venerdì 13 settembre 2024

GLI ARNESI DELLA BOTTEGA E LE SOGGETTIVITÀ POLITICHE (II)


 Intervista a Toni Casano  -Francesco Pezzulli (a cura di)-

    pubblicata in questi giorni sulla rivista MACHINA, riprendiamo la seconda parte dell’intervista ad Antonio Casano attorno al suo libro, Arnesi dalla bottega. Saggi politici sulla soggettività (Multimage 2022)

Nei saggi che compongono il volume hai passato criticamente in rassegna le teorie sociologiche di stampo positivista e funzionalista, mentre hai considerato positivamente (in Le categorie del politico e il neotribalismo sociale) il concetto di «neotribalismo» forgiato da Maffessoli (Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, 2004), che viene richiamato ancora oggi, ad esempio, nel dibattito sui populismi ed anche relativamente alle comunità digitali. Come attualizzeresti il concetto «forme di tribalizzazione»? Oppure, di converso, perché sarebbe meglio accantonarlo?

 

Nel discorso sociologico è l’agire individualistico che muove la società, come se la dinamica utilitaristica fosse un fondamento naturale, cosicché nelle varie declinazioni della teoria dei sistemi sociali scompare del tutto ogni possibile pars construens basata sulla riproducibilità delle aspettative comuni. Da qui la differenza sostanziale da quanto sostiene essere la sociologia per Luhmann: secondo l’approccio funzionalista essa si costituisce come scienza non solo descrittiva ma anche prescrittiva dell’Ordine e delle modalità costitutive di quelle che sono le aspettative individuali, riprodotte con qualche margine di autonomia mediante una serie di operazioni ed elementi collegati da criteri prestabiliti. Pertanto alla base dei sistemi sociali v’è la comunicazione prodotta da interazioni singole o da gruppi organizzati o dalla società. Max Weber, invece, aveva sostenuto che è l'azione e non la comunicazione «il mattone che dà forma al sociale». Ora, diversamente dalla concezione weberiana, la tecnicalità funzionalista assume a fondamento costitutivo della società esclusivamente la comunicazione. In tal senso si ritiene che «soltanto la comunicazione è necessariamente e intrinsecamente sociale. L’azione non lo è». Questa differenza posta da Luhmann è chiaramente una critica che lo contrappone ad Habermas, il quale, invece, coniuga il fondamento weberiano della rilevanza autonoma dell’azione come motore alla forma sociale: l’agire comunicativo. 

Orbene, detto quanto precede, a me pare che – rispetto ad Habermas – la disquisizione luhmanniana attorno alla disputa sulla priorità fondante del sistema sociale – comunicazione o azione – sia una mera tecnicalità formale, tutta interna al paradigma sociologico inteso come scienza organica ordinatrice che guarda al conflitto sociale come ad un indicatore che segnala la «disfunzionalità sistemica», una sorta di rilevatore congiunturale del disequilibrio ciclico in cui inevitabilmente incorre il sistema, data l'insopprimibile natura conflittuale della società. In un certo senso ai dottori dell’economia – i quali monitorano costantemente il quadro eziologico del Capitale e che, da sempre, tentano invano di poter estirpare alla radice i mali che affliggono l'accumulazione, rimuovendo quelle patologie endemiche generate dalla lotta delle classi subalterne - si sono affiancati gli sciamani del sociale che manipolano le dinamiche del conflitto per ricavarne dispositivi biopolitici al servizio della governamentalità. In estrema sintesi, assumendo noi apertamente la postura critica di Michel Maffesoli, allorquando afferma d’essere la sua una sociologia dal basso, potremmo definire il paradigma sociologico delle scuole accademiche, comprendendovi tutte le varianti dottrinali e tecnicalità empiriche, come la scienza dell'ordine sociale, le cui disamine sulla società-laboratorio vengono calate dall’alto. Cosicché il sociologismo descrittivo e  prescrittivo – senza distinzione alcuna tra positivisti e funzionalisti – si determina come un dispositivo biopolitico al servizio della razionalizzazione sistemica di riequilibrio dell’ordine sociale. Secondo gli sciamani organici dei sistemi sociali, tutte le opzioni che emergono dal flusso comunicativo, anche quelle che promanano dall'agire conflittuale, possono essere potenzialmente considerate utili alla stabilizzazione ordinatrice. Perfino le ipotesi di un agire irriducibile costituenti processi fortemente autodeterminati – con forti tratti antagonistici e con alta carica negativa nella critica dell’ordine sistemico esistente – non vengono scartate a priori: prima facie possono essere considerate come indicatori caratterizzanti il «disequilibrio ciclico» sistemico della società complessa; ma possono costituire, depotenziandone ovviamente la carica critica, cercando di positivizzarne l’energia rivoluzionaria, in una fonte semanticamente riducibile all'ordine del discorso strutturale.Permettimi di chiudere la prima parte della tua domanda, anche in relazione al punto appena suesposto, con la citazione (e le mie considerazioni) sulla visione della società luhmanniana riportata negli Arnesi (vedi nota 61), dove mi sembra essere chiaro quale sia il «funzionalismo tecnocratico» della sociologia, quello della riduzione della complessità: «La società – scrive il Nostro in Struttura della società e semantica (Bari,1983) – si sviluppa non verso stati anticipati che si cerca di raggiungere, anche se in essa, in base alla esperienza dello sviluppo, possono emergere e diventare influenti immagini del futuro. La società si sviluppa, in altre parole, in reazione allo sviluppo, in reazione alla già crescente complessità. Solo in questo modo si può accordare l’evoluzione alle capacità operative»

Il tema di fondo posto dalla sociologia luhmanniana è quello di sciogliere l’interrogativo su «com’è possibile l’ordine sociale?», essendo questa una necessità fondamentale che consente di selezionare una determinazione fra quelle possibili, in cui si dà un ordinato controllo funzionale alle aspettative sociali, riducendo le spinte molteplici altrimenti generatrici di incertezze. Sostanzialmente, secondo Luhmann, è la società stessa nel suo insieme a generare e istituzionalizzare dispositivi e meccanismi che consentono il soddisfacimento delle aspettative individuali: «In una società con un altissimo grado di complessità e di dinamicità, com’è quella moderna, diventa assolutamente centrale comprendere come il sistema sociale riesca a reggersi secondo sottosistemi ordinati (famiglia, Stato, diritto, ecc.) che, attraverso un alto grado di ripetitività interna, riescono a tener fede alle aspettative dei singoli. Questa continua riproduzione dell’ordine permette agli individui di interagire tra loro e ridurre al minimo la costitutiva incertezza di cui è portatrice la propria natura umana. Per queste ragioni, l’obiettivo di ogni sociologia dovrebbe consistere nel portare a misura d’uomo la complessità del mondo».

In definitiva il paradigma sociologico è dato come «scienza organica ordinatrice». Per esso il conflitto sociale – in quanto inestinguibile – va visto come un indicatore funzionale che registra i punti di caduta del sistema sollecitando le istituzioni della «macchina ordinatrice» ad intervenire per stabilizzare e razionalizzare gli effetti negativi della conflittualità. Il banco di prova a cui venne chiamata la sociologia in questa sua missione risale al rapporto che ebbe con i movimenti antagonisti, in primo luogo con quelli studenteschi, che insorsero nelle università tra gli anni Sessanta e Settanta, nel cosiddetto «lungo ‘68». Non a caso fu proprio in quegli anni che la disciplina ebbe uno straordinario successo (si pensi al ruolo della facoltà di Trento nella contestazione sessantottina) e che grazie al traino del movimento generazionale vide il fiorire di cattedre universitarie ed istituzioni di nuove facoltà. Insomma, la contestazione studentesca e la sperimentazione dell’università negativa mise in discussione i parametri sociologici di cui si alimentavano gli accademici delle scienze sociali che – dal punto di vista ideologico – facevano da supporto al riformismo politico cristiano e socialdemocratico. L’esperienza dell’università negativa indicò una nuova traiettoria compiendo una rottura con la funzione sociologica degli accademici ed esprimendo una radicalità critica autonoma antisistemica, tracciando allo statu nascenti di una sociologia dal basso che riprendeva la prassi militante della conricerca sociale, alla scoperta dei processi di soggettivazione che si danno in discontinuità coll’ordine sistemico del riformismo sociologico, divenuto sempre meno scienza critica dell’esistente e sempre più strumento di positivizzazione del biopotere. Inoltre, ad onor del vero, bisogna dire che gli accademici della teoria dei sistemi sociali reclutarono nel movimento molti adepti che avrebbero, nel corso degli anni, riempito le numerose cattedre di sociologia (variamente declinate) proliferate in tutti gli atenei della penisola.

 

Ed ora veniamo a Maffesoli che, nell’apertura de Il tempo delle tribù, propone uno schema del passaggio dalla struttura «meccanica» della società moderna a quella «complessa» della postmodernità…

 

Esatto, ed in questo passaggio distingue le diverse posizioni che rivestono gli individui e le persone all’interno delle strutturazioni date nel rispettivo quadro di riferimento: «funzionali» i primi, collocati nell’interposizione verticale tra l’alto dell’organizzazione economico-politica e il basso dei raggruppamenti contrattuali, mentre i secondi hanno un ruolo d’interposizione tra la massa e le tribù affettive. In sostanza, in questo passaggio dalla modernità versus la post-modernità, v’è una tensione rivoluzionaria organica che ha attraversato tutti gli ambiti del sociale – culturale, economico, cetuale, ideologico, sessuale – in un processo di scomposizione - in lungo e in largo - da dove emerge una molteplicità di situazioni che costituiscono le potenziali socialità, fra le quali forme, per il sociologo francese, centrale è quella del tribalismo. Quindi non più una massa indistinta, ma moltitudini sociali all’interno delle quali ci si trova di fronte a qualcosa che possiamo chiamare culturalizzazione della natura e naturalizzazione della cultura. C’è qui un fortissimo richiamo all’ecologismo ambientale olistico: non c’è separazione alcuna del cosmo dal sociale. C’è invece un netto rifiuto di ogni intermediazione e, soprattutto, di ogni possibile riproduzione verticale del sistema tecnocratico, una sorta di vitalismo ontologico che si contrappone alla «volontà di potenza», facendo leva sulle potenzialità comunitarie – queste sì! – che si riscontrano nell’orizzontalità reticolare, radicate nell’immaginario collettivo del presente e che possono, di volta in volta, assumere forme diverse. Ad esempio con manifestazioni ora macroscopiche, come nel caso dei grandi movimenti di massa, ora microscopiche, col costituirsi di molteplici gruppi sociali; ed infine, col manifestarsi dell’intreccio delle due forme precedenti. Come scrive Maffesoli: «Il momento tribale può essere paragonato al momento della gestazione: qualcosa via via si compie, si mette alla prova, si sperimenta, prima di spiccare il volo per una più ampia espansione».

Qualcosa di simile l'abbiamo già verificata in Italia nel corso degli anni Settanta ed anche in modo dirompente: siamo all'incirca a metà del decennio, quando sulla scena del conflitto irrompono - da un lato - il movimento femminista e - dall'altro - il proletariato giovanile. La vicenda è stata affrontata sul piano teorico dall'allora Collettivo «Primo Maggio», i cui lavori furono curati da Sergio Bologna e pubblicati, per gli Opuscoli Marxisti della Feltrinelli, col titolo singolare La tribù delle talpe, un lavoro che in un certo senso anticipava, con attenzione e qualche perplessità, lo specifico dell’oggetto della tua domanda. Curiosamente, attraverso questo richiamo al concetto di tribù, utilizzato dopo anche dal sociologo francese, il Collettivo Primo Maggio definiva (pur con differenze) l’avvio di un nuovo processo di ricomposizione di classe che avrebbe, da lì a poco, consumato la rottura con quella composizione operaia organizzata attorno alla centralità della fabbrica. Ma l’uso della categoria antropologica di tribù lascia intuire la tendenza di un processo di soggettivazione sotterraneo, tracciato dallo statu nascenti dei nuovi movimenti antagonisti che, come la talpa, si preparavano ad emergere in superficie facendo esplodere il conflitto dell’operaio sociale. Si configurava così, in piena crisi del sistema fordista, il primo tentativo di ricomposizione di classe fuori dall’eterodirezione egemonica della rappresentanza verticistica, per darsi una propria forma di orizzontalità autonoma, sideralmente distante dalla forza gravitazionale imposta dalla costellazione del movimento operaio organicamente omologato alla razionalità statalista. Certo il concetto di tribù venne utilizzato con molta circospezione da altri percorsi operaisti, che seguivano con attenzione le reazioni politiche-sindacali dell'operaio-massa nella fase della crisi del sistema industriale apertasi nel ’73, con le politiche di austerity che segnarono la fine del lungo ciclo di espansione degli anni Sessanta (il cd. boom del miracolo economico). Da parte di questi operaisti non mancarono avvertenze e controindicazioni, richiamando essi ad un certa prudenza analitica in merito ai nuovi processi di scomposizione che davano, come affermava Sergio Bologna, prematuramente morta la funzione dell'operaio-massa, pur non potendo non tenere conto della dinamica impressa dai nuovi soggetti sociali (l’operaio disseminato, il disoccupato, l'emarginato, lo studente) che potevano vantare «un'articolazione sul territorio più estesa e più ricca rispetto al tradizionale rapporto fabbrica-società».  Questa nuova soggettività disseminata divenne centrale nel conflitto sociale sul finire degli anni ‘70, esprimendo nuovi bisogni e desideri oltre il modello fabbrichista della città, riuscendo ad aprire una nuova fase del conflitto sociale, portandosi al di qua del secolo breve, chiudendo definitivamente la vicenda storica della lotta di classe iniziata con la rivoluzione industriale tra Proletariato e Borghesia. Pur tuttavia non riuscì ad affermarsi sul piano politico né avrebbe potuto farlo, giacché la critica al sistema dominante non presupponeva una transizione al modello sociale del governo delle forze-produttive, ma auspicava il bisogno di comunismo con la liberazione del tempo-vita dal lavoro salariato. Probabilmente era una forma di soggettivazione che doveva ancora fare le sue sperimentazioni costituenti e perciò preferì esodare negli interstizi della società dove era possibile riallacciare in autonomia i fili della cooperazione sociale,  ri\inabissandosi nel fluido carsico dei processi di singolarizzazione tribale, nella ricerca di nuovi spazi in cui sperimentare nuove forme di comunità, lasciando aperta la gestazione dell'agire comune nella molteplicità delle istanze conflittuali possibili, nel tentativo di spezzare la fatica di Sisifo del costituire forme politiche autonome, in cui la cooperazione sociale della moltitudine si potesse reincarnare nella dimensione ontologica costituente dell'essere comune. E, comunque, la risposta di quel movimento, di fronte alla sconfitta subita sul piano politico, fu quella di ri-processare le forme della tribalizzazione. Ancora una volta, come la talpa, ha ripreso in seguito a scavare sottotraccia riemergendo di tanto in tanto dando vita a movimenti significativi ma che non hanno avuto la forza di concretare una comune rappresentazione anche se, a mio avviso, ci andarono molto vicino al tempo dei social forum. Purtuttavia il fil rouge che idealmente lega queste soggettivazioni è il rifiuto d'ogni riduzione della complessità antagonista. Ora, per rispondere alla tua domanda sull’attualizzazione o meno del concetto di «forme di tribalizzazione», dopo quanto sopradetto, ovviamente, opto per la prima ipotesi piuttosto che accantonarla: in merito all'ouverture de Il tempo delle tribù, riconsiderando le imponenti trasformazioni sociali intervenute, ritengo possa essere un punto di riferimento nella pratica della ricerca sociale dal basso; metodologicamente aiuta a districarsi nelle possibili anticipazioni delle tendenze che le dinamiche delle centralità sotterranee possono assumere, riaffiorando come altro dall’ordine sistemico dato. Bisognerebbe chiarire che le ricerche sociali dal basso sono altra cosa rispetto alla sociologia come medium tecnocratico dell’ordine sistemico. A me pare che la metodologia informale di Maffesoli arricchisca i dispositivi di ricerca militante dei processi di soggettivazione, come allo stesso modo considero irrinunciabile ed ormai acquisita nel nostro armamentario metodologico la conricerca, pratica fondamentale ben consolidata nel tempo, maturata fin dall'origine nella sperimentazione scientifica dell'operaismo. Oramai sappiamo che non c'è più un dentro e un fuori nell'agire comune: la ricerca sociale dal basso è parte integrante nei processi di soggettivazione, nelle pratiche collettive della costruzione di nuovi linguaggi, come in un immaginario comune che sfugge all’ordine della razionalità strumentale e alle gerarchie della logica di dominio.Se osserviamo quanto è accaduto con i movimenti antagonisti francesi, dalle rivolte delle banlieues al movimento contro la Loi Travail, con in mezzo le proteste dei gilets jaunes e le adunate della Nuit debut, assistiamo ad un processo conflittuale ultra decennale della società transalpina, con un tentativo costante di far convergere le lotte in una piattaforma sociale generale che vede protagonista la moltitudine delle tribù, nella ricerca di soluzioni costituenti di auto rappresentazione per dare vita alle potenziali socialità delle singolarità sprigionate, avendo chiaro il rifiuto netto della reductio ad unum. Ed oserei dire che a questa discriminante del processo conflittuale si deve il declino della sinistra istituzionale in Francia nel dopo Mitterand, così come qui in Italia il declino della sinistra istituzionale iniziò dalla cacciata di Lama dall'Università a Roma, fino alla totale scomparsa di quel che fu la rappresentanza del movimento operaio nello spazio parlamentare.Sintetizzando possiamo dire che quel che di recente è accaduto negli ultimi anni in Francia è, per analogia, paragonabile a quanto è avvenuto nel decennio Settanta in Italia, dove il movimento del lungo Sessantotto, sia pure con qualche flessione, si è protratto nell'arco temporale della decade; mentre - in generale - nel resto del continente il maggio europeo si era inabissato in tribalizzazioni pluriformi dentro cui si riscoprivano forme di prossimità a volte fin troppo ingenue, come ad esempio la mitizzazione del «piccolo è bello», ma dove andava anche maturando l'emersione della questione ecologica che già in quegli anni cominciava a divenire consapevolmente una centralità assoluta di contrasto all'affermazione della società del rischio. 

 

In sintesi, per chiudere su Maffesoli e le forme comunitarie di tribalizzazione?

 

Io credo che le forme comunitarie di tribalizzazione vadano lette come rapporti dinamici dentro un reticolo espansivo, dove i punti relazionali si articolano orizzontalmente senza alcun vertice o centralità; le forme tribali sono un sistema di rete attraversato dalle singolarità dove ci si può riconoscere stabilmente o temporaneamente o anche far riferimento a più tribù contemporaneamente, nel solco di una ricchezza moltitudinaria. Ora, permettimi, come non intravedere in questo contesto astratto quella che è stata l'esperienza concreta in Italia dei centri sociali occupati autogestiti? Questi hanno toccato la loro punta massima di elaborazione al tempo del movimento No Global, quando le tribù giovanili strariparono fuori dagli spazi in cui si erano confinate e diedero vita ai Social Forum che assunsero la forma politica di una originale organizzazione dal basso della democrazia partecipativa, capace di raccogliere ed aprirsi alle moltitudini, un esperimento straordinario, forse ancora allo stato embrionale che, purtroppo, non seppe resistere al fronte di guerra apertosi (e mai chiusosi) dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Ma che segnò comunque un punto di svolta, marcando una necessità che si era avvertita già nella pratica orizzontale dei movimenti con la partecipazione diretta senza più deleghe, un passaggio che apriva la strada al superamento della tradizionale concezione marxista del governo della moltitudine verso, invece, la sua autorappresentazione. In un certo senso è quel che è successo anche in Francia nell’ultimo ciclo decennale di lotte che rimane tuttora aperto.

 

Nell’ultimo saggio, «Modernità e transizione», riprendi un passo di Toni Negri e Felix Guattari del 1989 per evidenziare le modifiche intervenute nelle forme del potere nel passaggio capitalistico dalla fase industriale a quella «post»: «il primo imperativo di questa gigantesca macchina di assoggettamento capitalistico è la messa in opera di una rete implacabile di sorveglianza collettiva e di autosorveglianza capace di impedire ogni fuga da questo sistema e di arginare ogni tentativo di mettere in discussione la sua legittimità politica, giuridica e morale». Questa «gigantesca macchina» sembra oggi assumere le sembianze degli ecosistemi digitali nei quali siamo costantemente coinvolti. Per cosi dire, la transizione è avvenuta e la «rete implacabile» può vantare un perfezionamento continuo grazie anche alle attività digitali degli stessi utenti. In una situazione del genere, ben descritta peraltro in un recente volume che hai curato con Antonio Minaldi, come ritieni sia cambiata la formazione di soggettività politica anticapitalista? 

 

Dici bene: gli ecosistemi digitali hanno de facto compiuto la transizione verso il sistema di controllo e sorveglianza, andando ben oltre quella macchina di assoggettamento della produzione capitalistica che abbiamo conosciuto nello scorso secolo con la centralità della fabbrica, cioè in quella rigidità gerarchia articolata nel regime di lavorizzazione dentro cui si esercitava un comando implacabile sulla classe operaia, assoggettata ad un disciplinamento che aveva forti analogie con la catena ordinatrice degli apparati militari. Come faceva osservare Toni Negri tra la Fiat Mirafiori del 1950 e un call center di oggi esistono pochissime differenze dal punto di vista della disciplina, mentre ne esistono enormemente dal punto di vista del lavoro che viene valorizzato. Del resto questa materia tu la conosci molto bene per averla studiata e sai benissimo quanto conta la capacità relazionale nel rapporto di lavoro. Ora rispetto alla macchina di controllo industriale, giocata nella spazialità interna\esterna – ovvero tra la fabbrica e la città – quella articolata sull’attività digitale si realizza mediante un rapporto di disciplina giocato nella dimensione spazio-temporale tra il reale e il virtuale, senza soluzione di continuità: gode del flusso comunicativo massificato della società informatizzata, dove ogni singolarità è messa l’una di fronte alle altre nella doppia veste consumatore/produttore e – indipendentemente dal grado di conoscenze di ciascuno –  tutta l’attività generata viene «immagazzinata» nei depositi immateriali selezionati dagli algoritmi, contribuendo in modo determinante alla riproduzione e al perfezionamento sistemico del capitalismo delle piattaforme. In altri termini, come dicevamo prima con Negri, siamo di fronte ad una trasformazione colossale dal punto di vista del lavoro che viene valorizzato: è la vita stessa a divenire produttrice di valore indipendentemente dal rapporto negoziale dello scambio capitale/lavoro, ovvero è lo spazio intero della società quello entro cui si dà lo sfruttamento del lavoro e le sue modalità sono sempre più complesse ed inseguono i processi della cooperazione sociale per sottrarne la chiave di un possibile sviluppo comune autonomo. Ed io credo che il primo passo di questa sottrazione è la rivendicazione di un reddito di base incondizionato, non come elargizione assistenziale, ma come diritto proprio della cooperazione sociale per l’apporto fondamentale che offre in termini di ricchezza prodotta, per la quale, come sappiamo, ogni singolo partecipa direttamente o indirettamente. In tutto questo non bisogna trascurare gli effetti del controllo sociale generati dagli algoritmi nel disciplinamento securitario, con l’adozione di dosi massicce dei dispositivi investigativi preventivi/repressivi. Vi sono studi che dimostrano come la macchina di controllo dello stato di polizia si sia sempre più ingigantita coniugando vecchie e nuove tecniche d’indagini. Proprio nel libro Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo, Salvatore Palidda, sociologo della devianza e grande esperto dei sistemi repressivi, segnala una situazione inquietante che tende a rafforzare la deriva securitaria intrapresa dalle democrazie occidentali (anche col supporto del varo di una legislazione penalista - leggi decreto cd. «anti-Gandhi» recentemente varato - che aggrava il quadro normativo delle pene contro la libertà di dissenso, già previsto dal codice Rocco di memoria fascista).  Scrive Palidda:

«Da circa 30 anni si assiste a un’escalation impressionante della diffusione dei dispositivi di controllo e repressione a cominciare dalla video-sorveglianza sino al profiling via la biometria, gli algoritmi ecc. Le prime sperimentazioni di questo assetto postmoderno-liberista si sono avute negli Stati Uniti ma successivamente sono la Cina, Israele, il Regno Unito e anche i paesi europei che adottano tali sistemi».

In merito alla tua domanda sui cambiamenti intervenuti nella formazione della soggettività politica anticapitalista, credo che – marxianamente – bisogna partire sempre dalla configurazione storica in cui si determina la produzione: quindi la soggettività non è data una volta è per tutte. Non a caso si parla nel lessico postoperaista di soggettivazione, intendendo un processo che non può che essere costituito portando il conflitto dentro la produzione. Ciò valeva nell’epoca fordista (quando l’operaio-massa insorse con le sue lotte sul salario come variabile indipendente dalle proporzioni economiche imposte dal mercato capitalistico che poneva una «perfetta proporzionalità» degli elementi distributivi) e a maggior ragione vale oggi nell’epoca della sussunzione vitale, cioè nella condizione di sfruttamento del lavoro la cui sfera si sovrappone totalmente sulla società intera. Saranno le soggettivazioni capaci di esprimere le conflittualità anticapitalistiche a darsi una comune forma costitutiva e far emergere le istanze politiche nelle quali la moltitudine possa riconoscersi. Ci sono realtà dove questo processo in divenire è ad uno stadio avanzato (vedi la Francia), ma ancora – credo –  siamo ben lontani dall’avere a portata di mano una concrezione politica che accomuni le intersezionalità della moltitudine esistente, ancora frammentate in una soggettivazione debole, la cui debolezza influisce anche sulla nuove possibili emersioni dal sociale: bisogna prendere atto che tempi e modalità del divenire della soggettività non possono essere eterodiretti, ma si deve tuttavia provare a favorire la sua fase costituente. 

 

Un’ultima domanda solo indirettamente legata al libro. Abbiamo detto che il primo saggio è del 1986. Prima d’allora, invece, hai fatto parte del movimento autonomo palermitano del quale hai scritto in un altro tuo bel lavoro contenuto nel primo volume de Gli Autonomi (DeriveApprodi, 2020). A tal proposito vorrei chiederti, a partire dalla tua esperienza, come ritieni siano state recepite le categorie operaiste nei movimenti antagonisti siciliani di ieri e di oggi?

 

Con la fine degli anni Settanta il peso della sconfitta determinò un riflusso inesorabile. Soltanto un’area molto ridotta di movimento era rimasta a presidiare qualche forma resistenziale di conflittualità, sulla quale una certa influenza teorica l’operaismo continuava ad esercitarla, ma non era la sola. E comunque questa realtà era perlopiù circoscritta all’interno dell’Università (dove avevamo ripreso anche una serie di seminari che tenevamo presso l’aula della CUBA ad Architettura, di cui abbiamo già parlato: www.machina-deriveapprodi.com/post/gli-arnesi-della-bottega-e-le-soggettività-politiche-intervista-a-toni-casano-parte-prima). Ci fu la vicenda dei missili-cruise a Comiso che sembrava aprire un nuovo spiraglio al rilancio del movimento: gli Ottanta ebbero inizio con il progetto del rilancio in grande stile della base-NATO nella cittadina ragusana, lavori finalizzati all’installazione dei missili «a bassa quota e a traiettoria guidata nella più grande base euromediterranea sotto l’egida del «patto atlantico». Comiso divenne meta di un grande movimento pacifista, così come sarebbe diventato molto più avanti in quel di Niscemi col famigerato MUOS. Con la caduta del muro di Berlino e l’implosione del blocco sovietico la base militare progressivamente venne smantellata, perdendo valenza strategica. Allo stesso modo crollò quel che era passato nella convinzione generale: che la fine della «guerra fredda» avrebbe inaugurato una nuova fase storica senza più conflitti bellici e la globalizzazione che veniva ne avrebbe certificato la prospettiva all’orizzonte. In quella stagione di lotte pacifiste avevamo tentato di rilanciare il nostro pensiero critico autonomo dalle «logiche politiciste» della pacificazione, ritenendo la logica della guerra assolutamente non esaurita e, invece, stabilmente sottostante ad una economia-mondo che si andava pianificando con un esercizio spietato di controllo a regime del funzionamento della macchina del sistema capitalistico. Un modello che avrebbe regolato le crisi – come avremmo scoperto poco dopo – con le operazioni di «polizia internazionale», così come accadde nel 1990 con la prima guerra del golfo condotta da George Bush. Ma, nel frattempo, quel movimento pacifista originato a Comiso si era esaurito da un pezzo. Come area dell’Autonomia, fuori dal corteo promosso sostanzialmente dal partito comunista, avevamo organizzato un’assemblea numerosa e partecipata con tutte le realtà regionali per discutere sulle differenze di analisi (da posizioni di minoranza) rispetto alle forze egemoni che caratterizzavano il movimento. In realtà intuivamo che qualcosa di enorme stesse cambiando negli assetti geopolitici internazionali, però non sapevamo ben definire quali sarebbero stati gli scenari futuri né che la globalizzazione, che cominciava ad innescare i primi dispositivi della trasformazione, avrebbe modificato i rapporti sociali e le stesse condizioni della vita del pianeta. Tutto ciò sarebbe stato più chiaro negli anni a venire. Quindi, sostanzialmente, il nostro approccio politico ereditato dal ’77 non riuscì a fare breccia nei movimenti d’allora in termini di critica del sistema del warfare-state. Cosa ben diversa è stata invece l’incidenza analitica dell’area postoperaista nel movimento noglobal  prima e newglobal dopo.




Toni Casano è giornalista, saggista, blogger. Attivista dei movimenti sociali e sindacali. Ha animato – come redattore o direttore – diverse riviste e collaborato con numerose testate cartacee ed online. Ha fondato e coordina il blogmagazine NoteBlock ed è curatore per le Edizioni Multimage della Collana «I Libri di Pressenza»

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