di Mario Pezzella
questo pezzo è la “Digressione” conclusiva del saggio
“La Teologia del denaro di Walter
Benjamin: il debito”, pubblicato sulla rivista Consecutio
Temporum, alla quale rinviamo per la lettura integrale, dove si possono consultare anche le note bibliografiche qui tralasciate (di cui ci scusiamo con l’autore), cliccando il link a fondo pagina
La
negazione della negazione è una sorta di colpo di stato dialettico, e tale
rimane anche nella versione secolarizzata di Marx, che la fa derivare dalla
contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La
fede escatologica che l’estremo della negatività si capovolga necessariamente
nel Mondo Nuovo, nel contesto del capitalismo attuale, ha tutti i caratteri di
un mito storico, con una funzione analoga a quello della repubblica romana per
i rivoluzionari francesi del 1789. È cioè
un’immagine di sogno, che richiede interpretazione. Pure, vien riproposta in
varie forme anche nel pensiero critico contemporaneo.
Il
passo di Marx sulla negazione della negazione si trova in epigrafe a un
importante capitolo del libro Comune di Hardt-Negri e l’idea
che dall’interno stesso delle contraddizioni del capitale fioriscano le
nuove soggettività che lo abbatteranno è ripetuta più volte nel testo, per
esempio: “Questo è il modo in cui il capitale genera i suoi becchini: se vuole
perseguire i suoi interessi e vuole autoconservarsi, il capitale deve
necessariamente incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel
frattempo diventano sempre più grandi. Quando l’accumulazione dei poteri della
moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di
padroneggiare autonomamente la ricchezza comune”. Il termine moltitudine ha
sostituito quello del proletariato, ma la logica del rovesciamento è la stessa.
Si
può obiettare che ora questo ragionamento è giustificato dalle profonde
trasformazioni del lavoro e dal suo divenire sempre più immateriale, cognitivo,
fondato sull’estensione sociale del comune e della comunicazione. È questa produttività mentale, che il capitale
non può non incentivare nella sua configurazione attuale e d’altra parte sfugge
sempre più intensamente al suo controllo. Così dovrebbe essere:
però così non è, ed è necessario spiegare perché ciò che in potenza
è liberatorio incrementi in forme inedite la schiavitù dei salariati e la loro
dipendenza da rapporti di padronanza: “Anziché focolaio di crisi, la
sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del
tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio”. Difficile
pensare che la forza produttiva immateriale, in quanto tale, produca un
attenuarsi dello sfruttamento, che invece si estende dal corpo alla mente,
cancella ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero, produce tipologie
inedite di controllo e di manipolazione: “L’innovazione tecnologica non è
universalistica…Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del
lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio
professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio
personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si
ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una esposizione
universale”.
Può
essere anche vero che il tempo di lavoro, in epoca postfordista, sia divenuto
del tutto inadeguato a misurare il valore della ricchezza prodotta, come
afferma un ormai commentatissimo passo dei Grundrisse di Marx,
e tuttavia questa misurazione continua essere applicata, in modo spietato.
D’altra parte, il progetto attuale del capitale sembra comporre in Uno tempi e
luoghi difformi e apparentemente contraddittori: la diffusione delle forze
produttive cognitive e immateriali non esclude, ed anzi prevede, un feroce
sfruttamento “fordista” o addirittura la violenza dell’accumulazione originaria
(non solo fuori d’Europa, ma anche nelle “periferie” urbane dell’Occidente).
Non si tratta di “ritardi”, che verranno colmati, portando tutta la produzione
al livello del general intellect. C’è un nesso strutturale fra
tipologie di sfruttamento “arcaiche” e l’astratto lavoro immateriale:
“L’accumulazione del capitale si alimenta di ineguaglianze sociali e spaziali
necessarie al suo metabolismo…” e il suo movimento astratto agisce
cercando di far coesistere a proprio profitto le forme di dominio più antiche e
il sapere altamente qualificato della scienza.
Del
resto, che il tempo di lavoro sia divenuto misura inadeguata del valore non
vuol dire affatto che si sia trasformato o stia per trasformarsi in tempo
libero. Si può ritenere che la differenza fra i due si stia sempre più
assottigliando a vantaggio di un “tempo di produzione” (Virno) generico, che
comprende anche le ore pseudo-ludiche passate al computer o al cellulare,
addestrando comunque le proprie facoltà percettive e cognitive nel senso
richiesto dalle attuali forme di precarietà; oppure si può mantenere la vecchia
terminologia e considerare “tempo di lavoro” queste stesse attività, benché si
svolgano fuori dai luoghi di produzione tradizionali.
È
vero che l’operaio posto a controllare una macchina, che deve premere un
pulsante esattamente ogni sessanta minuti, per cinquantanove resta
apparentemente inattivo, sta accanto ad essa senza far niente.
Ma è davvero un far niente? In realtà la tensione muscolare
inconsapevole, l’attenzione rivolta a non mancare il minuto decisivo, la
latente “cura” e apprensione perché l’intero meccanismo funzioni regolarmente,
i rumori e le luci, che comunque gli inviano messaggi dal macchinario, tutto
ciò non è ancora lavoro, dispendio di energia fisica e mentale, sia
pure diverso da quello “fordista”? Computandolo in questo modo, è da dimostrare
che il “tempo” ad esso destinato sia effettivamente diminuito o non piuttosto
si si sia esteso a quasi tutta la vita. Certo si può dire -e in fondo non è
molto diverso- che il tempo di produzione comprende ora “anche il non-lavoro,
le esperienze e le conoscenze maturate al di fuori fabbrica e dell’ufficio”
oppure, con una sfumatura diversa dei termini, che la cooperazione sociale del
“lavoro postfordista è sempre, anche, lavoro sommerso”, e che questo è in primo
luogo “vita non retribuita, ossia la parte di attività umana che, omogenea in
tutto a quella lavorativa, non è però computata come forza produttiva”.
Resta
il fatto che il tempo dominato e asservito in qual modo si voglia alla
creazione di plusvalore relativo, tende nelle tipologie attuali di produzione ad
aumentare a dismisura e nient’affatto a produrre forme di potenziale libertà,
che attendano solo un colpo di gomito per superare l’egemonia del capitale. Per
interrompere il dominio del lavoro astratto, anche nel postfordismo, occorre
dunque un’azione politica che spezzi la sua continuità e non nasce dallo
sviluppo automatico delle forze produttive (neanche di quelle cognitive) e
delle loro contraddizioni: queste al massimo producono una situazione di crisi
in cui tale azione sarebbe possibile e pensabile, ma nient’affatto destinale o
necessaria.
In
che direzione conviene muoversi per costruire una tale soggettività? In un
recente e interessante scambio di lettere con M. Hardt, J. Holloway propone un
ritorno alla qualità e alla specificità dei valori d’uso, dunque un mutamento
della produzione, che dovrebbe orientarsi verso forme comunalistiche, in parte
ereditate dal passato, in parte inventate ex novo. Si tratterebbe di opporre il
lavoro vivo e concreto a quello astratto del capitale, accettando se necessario
un tasso di decrescita e una limitazione dell’attuale sfruttamento delle
risorse della terra.
Hardt
critica questa prospettiva, giudicandola affetta da regressione romantica verso
il mondo artigianale e contadino: “Nella tua riflessione, il lavoro astratto è
un antagonista fondamentale e, se capisco bene, lo sono i processi concettuali
più generali di astrazione… Un progetto politico che afferma il valore d’uso
sul valore di scambio mi sembra un tentativo nostalgico di riedificare un
ordine sociale pre-capitalista. Al contrario, il progetto di Marx, come lo
capisco io, si apre la strada all’interno della società capitalistica per
uscire dall’altro lato. Allo stesso modo, non credo che il lavoro astratto sia
l’antagonista. Dire che senza lavoro astratto non ci sarebbe proletariato
costituisce una semplificazione (anche se credo sia importante). Se il lavoro
del muratore, del carpentiere, dell’agricoltore, del tessitore e del meccanico
di automobili fossero concreti e incommensurabili, non avremmo un concetto
generale del lavoro (del lavoro umano in generale, a prescindere da come è
stato impiegato, come dice Marx) che potenzialmente li vincolino come classe”.
Probabilmente
entrambi i poli di questa alternativa non giungono a soluzioni interamente
soddisfacenti. Le riflessioni di Benjamin possono contribuire forse ancora al
dibattito attuale. Sostanzialmente contrario a ogni ritorno al valore d’uso e
al premoderno (concepibile solo con la restaurazione di forme mitiche e
rituali-magiche di potere), egli è però anche radicalmente critico verso il
principio di astrazione sviluppato entro la dimensione del capitale. La seconda
tecnica –che pone un rapporto armonico con la natura e una relazione di gioco
intersoggettivo- prevede un principio di simbolizzazione altrettanto complesso
ma radicalmente alternativo a quello del capitale: non si sviluppa dal suo
interno, ma sempre e decisamente contro di esso. Esiste una rottura
epistemologica radicale tra prima e seconda tecnica, che presuppone una
discontinuità politica altrettanto netta. Non si tratta dunque di opporre techne e
comunitarismo artigianale, ma la scienza su cui fondare un comune capace di
sviluppare il gioco e il riconoscimento intersoggettivo, contro una
tecnica magica che sviluppa il dominio. Non è lo stesso utensile, costruito con
lo stesso progetto, che basterebbe cambiare di mano per renderlo da negativo
positivo: è uno strumento materialmente e idealmente opposto, che prevede la
distruzione dell’altro, come la tecnica delle energie naturali si basa su una
visione antropologica e esistenziale incompatibile con quella fondata sul
petrolio o sul carbone. La rivoluzione epistemologica è altrettanto radicale di
quella politica.
Non
ogni astrazione coincide necessariamente con quella sviluppata dal capitale: “…L’astrazione
reale che Marx pone a base della sua analisi del Capitale…non
è l’astrazione logico-mentale, che è propria dei processi
conoscitivi”; questa capacità generalmente umana di simbolizzazione più che
coincidere con la particolare figura della scienza capitalista collide con essa
e con la sua intenzione di fondo, e da questa viene negata e
atrofizzata. Si può invece concepire un lavoro della mente altamente
complesso, che si oppone alla sua contraffazione nel “lavoro mentale” e non
mira alla negazione dell’essere psichico-affettivo dell’uomo, ma al suo
affinamento simbolico e intersoggettivo: “…In esso il soggetto umano entra in un
rapporto, non di scissione e contrapposizione, ma di distanziamento e
simbolizzazione con il proprio corpo emozionale…”, l’attività mentale e la physis si affinano
reciprocamente nel “gioco” descritto da Benjamin e da lui opposto alla “magia”
del lavoro astratto. Né ritorno al valore d’uso, né proseguimento della logica
dell’astrazione reale, ma costituzione di un essere in comune antagonistico
rispetto a quello del capitale. L’attività simbolica e non l’astrazione
capitalistica è una “funzione trascendentale dell’esperienza umana” o –per usare un termine che verrà chiarito in seguito- un esistenziale
storico.