di
Francesco Raparelli
mentre il movimento
Occupy diventa un ricordo, riemerge con forza l'organizzazione delle
lavoratrici e dei lavoratori. Un centinaio di città -da New York a
Oakland, da Boston a Chicago- sono state coinvolte nello sciopero dei Fast Food
dello scorso giovedì 5 dicembre: “Dal black friday di Walmart allo sciopero dei
Fast Food: torna la questione del salario e della dignità del lavoro”
Epoca
infelice la nostra, soprattutto nell'Europa del Sud, dove la stretta
ordoliberale imposta da Berlino e Francoforte (Fiscal Compact, politiche
monetarie deflattive ecc.) polverizza anche i margini della contrattazione
sociale, rende impossibile ogni riformismo, seppur tiepido. Epoca infelice
oppure grande occasione: proprio quando il tavolo salta, e il riformismo
diviene impossibile, solo la rottura può fare la differenza.
Sul
modo di intendere la rottura, però, si giocherà la partita che conta nei
prossimi anni, perché quello che stiamo vivendo è un passaggio d'epoca e non un
collasso fugace. La sfida, per tutte e tutti, è il problema delle forza. Senza
forza e conflitto (anche violento) – e cominciano ad ammetterlo addirittura i
riformisti meno corrotti – neanche i sogni neo-keynesiani di Krugman hanno
alcuna chance. Lasciamo a Krugman i suoi sogni e occupiamoci, piuttosto, della
definizione di un anticapitalismo all'altezza della scena capitalistica
(singolare) nella quale siamo immersi, quella neoliberale, quella in cui la
crisi si cronicizza e assume le forme di una rinnovata e permanente
«accumulazione originaria». Dove accumulare forza (effettivamente) antagonista
al capitale e alla finanza globali, e quali punti di applicazione della forza
accumulata?
Se
questa è la domanda, la lezione americana è decisiva, soprattutto in Europa,
dove tante e potenti esplosioni moltitudinarie non sono riuscite a scalfire
l'offensiva dei mercati finanziari, delle holding bancarie, delle multinazionali.
Dal black friday (23 novembre) dei lavoratori di Walmart allo sciopero di
quelli dei Fast Food lo sciopero torna a far tremare gli Us, il problema del
salario, quello minimo e quello dignitoso, riconquista la scena. Se è vero,
infatti, che in America il tasso di disoccupazione continua a calare (dal 7,2
al 7%, con un aumento, nel solo mese di novembre, di 203.000 posti di lavoro),
è altrettanto vero che i salari, soprattutto nel mondo dei servizi, sono da
fame. Nulla più di questi dati chiarisce l'uso capitalistico della crisi:
disoccupazione di massa e scarsità (imposta dalla rendita finanziaria e
immobiliare) a sostegno di una violenta aggressione, materiale e ideologica, ai
salari e ai diritti.
Ma
nel disastro, mentre il movimento Occupy diventa un ricordo, riemerge con forza
l'organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori, lo sciopero. Si comincia
il 23 novembre, il giorno successivo al Tanksgiving Day, con Walmart, colosso
della grande distribuzione, tra le principali corporation negli Stati Uniti (1
milione e 400 mila dipendenti). È proprio Walmart, infatti, ad aver demolito,
più di altre aziende, salari e diritti: il part time è un obbligo, le
retribuzioni bassissime, 50 ore di lavoro settimanale, con picchi di 70-80 ore
nei periodi festivi (in cui il lavoro è imposto, of course), obbligo al
trasferimento in sedi a volte molto lontane dalla località di residenza,
pratiche antisindacali e discriminatorie nei confronti delle lavoratrici (70%
della forza-lavoro complessiva).
Lo
sciopero, che ha avuto tra gli animatori più rilevanti OUR Walmart
(Organization United for Respect at Walmart), ha visto coinvolti un migliaio di
centri commerciali, 46 Stati, un centinaio di città. Sono tanti gli elementi
interessanti su cui varrebbe la pena riflettere, ne segnalo tre: in primo luogo
i soggetti, lavoratrici (soprattutto) e lavoratori del commercio, figure finora
scarsamente sindacalizzate e vittime di uno sfruttamento selvaggio; in secondo
luogo le rivendicazioni, la centralità del salario minimo, ma più in generale
la dignità del lavoro e il diritto alla coalizione; infine il rapporto con i
consumatori e le tante comunità locali che, nel sostenere lo sciopero, hanno
dato vita al Buy Nothing Day. Tre elementi che ci danno indicazioni preziose,
visto che in Italia e in Europa le condizioni delle lavoratrici e dei
lavoratori del commercio non sono molto differenti da quelle dei dipendenti
Walmart. In Italia, ad esempio, è il contratto nazionale che ha favorito un
pieno di precarizzazione del rapporto lavorativo, imposto una turnazione
disumana, ridotto al minimo i salari.
Quasi
un centinaio di città, da New York a Oakland, da Boston a Chicago, sono state
coinvolte nello sciopero dei Fast Food dello scorso giovedì 5 dicembre.
Migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno incrociato le braccia, organizzato
picchetti e manifestazioni, contro i minimi salariali (7,25 dollari l'ora),
adottati da tutte le grandi catene, per un minimum wage di 15 dollari. La
risposta della National Restaurant Association è stata immediata: richiesta
folle, non si discute. Lavoro provvisorio un tempo prediletto da giovani e
giovanissimi alle prese con gli studi universitari, quello dei Fast Food è
diventato sempre di più iattura e destino tanto per chi gli studi li finisce e
non trova occupazioni migliori, quanto per immigrati con famiglie a carico.
Anche in questo caso spicca in primo piano una novità decisiva:
l'organizzazione sindacale di chi sembrava, e in Italia lo sembra ancora,
non-organizzabile.
Due
eventi importanti, indubbiamente insufficienti a imporre la rottura cui facevo
riferimento all'inizio. Eppure la strada, a mio avviso, più carica di futuro.
La scorciatoia politica (sia essa quella del riformismo impossibile o del
rinnovato e messianico insurrezionalismo) che sempre prevale in Europa, una
volta constatata la debolezza e la frammentazione dei conflitti sul lavoro
(tanto che ancora, nonostante la crisi, ci si affida all'adagio consolatorio
che sancisce la fine della centralità del rapporto capitale/lavoro), rischia di
favorire frustrazione/depressione e, conseguentemente, di ingigantire il peso
sociale, oltre che elettorale, dei tanti populismi.
Le
mobilitazioni, al momento modeste, che coinvolgeranno nelle prossime ore e
giorni i centri commerciali della penisola sono e saranno importanti. Così come
le lotte contro gli straordinari e le privatizzazioni del trasporto urbano
agite dagli autoferrotranvieri. In entrambi casi, e ciò è cosa decisiva, le
lotte sul salario dei lavoratori si combinano con quelle dei consumatori e
degli utenti. La relazione di servizio, che è appunto, sempre, una relazione,
comincia a conquistare statuto conflittuale. La strada è ruvida e scoscesa, ma
solo percorrendola è possibile accumulare la forza che manca.