostro è un rovesciamento in senso ottimistico. Il
pensiero debole viene fuori un po’ più tardi. Qui vale ancora l’eccezione
italiana del pensiero della crisi, che è da iscrivere nella fase compresa tra
il ’73 e il ’77-78, e che ritroviamo nei discorsi di Cacciari e Tronti di quel
periodo: in quegli anni siamo alle ultime fasi dell’operaismo. Si tratta di un
discorso sulla crisi assimilabile al pensiero negativo piuttosto che a quello
postmoderno di tipo francese. Di contro, in quello stesso periodo, c’è quel
nostro rovesciamento ottimistico del giudizio storico. È vero, poi tutto è
sembrato precipitare attorno alla militarizzazione del conflitto con le
conseguenze che conosciamo: prima la sconfitta militare, poi, a seguire, quella
politica. Ma questo che significa? Che nutrire quell’ottimismo fu un errore?
Malgrado la sconfitta, negli anni a seguire abbiamo continuato a vivere e a
produrre proprio grazie a quell’ottimismo e questo libro ne è la testimonianza
più sincera. Prendiamo i termini del sottotitolo disposti allora in un
crescendo: “profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi,
sovversioni, sistemi, potenze, fino al dispositivo ontologico”2.
Ebbene, questi termini erano presenti nella letteratura del periodo e venivano
usati dal pensiero debole per mascherarsi e per mistificare la realtà, per
illustrare il trionfo della “complessità”. Qui invece sono serviti a
determinare meglio il passaggio all’ontologia, indubbiamente mediato dallo
studio di Spinoza, e questo passaggio ci proietta oltre la genesi della crisi e
il fatto della sconfitta.
Ma perché sono andato a cercare Spinoza? Evidentemente perché avevo bisogno di spiegarmi il fatto che la sconfitta subita, malgrado tutto, lasciava una composizione ontologica, cioè insieme tecnica e politica, più avanzata. Da questo punto di vista è fuori dubbio che in questo libro c’è già il foucaultismo, cioè un’ontologia aperta della contemporaneità che sorge appunto come risposta a un’ontologia storica della sconfitta. Il libro nasce come risposta al senso della sconfitta e alla fine dell’utilizzo in maniera meccanica del concetto di composizione di classe tecnica e politica. Finisce quel congegno operaista classico. Per conquistare un futuro c’è bisogno di una determinazione storica; questa determinazione storica è, sul piano logico, un passaggio foucaultiano: si noti che esso è fatto nell’ignoranza di Foucault. Qui c’è da sottolineare il parallelismo tra lo sviluppo del pensiero francese e del pensiero sulle lotte in Italia, sviluppi assolutamente convergenti. È così che si mette da parte il postmodernismo allora di moda, come il pensiero debole. Questo è il punto centrale in questa faccenda. Per me è valso Spinoza, per Foucault è valsa la versione ontologica del nietzschianesimo; ma Spinoza e Nietzsche, come sappiamo, sono terribilmente vicini. Però tutto questo non avviene in maniera così lucida come lo stiamo dicendo adesso e come si potrebbe pensare oggi; non c’è niente di lucido in queste storie di pensiero che sono storie di vita. Secondo me in questa vicenda c’è un preconcettuale che è tanto importante quanto il concettuale. Da questo punto di vista, certe distinzioni molto fini di Husserl tornano utili per capire non solo come si forma il pensiero ma anche cosa è successo: sono esperienze di una Erlebnis, cioè dispositivi vitali più che formazioni etiche, dispositivi di conoscenza che sono anche etici.
Ma perché sono andato a cercare Spinoza? Evidentemente perché avevo bisogno di spiegarmi il fatto che la sconfitta subita, malgrado tutto, lasciava una composizione ontologica, cioè insieme tecnica e politica, più avanzata. Da questo punto di vista è fuori dubbio che in questo libro c’è già il foucaultismo, cioè un’ontologia aperta della contemporaneità che sorge appunto come risposta a un’ontologia storica della sconfitta. Il libro nasce come risposta al senso della sconfitta e alla fine dell’utilizzo in maniera meccanica del concetto di composizione di classe tecnica e politica. Finisce quel congegno operaista classico. Per conquistare un futuro c’è bisogno di una determinazione storica; questa determinazione storica è, sul piano logico, un passaggio foucaultiano: si noti che esso è fatto nell’ignoranza di Foucault. Qui c’è da sottolineare il parallelismo tra lo sviluppo del pensiero francese e del pensiero sulle lotte in Italia, sviluppi assolutamente convergenti. È così che si mette da parte il postmodernismo allora di moda, come il pensiero debole. Questo è il punto centrale in questa faccenda. Per me è valso Spinoza, per Foucault è valsa la versione ontologica del nietzschianesimo; ma Spinoza e Nietzsche, come sappiamo, sono terribilmente vicini. Però tutto questo non avviene in maniera così lucida come lo stiamo dicendo adesso e come si potrebbe pensare oggi; non c’è niente di lucido in queste storie di pensiero che sono storie di vita. Secondo me in questa vicenda c’è un preconcettuale che è tanto importante quanto il concettuale. Da questo punto di vista, certe distinzioni molto fini di Husserl tornano utili per capire non solo come si forma il pensiero ma anche cosa è successo: sono esperienze di una Erlebnis, cioè dispositivi vitali più che formazioni etiche, dispositivi di conoscenza che sono anche etici.
Sersante – La
prima delle tre parti in cui il libro è suddiviso è dedicata al concetto
marxiano di sussunzione reale che preferisci in questa fase della tua ricerca
al concetto di postmoderno. D’altra parte si trattava di non perdere di vista
proprio ciò che la logica culturale del “tardo capitalismo”, per usare
un’espressione di Fredric Jameson3, dimenticava: la lotta di classe
e lo sfruttamento a proposito del quale tu scrivi che il potere del capitale
può distruggere tutto, finanche l’essere. Veramente il concetto di sussunzione
reale rende questa idea?
Negri –
È un’idea che questo libro ha in comune con Il comunismo e la guerra4,dove
c’è la teorizzazione dello Stato nucleare. Si tratta di un riferimento alla
prima fase del pensiero ecologico che stava maturando in Germania. Recentemente
ho ritirato fuori questo concetto in Giappone, dove il discorso sullo Stato
nucleare è particolarmente forte. Siamo alla follia di un capitale che ti
piazza cinquanta centrali nucleari su una faglia in movimento, per cui
Fukushima è semplicemente uno dei tanti incidenti che possono succedere. Vai a
Tokio e trovi i tuoi compagni che misurano la radioattività su ogni cosa che si
mangia. Per dirti a che punto è l’isterismo individuale e collettivo. Questa idea
di un capitalismo che nella sussunzione reale e nella sua occupazione del mondo
trasforma anche le strutture del potere in strutture autodistruttive, è per me
qualche cosa che resta fondamentale. È qui che il mio ottimismo trova un grosso
limite. Proprio in questi ultimi mesi ho affrontato, come dicevo, questo tema
in Giappone e in Turchia. Cosa insegnano questi paesi? Che dove si raggiunge
questo limite c’è anche l’azione contraria. È così: anche l’azione proletaria
può diventare suicida e incapace di soluzione. Il terrorismo autodistruttivo e
religioso è qualcosa che va messo al livello dello Stato nucleare. Dentro un
mondo capitalistico che si compatta, ci sono questi dispositivi di distruzione
che diventano particolarmente forti. Ma non credo di aver insistito troppo nel
mio libro su queste cose. C’è invece qualcosa di più che mi viene riconosciuto
in Giappone e in Turchia, due paesi che hanno sperimentato negli anni Settanta
forme di lotta politica molto simili a quelle dell’Italia. In Giappone c’era l’Arg,
Nihon Sekigun, la cosiddetta “armata rossa giapponese”, un movimento che viene
distrutto sia attraverso la repressione sia attraverso infiltrazioni che
determinano suicidi alla giapponese; in Turchia ritroviamo lo scontro tra
opposti estremismi messo in piedi in maniera provocatoria dagli agenti dalla
Nato. In entrambi questi paesi una delle cose più importanti che vi ho trovato
è il riconoscimento che il pensiero italiano è riuscito a riproporre la
tematica di una sinistra forte e vincente al di là della tragedia degli anni
Settanta. Siamo riusciti a determinare la continuità oltre la persecuzione. Per
sorriderne in termini di storia cristiana! Si tratta di una cosa di una portata
enorme che ci viene riconosciuta sul piano teorico e sul piano politico. Sì,
c’è stato un momento di resistenza teorica forte che è stato prodotto dalla
galera – e, si badi bene, la questione non riguarda solo me, ma noi,
un’intera generazione. C’è stata quindi questa nostra resistenza che ha
significato riaffermare che dentro la cosiddetta sussunzione reale, dentro la
sua larga estensione, la lotta di classe comunque continuava oltre tutte le
trasformazioni possibili della forza lavoro.
Sersante – Questo
motivo ci introduce alla seconda parte del libro in cui il tema della rivoluzione
torna d’attualità proprio perché bisogna disarmare il potere del capitale prima
che sia troppo tardi. È la parte filosoficamente più impegnativa. E
accattivante. Intanto il lettore, soprattutto se giovane e senza memoria,
leggendo queste pagine deve prendere atto che un uso diverso della filosofia è
possibile. Infatti se per una ragione d’età è stato costretto a formarsi a
quella che Vattimo ha chiamato la nuova koiné della cultura
degli anni Ottanta, vale a dire l’ermeneutica di derivazione nietzschiana e
heideggeriana5, ora può apprendere una prima lezione di metodo:
servirsi della filosofia come di una cassetta degli attrezzi da utilizzare per
riproporre un pensiero forte al servizio di una pratica politica.
Negri –
Questo catastrofismo direi di tenerlo però a lato. Anche per me queste due idee
della filosofia come cassetta degli attrezzi e produzione di soggettività sono
fondamentali. Lo dicevamo anche prima, e questa tua domanda non aggiunge molto
al già detto, se non la specificazione rispetto alla tematica del nietzschianesimo
italiano che troviamo nel pensiero della Krisis e
dell’heideggerismo nel pensiero debole. Il nietzschianesimo e l’ontologia che
ne deriva hanno in sé il pensiero della morte: esso diventa il pensiero
assolutamente fondamentale e centrale. Questa fu la posizione postoperaista di
alcuni: la politica è finita, non restano che le istituzioni per salvarci, alla
fine ci resta il solo katechon. Si tratta di una prima posizione,
quella di Cacciari-Tronti o Tronti-Cacciari. Una seconda posizione, invece, è
quella di Vattimo, indubbiamente più heideggeriana. In questo caso il nostro
destino è segnato da una nullità intrinseca rispetto alla quale possiamo solo
resistere. Non si tratta solamente della fine del pensiero moderno ma è il
tentativo di annullare qualsiasi alternativa alla modernità; è quindi il post
moderno come negatività pura. E qui c’è effettivamente il bisogno di una
risposta che viene organizzato attorno alla rivista “Futur Antérieur”e poi in
maniera decisiva intorno a Impero6. È con Impero che
giunge a maturità il discorso sulla produzione di soggettività già presente, ma
ancora astrattamente, nel mio Leopardi7. In Impero c’è
la scoperta, la riconciliazione dell’orizzonte. Tutto questo è preparato nel
libro, cioè tutto questo è in fieri. È vero: qui parto da un
frammento del giovane Hegel, che assieme a Kant appartiene alla mia prima
formazione filosofica. In talune pagine del libro c’è un ritorno alla
filosofia, però non accademico.
Sersante – Siamo
al tema dell’antagonismo. Finora ci siamo girati attorno e sempre in compagnia
di Spinoza, che non smette di ricordarci di agire razionalmente, cioè secondo
la necessità della nostra natura8. Tu infatti consideri
l’antagonismo alla stregua di un principio d’individuazione. Ma qual era il
soggetto in grado allora di farsene carico? Avevi escluso che potesse essere
individuato secondo la vecchia idea operaista di composizione tecnica e
politica perché rinviava a un rapporto ancora dialettico. Per questo motivo
spostavi tutta la questione sulla produzione di soggettività, sul farsi del
soggetto, sul concetto di costituzione e di pratica sociale come sembra
alludere il titolo stesso del libro. Vorresti chiarire questo nodo di problemi?
Negri –
È chiaro che qui c’è un passaggio molto fragile che sarà risolto solo con il
concetto di “moltitudine”. Il concetto di classe, così come mi è stato dato
dall’età fordista e nella mia prima esperienza, non è più utilizzabile. Mi
trovo di fronte a un primo concetto di “operaio sociale” che venivo elaborando
e che, tuttavia, aveva mostrato antinomie terribili. Il problema non era
semplicemente quello di dire che il lavoro era diventato sociale ma di trovare
una soggettività. Era proprio attorno a questa soggettività che era fallito il
progetto dell’autonomia negli anni Settanta. Fallisce perché siamo respinti o
sul terreno delle avanguardie e quindi del partito o sul terreno dell’identità
come gruppo e quindi dell’insurrezionalismo. A questo punto io affermo che la
cosa non è finita perché in atto c’è una mutazione ontologica che ha residuato
su questo terreno la potenza dei soggetti produttivi. Come si chiamano questi
soggetti, cosa significa che questi soggetti produttivi diventano nuovi
produttori di soggettività politica? Questa è la domanda che mi pongo. Questa
domanda trova una protesi che possiamo indicare col termine “etica”: bisogna
produrre soggettività buona. Solo più tardi interviene il discorso sul lavoro
cognitivo, il discorso sulla singolarizzazione, il discorso sul comune
moltitudinario. In questa fase sto fermo a quella che è una determinazione
etica in cui l’antagonismo, cioè la resistenza e il rifiuto, sono l’unico
aspetto dell’attività resistente, non ancora qualificato ontologicamente. Si
tratta tuttavia di una resistenza che ha dimensione storica e ontologica.
Questo libro offre una teoria di passaggio in cui il concetto di moltitudine
non esiste ancora, cioè una moltitudine in lotta: la ricomposizione
dell’orizzonte materialista non c’è ancora. È vero quello che tu dici. In
questa terza parte c’è il richiamo larghissimo ad autori e alle più varie
esperienze; se non ricordo male c’è un breve scritto sull’“assenza di memoria”
che è sempre un discorso sull’ontologia. Non dobbiamo ricordare nulla, però in
quel passato siamo divenuti diversi: questo significa quell’articolo. Poi c’è
il discorso sulla potenza sociale del lavoro; si tratta di una rivendicazione
del concetto di forza produttiva. L’articolo sullo schematismo della ragione si
confronta con il pensiero di Jean Petitot, un allievo di René Thom, medaglia
Fields per la matematica (l’equivalente del premio Nobel per i matematici),
autore che allora circolava moltissimo, esperto di teoria degli insiemi;
attorno a queste tematiche si riaffermava quello che era un concetto di
funzione positiva, di invenzione: era per così dire un’apertura al concetto di
“dispositivo”. C’è il discorso sull’essere di Agamben, in cui chiedo a un Agamben
giovanissimo, di aprirsi dopo aver prodotto questo sforzo critico sul pensiero
negativo. Nella nota sul libro della De Monticelli su Frege indicavo il limite
etico di tutta la tematica wittgensteiniana e come però si potesse lavorare su
questo. Certo, l’aforisma di cui si parlava prima, quello sull’ottimismo, è un
recupero di Spinoza. Tutto questo viene posto per costruire una dimensione
etico-filosofica forte. Un’etica forte non è ancora materialismo di nuova
specie, che era in fondo quello che cercavo. Era una necessità – si tengano
presenti le condizioni in cui si è sviluppato questo pensiero tra la galera e
la prima fase, durissima, dell’esilio. È un tentativo fondamentalmente etico di
tenere botta.
Sersante – Siamo
agli inizi degli anni Ottanta e prospetti un modo di produrre in cui la
comunicazione, e quindi il linguaggio, diventa l’elemento centrale. Si può
parlare allora, come fa Timothy Murphy9 nel libro che ti
dedica, di una sorta di svolta linguistica anche nella tua riflessione?
Negri –
Lascerei da parte il libro su Leopardi, che mi serve per liquidare il
nietzschianesimo negativo. Leopardi va inserito in quello che dicevamo un
momento fa, dentro quel quadro. Era il tentativo di dire: va be’, siamo stati
sconfitti ma ci siamo ancora, l’ontologia ci permette di produrre un’etica.
Nietzsche, come Leopardi, non può essere interpretato sulla linea di un
pensiero della fine o del declino della civiltà ma di un’alternativa etica a
questa civiltà, a questo occidente. Secondo me Leopardi è da leggere in questi
termini. Per quanto riguarda invece il mio richiamo a Wittgenstein e agli
altri, personalmente penso che tutto questo sia già in Macchina tempo,
nell’analisi sulle forme della temporalità. Per me il discorso sulla svolta
linguistica, sul linguistic turn, è un’immersione nell’impossibilità
della misura, è la conseguenza del concetto di sussunzione reale. All’interno
del pensiero della sussunzione reale si tratta di leggere la crisi della legge
del valore. A questo punto la legge del valore, prima che si reintroduca il
concetto di moltitudine, rappresenta solo valori caotici. Il linguist
turn significa due cose: primo, la socializzazione globale di ogni
tematica di valorizzazione; secondo, l’impossibilità su quel livello, che non
tocchi di nuovo l’ontologia, di esprimere un discorso. D’altra parte questo è
verificato dalla stessa intensità con cui Wittgeinstein sfonda l’orizzonte
linguistico. E cosa c’è oltre quel margine? Divento un mistico e cerco valori
trascendentali… Sono stato educato nello studio del primo Wittgenstein;
scoprire il secondo Wittgenstein per me ha rappresentato uno spostamento di
quadro che mi riportava alla tematica della valorizzazione dentro la
sussunzione reale. Cose che dico a posteriori perché non avrei potuto dirle allora;
però c’erano. Se prendi il primo paragrafo de La costituzione del tempo c’è
questo sentimento di essere dentro una situazione del genere a cui si risponde
ancora in termini marxiani puri. Questo tema matura, va avanti e diventa molto
più concreto successivamente.
Sersante – Il
tema dell’etica sembra costituire il filo conduttore delle parti in cui è
diviso il tuo libro. Sul piano filosofico si tratta di riproporre il nesso
dell’essere e della pratica contro il pensiero dellakrisis e contro
il pensiero debole. Ma l’etica, come ci ricordi, è anche una politica…
Negri –
Sì, la politica, però una politica che è ancora… politica, che non è ancora
politica materialista. Si pone il tema di una politica materialistica che
significa passare dall’operaio sociale alla moltitudine, al lavoro cognitivo
inteso come lavoro che costruisce reti. Un passaggio fortissimo in tal senso è
stato il lavoro d’inchiesta sociologica che ho cominciato a metà degli anni
Ottanta, in Francia, e che ha permesso una terza rivoluzione interna al mio
pensiero. Il “soggetto”, nel titolo del libro di cui stiamo discutendo, è
l’operaio sociale, un operaio che produce socialmente… ma per andare dove? C’è
qui un pensiero che resta sì filosofico, ma non ancora materialista; non dico
che sia idealista, anche perché tutte le determinazioni sono marxiste, però ci
sono tante resistenze e ancora parecchi punti bui.
1. Manifestolibri, Roma 1997.
Originariamente apparso come capitolo tredicesimo di Macchina tempo. Rompicapi
liberazione costituzione, Feltrinelli, Milano 1982
2. Divrsamente da quello qui scelto per la
nuova edizione, questo era infatti il sottotitolo che compariva nella prima
edizione del 1987
3. Cfr. Fredric Jameson, Il postmoderno, o
la logica culturale del tardo capitalismo, trad. it. Garzanti, Milano 1989
4. Antonio Negri, Il comunismo e la guerra,
Feltrinelli, Milano 1980
5. Si veda Gianni Vattimo, Etica
dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989
6. Hardt Michael, Negri Antonio, Impero. Il
nuovo ordine della globalizzazione, trad. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano
2002
7. Antonio Negri, Lenta ginestra. Saggio su
Leopardi, Mimesis, Milano 2001 (ma originariamente SugarCo, Milano 1987, con il
sottotitolo Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi)
8. Cfr. Baruch Spinoza, Etica, Parte iv,
Prop. lix, Dimostrazione
9. Timothy S. Murphy, Antonio Negri, Polity,
Cambridge (UK) – Malden (MA) 2012