venerdì 26 febbraio 2021

C’ERA UNA VOLTA UNA CAPANNA BUIA

-Daniela Musumeci-
                                           IL MATRIARCATO   TRA NATURA E CULTURA 


Judy Grahn - femminista lesbica, poeta e antropologa statunitense,  che ha svolto ricerche sul campo in Kerala, nell’India meridionale, oltre ad aver studiato tutti i grandi classici dell’antropologia, da Frazer a Levy Strauss, ed essersi  ampiamente documentata su mitologie e culture non scritte e scritte, antiche e contemporanee – ha raccolto gli esiti del suo pluriennale lavoro in quest’opera uscita negli USA nel 1993 e tradotta in Italia solo lo scorso settembre da Luisa Vicinelli, per i tipi delle Edizioni Effigi, curate da donne  

 

Promemoria

L’ipotesi del libro Il sangue, il pane e le rose è che all’origine della cultura e della civiltà umana siano le mestruazioni, sangue della vita, e che le mestruanti dell’antichità abbiano scelto volontariamente l’isolamento, anzi l’autoisolamento, sole tra donne, inventando riti mestruali per interpretare il mondo: attraverso i tabù dei riti avvenne nell’antichità la scoperta della separazione degli elementi naturali, acqua e cielo e infine terra, si appresero la numerazione e la misurazione, a partire dall’analogia fra ciclo lunare e ciclo mestruale.

L’autrice è consapevole che la sua ipotesi non può essere dimostrata nel senso positivistico del termine, ma sa che funziona come “metafora” delle origini femminili della storia: la mente mestruale produce metaforme, incarnazioni e materializzazioni della metafora originaria del sangue e della mestruante, che divengono cifre di comprensione e interpretazione della realtà esterna. Attraverso i riti, sia mestruali sia paralleli e maschili, nel tempo vengono elaborate quattro specie di metaforme: del selvaggio (elementi naturali, piante animali rocce), del kosmetikòs (cosmesi, cucina, medicina), della narrazione (hieros logos o storia sacra, miti, scrittura, arti figurative, matematica, musica), della materia (tecniche e scienze applicate, sino alla filosofia materialistica odierna che disprezza e strumentalizza la natura, ma corrisponde ormai a una mente maschile o seminale).

Il passaggio dal matriarcato al patriarcato, variamente risolto da antropologi e filosofi (e su cui torneremo), è legato, secondo Grahn, alla pastorizia: con l’addomesticamento delle fiere, ai sacrifici umani si sostituiscono quelli animali (come nel racconto biblico di Abramo e Isacco) ovvero anche quelli della mestruante collettiva in effige (una statua, un pezzo di legno). E la fine dei sacrifici umani comporterebbe l’inizio della vergogna per il sangue mestruale, come per le malattie, punizioni della Dea Madre Terra (un esempio, che però Grahn non cita, è il legame tra incesto e peste nel mito di Edipo Re del ciclo tebano).

Con il passaggio alla deità maschile (già nell’epopea sumera di Gilgamesh), subentrerebbe il materialismo, la negazione della corporeità, il disprezzo per la natura e la sua strumentalizzazione e mercificazione, nonché l’odio per i gruppi ancora legati a metaforme mestruali (razzismo, antisemitismo, omofobia), con la creazione di necroforme e di una cultura di guerra, vere patologie sociali.

L’alternativa è il progetto, memore delle origini, di una comunità rispettosa della vita in tutte le sue sfaccettature, in una inedita interazione fra uomini e donne, che segni la fine dello sfruttamento della natura e un cambiamento delle basi dell’economia.

 

Archetipi

Mentre leggevo questo libro, stavo lavorando a una riedizione delle mie poesie ed una in particolare mi è sembrata rivelatrice degli archetipi femminili che da sempre riposano in noi. Ve la trascrivo per darvi un’idea di come può risuonare dentro quella sigizia che Jung chiama Animus-Anima ovvero il doppio luce-tenebra già incarnato dalla dea madre.

 

Esperimento.

In lama doppia

d’agonia e doglie

sono luce oscura,

cuneo rosso

in prisma di carne bianca,

serpe d’acqua danzante,

ibis percosso da venti d’erbe

troppo fresche,

non richiesto loto.

Dove supplica la fronte della luna

dove dormono le farfalle

lì giaccio e riposo.

Ho chiesto a un uomo che mi partorisse.

Che avventato desiderio!

 

 

Analogie

I primi studi sul matriarcato furono quelli di Bachofen, a metà Ottocento: il giurista svizzero studiò le forme più antiche di religione e le prime normative sociali nell’Europa preistorica, intuendone la struttura e la genesi femminile. Da questi studi prese le mosse Engels per il suo Le origini della famiglia,della proprietàprivata e dello Stato, nel quale spiegò il passaggio al patriarcato in chiave economica, indicando la divisione sessuale del lavoro tra agricoltura femminile e guerra maschile alla radice dell’impostura culturale dell’inferiorità della donna. Quando i popoli nomadi si sedentarizzarono, alla raccolta e alla caccia subentrò l’agricoltura, alla quale si dedicarono le donne, come ad ogni altro lavoro di cura; il territorio tribale fu delimitato e si sviluppò così il concetto di proprietà, alla cui difesa furono preposti, o meglio si autoproposero, gli uomini; le armi, possesso maschile, avrebbe affermato in definitiva il loro primato. Ma questa lettura economicistica è rifiutata dalle femministe, dalla Gimbutas alla Grahn, che muovono dalla differenza di genere innanzi tutto biologica e riconoscono nella Dea Madre una figura della vita, la quale sovrintende quindi tanto alla nascita quanto alla morte: figura non solo protettiva ma anche distruttiva, i cui parafernali sono non solo reti, corde e tessuti ma anche selci, ossidiane, lame, armi appunto.Tant’è che Prometeo ruba ad Atena non solo l’ulivo, ma anche la lancia…

Una fittissima rassegna antropologica è stata compiuta poi, a metà Novecento,da Simone de Beauvoir, ne Il secondo sesso, ma la sua era una sorta di antropologia rovesciata: intendeva dimostrare che “donne non si nasce, donne si diventa”, cioè che è la cultura, o piuttosto il mancato accesso alla cultura, a relegare le donne in posizione di inferiorità, mentre esse nascono uguali agli uomini; pertanto, secondo lei, solo realizzando una società androgina, si potrà creare una comunità giusta, con pari opportunità per entrambi i sessi. Si chiude la donna in una cucina o in un boudoir e ci si meraviglia che il suo orizzonte sia limitato; le si tagliano le ali e si deplora che non sappia volare. Che le si apra un avvenire e non sarà più obbligata a rinchiudersi nel presente. Le donne non hanno presa sul mondo degli uomini perché la loro esperienza non insegna a maneggiare logica e tecnica; inversamente la potenza degli strumenti maschili si arresta ai confini del dominio femminile. C’è tutta una regione della conoscenza umana che l’uomo ignora deliberatamente perché se la pensa vi naufraga; questa esperienza la donna la vive. […] I due sessi sono ognuno vittima nello stesso tempo dell’altro e di sé; ognuna delle due parti è complice dell’avversario. […] Ma se immaginiamo invece una società in cui l’eguaglianza dei sessi sia realizzata concretamente, vedremo un mondo androgino e non un mondo maschile, in cui uomini e donne affermino la loro fraternità. Nel 1949, la de Beauvoir teorizzava così la via femminile all’emancipazione, economica innanzi tutto, ovvero quello che potremmo definire il femminismo dell’uguaglianza.

La Grahn, al contrario, come molte altre prime di lei, muove dalla differenza biologica in quanto fondativa della differenza di genere e di una cultura originaria separata: questo approccio la spinge a riflettere sulle donne mestruate agli albori dell’umanità e a riconoscerle non come espulse e recluse o segregateda parte dei maschi del villaggio, ma come determinate a scegliere liberamente per sé la separatezza al fine di ri-creare il mondo.

La separazione liberamente scelta, allo scopo di immaginare e sperimentare una Weltanschauungaltra da quella maschile, la ritroviamo nella rivisitazione del mito delle Amazzoni offerta da Christa Wolf nel suo romanzo Cassandra. Essa però è per la prima volta e magistralmente teorizzata da Virginia Woolf nel suo saggio Le tre ghinee, nel quale la scrittrice ci prospetta la società delle estranee, una organizzazione di donne che si batteranno contro la guerra (siamo nel 1938) a fianco degli uomini ma a partire da sé, dal proprio desiderio di creare bellezza e relazioni circolari antiautoritarie e nonviolente, alternativa dunque in tutto e per tutto alla piramide gerarchica maschile. Le Estranee (Outsiders) si impegneranno non solo a guadagnarsi da vivere ma a farlo con competenza, a denunciare ogni prevaricazione e abuso, a ritirarsi dalla competizione e a praticare la loro professione nell’interesse della ricerca e per pura passione, si impegneranno a rimanere fuori da qualunque professione nemica della libertà, come quelle in cui si inventano o si perfezionano gli strumenti di guerra; in questo modo la loro attività sarà creativa, non puramente critica. […] La Società delle Estranee persegue i vostri stessi fini: la libertà, l’uguaglianza, la pace, ma cerca di raggiungerli con i mezzi di un sesso diverso, una tradizione diversa, un’educazione diversa e i diversi valori che tutte queste diversità hanno messo a nostra disposizione. [… ] Uno dei nostri scopi sarà di aumentare l’esperienza della bellezza, i frammenti di bellezza che sono ovunque.

 

Tornando alla Grahn, ella ha svolto la sua ricerca sul campo nell’India meridionale, in Kerala, ma si è anche avvalsa di un vastissimo materiale che spazia da Il ramo d’oro di Frazer a Il crudo e il cottodi Levi Strauss, da Margareth Mead a numerosi studiosi anglosassoni del mondo africano, australiano, delle Hawaii.

Io qui vorrei ricordare specialmente Birnbaum e Gimbutas.

Lucia Birnbaum, nel suo Madonne Nere, racconta, con prove archeologiche e artistiche svariate, il percorso della Dea Madre che, originaria dell’Africa, si è spostata nel vicino e medio Oriente, nella penisola balcanica e a Roma, per giungere sino in Sicilia, Spagna e Francia Meridionale: la Inanna/Ishtar sumera, la Tanit fenicia, la Cibele frigia sul suo carro trainato da due leonesse, Demetra e Cerere sono un’unica dea, della fecondità come della siccità, della vita e della morte. L’origine africana della dea madre è tradita dall’attuale persistenza del culto di madonne nere in area mediterranea. Pensiamo al nostro santuario di Tindari, dove Maria dice di sé “nigra sum, sedformosa”, o alla grotta di Rosalia Sinibaldi sul Monte Pellegrino a Palermo, che reca sulla parete di destra un’edicola di Tanit.

Tale dea, come dimostra l’archeologa Marija Gimbutas nel suo splendido libro Il linguaggio della dea, nel quale riporta le sue amplissime ricerche, che muovono dal Paleolitico e si concentrano nell’Europa orientale, presiedeva alla nascita come alla morte, i due limiti inseparabili dell’esistenza; pertanto era rappresentata con statuine fittili rotondeggianti, veneri steatopigie,  talvolta gravide, ma anche scolpita nell’osso, essenziale silhouette bianca, scheletrica quasi, come di teschi era la collana di cui si adornava la dea Kali in India, insieme a Durga venerata come dispensatrice di abbondanza o carestia.

Ma, in più, la Grahn, diversamente da tutti gli antropologi uomini, indaga a partire da sé e fa precedere ogni passo avanti nella sua ricerca da una retrospezione ed introspezione della sua relazione conflittuale con la madre: senza fare i conti con la propria madre, con il gioco di specchi - doloroso e gioioso insieme - che essa innesca, nessuna relazione con un’altra donna è possibile. Circa la difficoltà delle relazioni femminili, la scrittrice algerina Assia Djebarci testimonia che in Nord Africa le donne chiamano ferita, derra, la mia ferita, la propria con-moglie (nel mondo islamico un uomo può legittimamente avere sino a quattro mogli). Bisognerebbe tradurre “colei che mi fa male”. Oppure “colei a cui faccio del male”. […] L’atto veramente sovversivo è che le donne decidano di non essere più l’una la ferita dell’altra, ma di essere insieme la ferita dell’uomo. […] La mia vera riflessione è dunque su come si possa scoprire una solidarietà tra donne reali, più unite fra loro, forti, sorelle (dall’intervista “Andare ancora al cuore delle ferite” raccolta da Renate Siebert). E sovviene, a questo punto, che ferita è anche la vagina che sanguina, per il mestruo o per il parto, e che ci accomuna piuttosto che renderci rivali in una logica di conquista che non ci appartiene.

A proposito delle metaforme del kosmetikòs e del tabù del sangue in cucina, poi, non possiamo non citare la tradizione vegetariana di tutto l’induismo e il buddismo nonché della scuola pitagorica, ma anche la consuetudine cristiana, e occidentale in genere, di non mangiare animali carnivori, che si siano nutriti cioè di carne viva; per non parlare della cucina kosher, che nel mondo ebraico prescrive tagli rituali delle carni alimentari in modo da farne scorrere via tutto il sangue e così purificarle.

Quanto all’archetipo della donna selvaggia, o mestruante collettiva incarnata nella Luna Nera e nella Dea Madre, vorrei di nuovo proporre un’analogia: stavolta fra la rilettura della favola di Cappuccetto Rosso, mestruante rituale che si isola nella capanna (della nonna), della Grahn e quella che ne fa Clarissa Pinkola Estés, psicoanalista junghiana, nel suo celebre libro Donne che corrono coi lupi, in cui riporta uno stralcio del suo poema in prosa Il ciglio del lupo. Cappuccetto, archetipo della donna selvaggia, libera senza paura un lupo preso nella trappola del cacciatore e ne riceve in cambio, per riconoscenza, un ciglio che le consentirà di distinguere i buoni dai cattivi. “Io devo andare nel bosco, devo incontrare il lupo, altrimenti la mia vita non avrà mai inizio” si disse Cappuccetto. E, salvato il lupo e ricevuto il dono, non soltanto vide l’infido e il crudele, ma iniziò a crescere immensa di cuore, perché guardava ogni persona e la soppesava in modo nuovo. […] Fu così che apprese che è vero quel che si dice, che il lupo è il più saggio di tutti. Se ascolti con attenzione, il lupo nel suo ululare va ponendo la domanda più importante: dov’è l’anima? Dov’è l’anima? Non solo madre primigenia appartenente al passato, dunque, la donna selvaggia, ma meta di una liberazione femminile, in un percorso in cui i ruoli maschili della tradizione sono rovesciati: il civilizzato è il corrotto, come finisce anche col suggerire la Grahn, quando auspica l’abbandono del materialismo consumistico - quello che Hannah Arendt definisce antropocentrismo tecnologico - per una rifondazione della società e dell’economia rispettose della natura e della Terra Madre.

La presa di distanza dal disprezzo della natura, tipico della mente seminale maschile, si può accostare anche alla critica al fallo-logo-centrismocoraggiosamente e testardamente sviluppata negli anni Settanta da Carla Lonzi nei suoi Quaderni di Rivolta femminile e specialmente in Sputiamo su Hegel. Il primato del Logos contrapposto alla Fysis, della ragione maschile sul sentimento femminile, della parola sulla natura, ha generato la rimozione del femminile dalle origini della storia e della filosofia, con la pretesa del primato del logos e del dominio maschile sulla fysis. L’alternativa, come ce la prospetta Derrida, è il farsi donna della filosofia, ossia, per dirla con Grahn, il recupero della mente mestruale.