Riprendiamo l’intervista ad Antonio Casano attorno al suo libro, "Arnesi dalla bottega. Saggi politici sulla soggettività" (Multimage 2022), in cui vengono riproposti nove saggi pubblicati fra il 1986 e il 1993 sulla rivista milanese “Alla bottega”: "Si tratta di lavori - scrivono dalla redazione di MACHINA che ha raccolto l'intervista - accuratamente documentati che possiamo considerare come arnesi critici, di ispirazione marxista e operaista, con i quali vengono passate in rassegna le tematiche centrali dello sviluppo capitalistico emerse sul finire degli anni ’70 ma ancora oggi dibattute e in voga". Antonio Casano, per gli amici e compagni Toni, è un blogger, giornalista e saggista che ha partecipato direttamente, negli anni ’70, al movimento dell’Autonomia Operaia di Palermo, esperienza di cui si trova traccia in un suo saggio pubblicato sul primo volume della collana "Gli Autonomi" edito da DeriveApprodileggi quì la seconda parte dell’intervista
La prima domanda è obbligata. In
generale, cosa ritieni sia ancora utile di questi saggi, l’ultimo dei quali
data un trentennio? E cosa invece può essere considerato un arnese definitivamente
inutilizzabile?
Credo che
l’utilità di questi saggi non possa essere commisurata sulla scorta del tempo
trascorso. Essi costituiscono un quadro analitico sulla crisi della
soggettività intervenuta nel ciclo delle lotte operaie post-68, frutto anche di
un percorso politico che attinge la sua critica teorica nelle nuove ragioni
emerse dallo straordinario movimento del settantasette. Nella prima fase il 77
ebbe la capacità di liberare le nuove generazioni di militanti dalle pastoie
del settarismo gruppettaro residuale che aveva esaurito l’iniziale forza
propulsiva avuta coll’extra-parlamentarismo, ma che tuttavia era rimasto
incastrato nell'orizzonte politico prospettato dal movimento operaio ufficiale.
Quel che allora si percepiva ̶ e che attraversava i corpi di quella
moltitudine – era la tensione costituente di una progettualità altra che non
aveva più alcun rapporto con le logiche della transizione socialista,
riformista o rivoluzionaria che fosse: l'autonomia operaia rifiutava ogni
separazione tra avanguardia e massa, tra partito e movimento, tra teoria e
prassi. La «centralità operaia» era un residuo «emmellistico» che ̶̶̶̶ ̶̶̶ se
pur variamente declinato ̶non rispondeva alla realtà della nuova
soggettivazione antagonista, la quale, invece, si alimentava dentro un piano di
orizzontalità senza più configurazioni gerarchiche di sorta. Insomma, gli
arnesi hanno l'ambizione di cercare di cogliere la critica radicale di quel
movimento di lotta sociale che – parimenti alla capacità di elaborare collettivamente
un sapere comune – senza bisogno di alcuna esternalità riuscì ad incardinare in
piena autonomia una comune prassi politica, nella quale si sperimentavano già
forme di socialità alternative ai modelli proposti dalla società dominante.
D'altra parte, in tantissimi di quel movimento si ritroveranno a misurarsi e a
riflettere su quella storia comune, contribuendo così a sviluppare una vasta
letteratura: una «scuola di pensiero» che ha coinvolto una portata eccezionale
di ricercatori-militanti, su cui nuove leve generazionali hanno potuto
inchiestare, arricchendone la valenza critica sulla scorta dei nuovi conflitti
insorti su scala globale.
Dopo la fase
delle lotte del ’77, nei primi anni Ottanta, insieme ad un gruppo di compagni
del movimento palermitano, a partire dall'esperienza collettivamente maturata
nelle facoltà occupate, tentammo un lavoro di inchiesta sulle ragioni del
movimento autonomo e sulle cause del suo riflusso. Era un collettivo informale
che voleva continuare a discutere e ad interrogarsi sulla valenza conflittuale
della nuova soggettivazione autonoma, in relazione all’intervenuta rottura con
la soggettività operaia, formatasi nel corso del novecento e nel processo di
accumulazione tayloristica. Questa impostazione ci tornava utile anche al fine
di approfondire quali scenari possibili immaginare data la fine della
«centralità della fabbrica», con la consequenziale scomposizione della classe
sottoposta ad una forzata espulsione dal ciclo di automazione comandato dalla
ristrutturazione capitalistica.
In sostanza,
dopo aver sperimentato nelle facoltà occupate il percorso auto-formazione
con i seminari autogestiti (di cui si rivendicava la fiscalizzazione collettiva
con gli esami di gruppo), nella fase drammaticamente calante del movimento
conflittuale, come gruppo di studio avevamo deciso di continuare
metodologicamente quel lavoro di ricerca già sperimentato, avendo come
obiettivo dell'inchiesta la crisi della soggettivazione del conflitto: nel
merito eravamo noi stessi l'oggetto dell'indagine. Fra i punti essenziali di
questo lavoro di ricerca v’era la nuova determinazione soggettiva dell’operaio
sociale, in uno con la categoria centrale dell'operaismo – il general
intellect. Sinteticamente questi erano i punti su cui s'era innescata la
rottura tra il movimento operaio ufficiale (basato sulla ideologia lavorista) e
l’altro movimento operaio autonomo (articolato nel rifiuto del lavoro).
Ovviamente non tutto il gruppo (che si riuniva nell’aula della CUBA – Comitato
Unitario di Base Architettura, uno spazio autogestito della facoltà sita nel
centro storico della città) era sulla stessa linea: la riemersione delle
venature «emmelliste» (partito, centralità operaia, etc.), come risposta a quel
che veniva considerato l’«inevitabile riflusso della pratica movimentista», ci
allontanarono dalla prosecuzione dell'inchiesta, tant’è che il collettivo non
ebbe lunga vita. Ma in qualche modo il lascito di quell'esperienza è stato
provvidenziale, nel senso che lì ho potuto delineare – in via generale – il
tracciato teorico di quel che sarebbero diventati i miei arnesi. In altri
termini, a partire dal vissuto singolare acquisito dentro le realtà del
movimento, si tratta di elaborati che si misurano con la vicenda dell'autonomia
operaia, cercando di chiarire i capisaldi della frattura insanabile
determinatasi con l'organizzazione politica ufficiale del movimento operaio,
verso la quale non sarebbe stato più possibile trovare alcun minimo contatto
politico condivisibile. Una volta caduto il velo dell'infingimento
revisionistico dell'allora Partito Comunista Italiano [d’ora in avanti PCI] – così com'è stato del tutto evidente sin
dall'avvio della cd. «seconda repubblica» - quel ceto politico che ha ereditato
il portato ideologico del «compromesso storico», fusosi nell'odierno PD dopo
essersi arrampicato fra i rami dell'Ulivo, è entrato a far parte organicamente
della composizione tecnico-qualitativa del capitalismo ordoliberista, la cui
macchina di dominio – articolata nella governance multilivello tecnocratico-finanziaria
insediatasi nello spazio giuridico-istituzionale dell'UE – non tollera più i
vecchi giochi della rappresentanza politica della democrazia parlamentare, così
come abbiamo potuto verificare nel caso greco. Io penso che, nel complesso
dall'intreccio analitico, diverse intuizioni politiche sulla soggettività
traspaiano dagli arnesi da me riproposti, fermo restando la base della
struttura costruita sulla pars destruens del movimento del sessantasette e sui
nodi fondamentali rimasti irrisolti. Orbene, capovolgendo la tua domanda, credo
che la questione non sia tanto cosa sia ancora «utilizzabile» come attrezzo per
la critica della società capitalistica contemporanea. Potrei dire
l’operaio-sociale, ma in un certo senso – con la rottura della centralità della
fabbrica – è come se questa figura ci avesse spianato la strada, aiutandoci a
decifrare i nessi vitali del processo intangibile dello sfruttamento
capitalistico che cominciavano ad emergere: da un lato, con la fine del lavoro
materiale dell’operaio specifico del ciclo di trasformazione; dall’altro, col
dispiegarsi del lavoro astratto socialmente disseminato che ci avrebbe portato
verso la soggettivazione della moltitudine contemporanea
Per chiarire
meglio. Se dovessi oggi scrivere gli arnesi li riscriverei nello stesso lessico
critico di quel tempo, giacché l’intento è quello di stare dentro una
temporalità storicamente determinante, a mio avviso ancora utile (se non
necessaria) da studiare, poiché i nodi posti in essere in quell'arco di lotta
sociale, come accennavo sopra, sono ancora tutti aperti. Per esempio: il cambio
di paradigma della soggettivazione rivoluzionaria veniva posto come una
concrezione ineludibile. Infatti, nella pratica dell’autonomia, che negava ogni
transizione ipostatizzata dal movimento operario ufficiale, si sperimentavano
già forme allusive del bisogno di comunismo.
Sintetizzando,
l’oggetto della mia ricerca è la crisi della soggettività, colta in un tempo
storico determinato, quello della dissoluzione del «patto fordista», nel quale
si consuma la cesura epocale tra la soggettivazione autonoma emergente e il
soggetto incarnato dall’organizzazione del movimento operaio tradizionale
(indissolubilmente quest'ultimo legato alla logica della transizione
socialista). È la fase in cui il PCI, quella del compromesso storico, che
portava a compimento la lunga marcia (iniziata con la togliattiana «via
italiana al socialismo») verso l’istituzionalizzazione-statalizzazione del
movimento operaio. Con il governo «delle astensioni», o della «non sfiducia»,
giungeva così a concrezione l'agognata transizione prefigurata con la «svolta
di Salerno», di cui l'inveramento del berlingueriano compromesso ne fu la
logica conclusione: transizione nella quale l’autonomia della classe verrà
trasfigurata ed omologata indissolubilmente in quel che diverrà il disegno
trontiano dell’autonomia del politico, quello più subdolo e corruttivo che
avrebbe voluto ricondurre alla ragione ordinatrice sovranista ogni minimo
refolo d'agitazione sociale. Un disegno giunto al punto estremo di maturazione,
nel quale s'immagina che l'unica trasformazione politica percorribile sia
quella data dentro lo spazio giuridico-istituzionale, mediante una sorta di
recupero di quella «neutralità hobbesiana» posta a fondamento della sovranità,
la cui essenza sarebbe incardinata nella forma del potere autonoma dal
conflitto di classe, annullando e superando quel velleitarismo antagonista che
pretenderebbe essere di per sé fonte autonoma della nascente sovranità dal
basso: la soggettivazione costituente del contropotere. Contro quelle che
venivano considerate «velleità insurrezionali» si inventa un nuovo
rivoluzionarismo possibile, con il quale si afferma come unica possibilità
d'inveramento della trasformazione sociale la metafisica dell'autonomia
politica, in cui lo spirito della sovranità si cosparge dall'alto. Il medium di
questa spiritualità non potrebbe essere altri che il partito-principe che si fa
portatore del riscatto della rude razza pagana, innervandosi nel corpo inerme
dello stato, come in un processo di reincarnazione nella macchina
istituzionale, generando così quel nuovo ordine sociale tanto agognato nel
Novecento.
Certo, il
compromesso storico non era esattamente sovrapponibile alla costituzione di un
nuovo blocco di alleanze prefigurato dal modello trontiano, ma ben poteva
configurarsi – come tappa intermedia – dentro lo schema dell'autonomia del
politico, nell'illusoria prospettiva istituzionale con il PCI stabilizzato a
pieno titolo come parte integrante del ceto di potere, organicamente inserito
nello spazio di rappresentanza. In quanto tale, sarebbe stato il garante della
pacificazione del conflitto di classe, mantenendo in essere quelle rendite di
posizioni acquisite sulla scorta del moderatismo vertenziale, assolutamente compatibili
con il sistema dell'impresa: compatibilità su cui le centrali sindacali avevano
ripreso in mano la direzione delle lotte insieme al sopravvento in fabbrica,
contrastando apertamente quell'autonomia operaia che irruppe nell'autunno caldo
rivendicando una dinamica salariale come variabile indipendente dal capitale.
Vogliamo ricordare brevemente qual era il contesto politico da cui prese le mosse il movimento del ‘77?
Il PCI dopo
aver conseguito un risultato straordinario alle elezioni del 76 (oltre il 34%,
toccando il suo massimo storico, sebbene non sufficiente per l’agognato
sorpasso sulla DC) divenne de facto arbitro della stabilità del sistema-Italia:
il dato emerso dal suffragio elettorale faceva venir meno il solito minuetto
della consultazione per la formazione del governo, alla ricerca d'una
maggioranza parlamentare necessaria al conferimento della fiducia, la quale non
era numericamente possibile senza il consenso del partito di Enrico Berlinguer.
Cosicché, richiamandosi al suo tradizionale statalismo ed appellandosi al senso
del dovere istituzionale (e verificato, altresì, il determinarsi di essere
riconosciuta forza legittima di governo dopo esserne stato cacciato negli anni
della ricostruzione postbellica), il PCI era destinato ad assicurare il proprio
sostegno politico al governo di solidarietà nazionale: un anomalo monocolore
democristiano, a guida Giulio Andreotti. Questo fu un esecutivo decisivo, con
il compromesso storico che trovava un incardinamento istituzionale e che
mirava, in primis, a garantire la fine del conflitto sociale e dello stato di
crisi permanente che il lungo sessantotto italiano aveva generato. Pertanto, il
movimento operaio ufficiale veniva chiamato alla corresponsabilità politica per
riequilibrare il paradigma economico, riconducendo la dinamica salariale -
assunta nel conflitto sociale dell'operaio massa come variabile indipendente -
nella strettoia dell'interdipendenza dei fattori della produzione. A seguito di
questa svolta furono poste in essere misure antisociali draconiane improntate
su politiche restrittive, in coerenza con la montante ondata ristabilizzatrice
di stampo neoliberista. A questa visione che via via prendeva campo il compromesso
storico italiano era perfettamente omologabile. Non era un caso che le prime ad
essere chiamate in causa furono le organizzazioni sindacali, in primo luogo la
CGIL, principale cinghia di trasmissione del PCI e al centro di un ordito
organizzativo ben articolato nella società. Pertanto, le lotte operaie e
sociali subirono una forte contrazione salariale, diretta (erosione del potere
d'acquisto) e indiretta (compressione dei servizi sociali) e proprio il leader
della CGIL, Luciano Lama, scese in campo tuonando in difesa della «politica dei
sacrifici». A tali scopi si strinse un patto di ferro con il sistema
dell’impresa, ed in primis con il maggiorente rappresentate dell’industria
italiana, Cesare Romiti, l'allora potente amministratore delegato della FIAT.
Questo, in estrema sintesi, era il quadro entro il quale emerse l'antagonismo
soggettivo proprio del movimento del ’77: la cacciata di Lama dall’Università a
Roma segnò simbolicamente la rottura col movimento operaio tradizionale di cui
abbiamo parlato sopra; così come la rivolta di Piazza Statuto a Torino,
quindici anni prima, è stata l'atto simbolico costituente l'operaio massa che,
con la grande emigrazione interna, aveva ereditato il lungo conflitto epocale
del bracciantato agricolo del Sud. Una storia quest’ultima molto importante,
come sai, che purtroppo è sempre più nascosta ma che, nel dopoguerra dello
scorso secolo, con l'occupazione delle terre aveva portato i subalterni del
mezzogiorno al loro riscatto sociale ed alla fine della millenaria dominazione
del latifondismo meridionale.
Certo, la sequenza occupazione delle
terre, Riforma Agraria ed emigrazione condussero i contadini meridionali a
divenire operai nel triangolo industriale ed a far crescere vertiginosamente il
conflitto di fabbrica già acuto. Ma ritorniamo a quella che nel libro definisci
come la rivolta dell’operaio sociale…
Si, come
ricostruisco nel libro già prima del 77 iniziano a crescere le nuove forme di
soggettivazione antagoniste fuori dall’ideologia lavorista, come nel caso dei
circoli del proletariato giovanile formatisi nelle periferie metropolitane, i
quali rivendicavano una libera mobilità contro l’emarginazione urbana, in
tutt’uno con una piena e diversa socialità non più mediata dalla
città-fabbrica. Cominciano le occupazioni di spazi urbani abbandonati che
vengono rigenerati, autogestiti e fruiti collettivamente come espressione di
culture altre. In questi luoghi, che venivano sottratti al degradante abbandono
o alla speculazione privata, venivano difesi i beni della comunità e si
rivendicava il diritto alla città per il soddisfacimento di bisogni comuni o
desideri che ogni singolarità poteva liberamente coltivare: musicisti, attori,
registi, poeti, artisti e creativi di ogni genere hanno potuto negli spazi autogestiti
esprimere senza censure la propria creatività. Dobbiamo anche ricordare che,
dopo la tornata elettorale per le amministrative del 75, le giunte di sinistra
guidate dal PCI si trovarono ad amministrare il grosso delle città
metropolitane e dei medi centri urbani. Ma le aspettative di quegli elettori
furono pressoché disattese. In particolare, s'era determinata una spaccatura
netta, politica e culturale, tra le nuove generazioni e il vecchio ceto
politico della sinistra ancorato alle feste dell'Unità. Nello specifico, quel
che fece esplodere il movimento del 77, la classica goccia per la quale
trabocca il vaso, furono i provvedimenti emanati dal Ministro della Pubblica
Istruzione Malfatti che prevedevano l'introduzione selettiva del numero chiuso
nelle Facoltà e un nuovo livello formativo – il dottorato di ricerca –
ripristinando di fatto il controllo baronale (non disdegnato dalle baronie
rosse organiche al PCI) e ristabilendo il comando sulla catena della conoscenza
sotto il potere autoritario al servizio del modello economista dello sviluppo.
A quel punto, la risposta del movimento non fu il solito «studentismo
vertenziale» ma andò ben oltre le pratiche sperimentate sia dalla sinistra
extraparlamentare che dalle federazioni giovanili della sinistra istituzionale.
Si realizzò spontaneamente, in altri termini, un percorso di autorganizzazione
che guardava al di là del vecchio orizzonte socialista. Iniziò un cammino di
elaborazione pratico-teorica che dalle occupazioni delle facoltà contro i
provvedimenti Malfatti si proiettò nella società con la critica della
microfisica del potere e una concezione desiderante della liberazione singolare
e collettiva: il personale è politico. Grande merito di questa tensione sociale
l’ebbe indiscutibilmente il movimento femminista: la pratica dei gruppi di
autocoscienza, ad esempio, divenne una esperienza comune che ha attraversato
tutte le sensibilità soggettive del movimento autonomo.
Concludendo
sul punto di domanda iniziale, la critica decisiva alla soggettività operaia
storica passava lungo la linea dell'orizzontalità, senza alcuna distinzione tra
la fase di lotta e l'edificazione della rappresentanza: il movimento si
autorappresenta già dentro la potenza della conflittualità. Quindi la raccolta
dei saggi nel volume ha a che fare con questo periodo storico, nel quale si
schiude un nuovo orizzonte politico – che ha attraversato diverse generazioni –
la cui pars costruens, in fondo, è
tutta ancora da tratteggiare, ma di sicuro ha avuto il merito di liberarsi da
ciò ch'era diventata una zavorra ideologia del movimento operaio
dell’otto-novecento: la transizione socialista – riformista o rivoluzionaria –
dello stato moderno.
In Crisi della soggettività e
soggetti della crisi affronti, tra gli altri, il tema dello sviluppo e dei suoi
“limiti”, a partire dalle conclusioni cui giunse la ricerca del MIT
commissionata dal Club di Roma (1972) circa l’insostenibilità del modello
industriale a oltranza. La questione, come è noto, è straordinariamente attuale
come ci ricordano i movimenti giovanili di protesta che hanno fatto della
tematica ambientale la loro ragion d’essere. Se dovessi riscrivere oggi quel
capitolo sull’ecologia come lo riscriveresti. Cosa terresti e cosa
aggiungeresti a quanto scritto allora?
Sicuramente
la questione del climate change ha
assunto una valenza centrale. Essa pone interrogativi fondamentali alla società
contemporanea, in primo luogo quello sull'incompatibilità del sistema
capitalistico con il processo della riproduzione della vita umana: il pianeta
troverebbe naturalmente altre forme vitali di adattamento. Invece, alla
esistenza umana non si darebbe altra alternativa possibile una volta
oltrepassata la soglia del surriscaldamento del clima. Di questa prospettiva
catastrofica, in astratto, sembrano averne piena consapevolezza le classi
dirigenti che finora hanno governato la globalizzazione, le quali hanno
istituito ad hoc tutta una serie di
centri regolatori sotto l'egida del gruppo intergovernativo dei paesi
economicamente più avanzati del pianeta: il cosiddetto «G7», il forum che viene
spesso allargato ad altri paesi (G8, G20, etc), nella cui agenda la questione
clima è iscritta fra le principali tematiche. Tuttavia, essendo la logica del
profitto l'ideologia dominante, da questi simposi non sono mai uscite proposte
risolutive per una effettiva conversione ecologica, preferendo diversamente
porre in essere misure «realistiche», i cui obiettivi – imperativamente
perseguibili – devono andare di pari passo ai tempi richiesti per la
trasformazione dell'apparato industriale, tempi dettati nell'interesse
economico per gli investimenti sostenuti dal sistema dell'impresa
capitalistica. In realtà si pensa di poter governare l'effetto serra stabilendo
di volta in volta un limite consentito d'emissione dei gas, per rendere ancora
necessario questo modello di sviluppo economico del capitale, affidando ad esso
la scelta della fonte di energetica possibile ad una transizione economicamente
sostenibile, guardando verso un futuro decarbonizzato soltanto quando saranno esaurite
le scorte di combustibili fossili, fonte energetica principale posta alla base
dei processi accumulativi capitalistici.
Nelle more
che si realizzi questa lunghissima traversata ecologica, si cerca di estrarre
quanto più possibile dalla catena di valorizzazione delle fonti energetiche da
combustibili fossili, i cui effetti speculativi– riscontrabili ancor prima
dello scoppio della guerra ucraina – hanno incrementato il portafoglio
dell'industria mondiale del settore (vedi gli ingenti extraprofitti realizzati).
Con l'artato aumento vertiginoso dei prezzi al consumo è stata aperta una
manovra di accumulazione finanziaria, congegnata per riversare preventivamente
sulla società i costi d'investimento futuro, accumulando così i capitali
necessari per far ripartire quel che dovrebbe essere il processo capitalistico
nel passaggio verso l'energia pulita, magari facendo passare per tale il
rilancio del nucleare cosiddetto di «nuova generazione». Non a caso già s'è
prontamente tornati a discutere dei criteri per l'individuazione di siti
idonei, dove installare le obsolete centrali a fissione, preparando il terreno
sull'opzione nuclearista con una ben orchestrata operazione di greenwashing:
una campagna d'informazione basata su colossali fake news che sbandierano al
vento «virtuose innovazioni supertecnologiche», in uno ad avanzatissimi stadi
di ricerca scientifica, nella speranza che la fisica possa quanto prima donarci
l'agognata promessa della fusione dell'atomo, evidentemente da porre
strategicamente al servizio dell'eternizzazione dell'energivoro sistema
economico dominante.
È proprio in
questo gioco – quello dell’eternizzazione del sistema dominante – che si
innesta la transizione ecologica, la cui necessità sembra emergere
improvvisamente in questi ultimi anni, alimentata probabilmente - se mai ce ne
fosse stato bisogno – dalla vicenda pandemica che ha messo a nudo tutte le
debolezze della società capitalistica. Tutti sembrano aver dimenticato che
sulla questione «effetto serra» v'è una vastissima letteratura, non soltanto
sulle cause e sugli effetti collaterali da essa provocati - in primo luogo il
fenomeno delle desertificazioni che ha generato povertà e carestie ed
emigrazioni di massa forzate – ma anche sui necessari interventi che l'urgenza
richiede per contrastare adesso e non domani il surriscaldamento del pianeta.
Paradossalmente della sua emergenza, in termini di consapevolezza socialmente
diffusa, se ne parla da tempo, quanto meno sin dall'ultimo decennio dello
scorso secolo, quando è stata promossa la Convenzione quadro delle Nazioni
Unite sui cambiamenti climatici che, nel corso della COP\3 in Giappone nel
1997, ha dato la luce al famoso protocollo di Kyoto, il trattato internazionale
per la riduzione delle emissioni dei gas-serra causa del surriscaldamento
globale, al quale non hanno aderito diversi stati occidentali fra cui gli USA.
Fra le misure previste, in sintonia con la logica del mercato capitalistico,
piuttosto che con la necessaria visione ecologista, quella della riduzione
dell’effetto serra è affidata ad una pianificazione che contemperi mercato e
ambiente, dove l'interesse del primo de facto viene privilegiato, mettendo
sullo stesso piano il rapporto di scambio e l'ecosistema come se fossero parte
della stessa natura. Cosicché, fissato di volta in volta un tetto massimo di
emissione di CO2, si sono istituiti una serie di dispositivi per pianificare un
sistema di trading e piattaforme finanziarie per la commercializzazione delle
quote di emissione di CO2 di cui gli apparati industriali devono dotarsi per
mantenere i livelli di produzione. Per esempio, sulla scorta degli indirizzi
del Trattato, l’Unione Europea da tempo ha istituito a livello comunitario il
mercato di scambio delle quote di emissione di CO2. Orbene, in base ai principi
dal Protocollo di Kyoto non si fa altro che sancire la predominanza
dell'economico e delle sue istituzioni, quali unici efficaci presidi per la
riduzione dell’effetto serra: il mercato sarebbe l'unico «regolatore naturale»
in grado di tenere a bada i presupposti della riproduzione della vita umana nel
pianeta. Sostanzialmente, fatto salvo il saldo programmato di contenimento
dell'emissione di anidride carbonica, dentro la libertà del mercato viene
lasciata l'autonomia concorrenziale dell'impresa per l'accaparramento del
diritto di inquinare la nostra atmosfera, con l'acquisizione delle «quote
d'emissione» disponibile assegnate ai contraenti dei trattati internazionali
siglati in nome della riduzione dell'effetto serra. Appare evidente che
l’obiettivo di riduzione globale di emissione dei gas serra è del tutto
fittizio. Anzi, nella dinamica dello scambio, oltre che far pagare ai
consumatori finali il conto dell'inquinamento si allarga lo scarto tra le
economie sviluppate e quelle cd. «in via di sviluppo»: in teoria quest’ultime
vanterebbero il diritto ad un maggior disponibilità di “quote” eccedenti, ma
non possono essere utilizzare in loco dati i «limiti strutturali» in cui
versano queste economie. Tuttavia si rendono libere per essere offerte al
mercato globalizzato, correndo i rischi delle fluttuazioni borsistiche.
Premesso
quanto sopra e sintetizzando la risposta alla tua domanda, il punto che terrei
fermo rispetto agli Arnesi è la critica ecologica – mutuata da Andrè Gorz – ai
«limiti dello sviluppo» confessati dai teorici del MIT. Nel senso che i
disastri generati dal sistema capitalistico non possono essere superati dal
capitalismo stesso. È come chiamare al capezzale della crisi eco-sistemica gli
apprendisti stregoni che hanno inoculato il virus dell’accumulazione, senza mai
chiedersi quali disastri avrebbe potuto generare, bypassando ogni dubbio posto
del sacrosanto principio di legittima precauzione e negando perfino i danni
ambientali che erano già visibili nella prima rivoluzione industriale, come
quello dell’inquinamento atmosferico delle città-fabbriche.
Prendiamo la
recente passata esperienza governativa dei supertecnici dell’esecutivo-Draghi:
man mano che il paradigma «riparatore» della transizione ecologica (con
l’introduzione massiccia di dosi di energia prodotta da fonti alternative)
entrava in rotta di collisione con l’interesse del sistema dell’impresa, la
«grande transizione ecologica» tanto strombazzata si è trasformata in una più
risibile «transizione energetica», con la quale – al di là dell'opzione
nucleare di «nuova generazione» non certo immediata – veniva prevista una
pianificazione che poneva in essere la conversione delle vetuste centrali
termoeletriche da carbone a gas. Una conversione per la quale si stimava una
riduzione del 30% di emissione di anidride carbonica. Tutto ciò accoglieva le
richieste del sistema industriale che si è fermamente opposto ad un rilancio in
grande stile delle fonti alternative considerando insufficiente la capacità
energetica prodotta da queste ultime e, pertanto, non ancora in grado di
coprire il fabbisogno richiesto dall'obsoleto apparato produttivo. Ma con lo
scoppio del conflitto nel cuore dell'Europa si sono azzerati tutti i propositi
anche minimali del governo tecnico, rinviando sine die ogni ipotesi di «transizione
energetica».
Toni Casano è giornalista, saggista, blogger. Attivista dei movimenti sociali e sindacali. Ha animato – come redattore o direttore – diverse riviste e collaborato con numerose testate cartacee ed online. Ha fondato e coordina il blogmagazine NoteBlock ed è curatore per le Edizioni Multimage della Collana «I Libri di Pressenza»