mercoledì 11 settembre 2024

A SINISTRA VIETATO VIETARE?

Giovanni Di Benedetto -

 tutelare le particolarità e le differenze 

Il presente lavoro è stato elaborato in occasione della presentazione del libro Vietato a sinistra (a cura di Daniela Dioguardi per i tipi di Castelvecchi Editore,2024)  che si è tenuta a Palermo Giovedì 27 Giugno 2024 presso la libreria Feltrinelli

Questioni dirimenti come quelle della legge 54 del 2006 sull’affido condiviso, dell’utero in affitto, della gestazione per altri (GPA), del sex work,la prostituzione o sesso a pagamento, e del blocco della pubertà indotto tramite farmaco su minori che si percepiscono di sesso diverso da quello di nascita, non si possono liquidare facilmente né possono essere affrontate in modo semplicistico; richiedono una riflessione quanto più approfondita possibile e, soprattutto, quanto più partecipata possibile. La discussione e il dibattito su questi temi non può che fare bene alla nostra democrazia, che è già abbastanza azzoppata e claudicante di suo. Il libro intitolato Vietato a sinistra, curato da Daniela Dioguardi per i tipi della Castelvecchi (Roma 2024), ha il merito di fare riflettere su tali questioni, a dire il vero temi a cui non sempre si dà il giusto peso. È un libro che costringe a documentarsi e ad approfondire. In questo sta, probabilmente, il suo merito più importante.

E allora vado subito al dunque. Non conosco a sufficienza le differenti articolazioni che animano il dibattito tra le varie correnti femministe e le nuove soggettività del variegato arcipelago delle identità di genere e di orientamento sessuale riconducibile al mondo lbgtqia+. Il rischio è quello di prendere, per così dire, lucciole per lanterne. Tuttavia i problemi e i dissidi che animano tale dibattito mi pare possano essere ricondotti a questioni più generali che rimandano alla debolezza e alla frammentazione del mondo che, genericamente, si potrebbe definire della sinistra non liberal.Per quel po’ che può valere la mia opinione, faccio mia la considerazione contenuta nel libro secondo la quale c’è il rischio che in nome della libertà si possano sdoganare prostitu­zione, maternità surrogata, pornografia archiviando tra i reperti del patriarcato il dato reale e simbolico che i sessi sono due (p. 6).

Quali sono allora le ragioni di questo mio posizionamento? Mi pare si possa dire, senza tema di essere smentiti, che la riproduzione assistita, pur con tutti i distinguo del caso, la prostituzione, il blocco della pubertà tramite terapia farmacologica, etc. rimandano a una dimensione in cui la sfera della procreazione e della libertà dei corpi e del desiderio sessuale vengono sussunti entro la dinamica della riproduzione e della valorizzazione del capitale. Diventano oggetto di mercificazione, diventano cose, oggetti da vendere e comprare. Su questo mi pare non possano esserci dubbi.

Per trasvolare dai cieli eterei del dogmatismo ideologico alla concreta e ruvida realtà sottopongo a esame il caso del sesso a pagamento. È possibile che ci siano casi a Palermo di soggetti emancipati che vogliano liberamente vivere la facoltà di disporre del proprio corpo attraversol’erogazione di prestazioni sessuali in cambio di un reddito. Non so dirlo. Tuttavia quello di cui sono a conoscenza è una interessante indagine svolta da Umberto Santino, animatore del Centro Siciliano di documentazione Peppino Impastato, intitolata Un mercato del sesso a Palermo. Mafia e nuovi gruppi criminalicomparsa sulla rivista telematica dell’Università degli Studi di Palermo Socioscapes. International Journal of Societies, Politics and Cultures(2.1.2020). Scrive Santino: “All’interno dei processi di globalizzazione grandi masse di popolazione sono costrette all’emigrazione e a subire forme di sfruttamento e di vera e propria schiavitù, che vanno dal lavoro nero e non tutelato alla mercificazione del corpo. E il sesso mercenario transnazionale si può considerare una forma di colo­nialismo contemporaneo, una esercitazione di potere su un corpo ridotto a merce, che perpetua e aggrava modelli comportamentali basati sull’inferiorità della donna e sull’oggettualità del corpo femminile, considerato strumento di piacere e apparato riproduttivo, in un quadro dominato dalla crescente ‘mercificazione delle relazioni umane’. (…) Per quanto riguarda l’Italia, e in particolare il mer­cato del sesso, si parla di un giro d’affari dell’ordine di 5 miliardi di euro l’anno, con un numero di donne vittime di tratta che varia a seconda delle rilevazioni delle istituzioni e degli osservatori della società civi­le. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni dà un numero che va dai 19 ai 26 mila, il Gruppo Abele dà cifre più alte (70 mila) comprensive anche delle donne che non sono propriamente vittime del­la tratta (per una rassegna delle valutazioni di varie organizzazioni cfr. il sito del CISS: Cooperazione In­ternazionale Sud-Sud: www.cissong.org/it.). I clienti sarebbero 9 milioni. Una domanda imponente, a cui cerca di rispondere un’offerta crescente” (p. 165). Dubito che a Palermo la prostituzione delle schiave nigeriane al mercato di Ballarò, quella nei centri massaggi cinesi e nelle connection housesdelle sudamericane, delle rumene presso la Stazione Centrale possano essere ascritte alle istanze libertarie del genere femminile. Viceversa si tratta di fenomeni di sfruttamento e di schiavizzazione che vanno denunciati e combattuti.  

 Veniamo dunque all’aspetto della pubblicazione del libro che più, a mio avviso, riveste interesse. Perché la discussione su temi quali quelli affrontati dal libro suscita levate di scudi, opposizioni tali da scadere nell’intolleranza e nella minaccia, forme di boicottaggio che impediscono il libero manifestarsi del proprio pensiero? Sicuramente c’è un preoccupante scadimento della convivenza e del discorso pubblico, anche nell’ambiente cosiddetto progressista. Tutto viene trattato senza tenere conto della complessità dei problemi, ridotto a schieramenti di tifoserie contrapposte che urlano i propri convincimenti, come se ci si trovasse a dibattere entro il format di un qualsiasi social network, con i rischi di polarizzazione conflittuale che questo comporta. Tuttavia, penso che ci sia anche dell’altro. E su questo altro vorrei concentrami perché il livello di litigiosità e intolleranza emerso è forse la spia di un altro problema, quello di una frammentazione e parcellizzazione che rende la sinistra non liberal, antagonista e di movimento, irrilevante e minoritaria. E lì dove c’è il prevalere di posizioni settarie, minoritarie e particolaristiche, le tensioni fra differenti diventano più acute, più laceranti e più rovinose.

Mi chiedo se tutto questo non è dovuto al fatto che non può svilupparsi un’efficacia delle lotte pacifiste, nonviolente, antirazziste, della decrescita, femministe, queer, ecologiste, animaliste, antimanicomiali etc., né tantomeno una loro convergenza in un fronte di lotta più ampio, e quindi più forte e efficace contro i rapporti di dominio e di potere, se manca a tutte queste sensibilità antagoniste una comune critica al capitalismo.[1] Se c’è qualcosa che, da almeno trent’anni, è vietato a sinistra è proprio l’anticapitalismo, ossia una riflessione critica sulla complessità della struttura sociale e produttiva nella quale viviamo tutti. Laddove manca questa riflessione si finisce per colpevolizzare e criminalizzare singoli individui e singole pratiche, lasciando però intatte le strutture di potere sottostanti. Si tratta di un problema non solo pratico ma soprattutto teorico perché investe la necessità di costruire ampie e solidali coalizioni tra tutti i subalterni, gli oppressi e gli sfruttati.

Il punto è che sul concetto di anticapitalismo spesso si affastellano posizioni vaghe che presumono convergenze scontate. A partire da questa vaghezza si finisce per spostare il conflitto sul terreno delle pratiche discorsive, così come spesso avviene nei casi analizzati nel libro in oggetto, traducendo tutte le forme di oppressione in forme discriminatorie. Si parla di identità oppresse, siano esse di genere, di razza, di etnia, di religione, di disabilità mentale, etc. introiettando il paradigma liberal  e progressista e spostando il dibattito sul terreno dei diritti civili ma rimuovendo dalla discussione il tema dei diritti sociali. Il problema è il convincimento che ciò che non funziona possa essere risolto sul piano morale o delle scelte di vita e non sul piano dell’intervento e del cambiamento della struttura sociale e produttiva. Si pretende moralisticamente di cambiare il mondo senza mettere in discussione la struttura della proprietà capitalistica. E così le molteplici identità politiche credono che attraverso il volontarismo moralistico si possa trovare una forma di convergenza politica quando in realtà si finisce per imporre la propria visione del mondo fondata su valori e casi particolari. E dunque si finisce per separarsi, dividersi e scontrarsi, piuttosto che incontrarsi. Le tante identità di una sinistra sempre più frammentata e divisa finiscono per fare propria l’ideologia borghese dell’individualismo liberale e proprietario, quell’idea che Marx apostrofava ironicamente come una robinsonata. L’individuo sarebbe il depositario di una libertà ontologica originaria e incontaminata, a fronte di ogni forma di organizzazione e istituzione sociale intesa come ostacolo che blocca il fluido divenire della vita e il manifestarsi delle più intime e personali pulsioni egoistiche e utilitaristiche. Ogni forma organizzata del sociale, quale mediazione e oggettivazione nell’altro da sé, viene considerata negativa e antitetica all’immediatezza del nostro sentire.

Tuttavia,a questa postura teorica si deve rispondere che il livello che si deve assumere nella lotta per la liberazione e l’emancipazione umana è quello dell’universale, è il livello in cui si opera la sintesi delle esperienze individuali e delle sensibilità soggettive. È il livello in cui le aspirazioni e i desideri dei singoli si oggettivano in un’azione che non è riducibile alla loro volontà. La domanda, e in pari tempo l’obiezione, che si potrebbe avanzare nei confronti di questo assunto è scontata: ma perché mai si dovrebbe abbandonare il livello volontaristico e moralistico delle nostre istanze immediate per essere sussunti entro logiche organizzative e forme del vivere sociale che tanto sanno di vetero e burocratico? La risposta è data dal fatto che la società non è data dalla sommatoria dei singoli individui né dalle loro relazioni interpersonali. Indagare il tutto sociale significa innanzitutto indagare la forma oggettiva che assume la relazione che connette gli individui, significa ricercare la forma della relazione che mette in uno spazio comune le singole individualità. Il fatto è che il mondo nel quale ci troviamo a vivere, non un’astratta e astorica società umana, è regolato, insegna Marx, dalla forma valore. È un mondo, ossia un modo di produzione, nel quale tutti noi singoli soggetti, produttori privati, possiamo soddisfare i nostri bisogni e procedere alla nostra riproduzione socio-economica solo accedendo alla sfera, universale, della mediazione dello scambio di merci. Insomma, dietro la parvenza di individui singoli in grado di bastare a se stessi, per l’appunto una robinsonata, si nasconde la cruda realtà di una socializzazione dei lavori e dei loro prodotti oggettivati che avviene attraverso la mediazione dello scambio di merci e l’estrazione di plusvalore dalla forza-lavoro. Il problema è che questa socializzazione viene privatizzata dal capitale per la propria autovalorizzazione.

Nel modo di produzione capitalistico si realizza uno specifico rapporto di potere che ha la consistenza dura dell’oggettività. Esso non è uno specifico regime di discorso né un rapporto gerarchico come gli altri, ma, in un certo senso li precede essendone condizione di possibilità.DI conseguenza, una qualche opportunità di trasformazione del sistema vigente non può che partire dalla capacità di collocarsi al livello dell’universale, perseguendo la ricerca di un percorso comune in vista dell’uguaglianza tra differenti e dell’emancipazione sociale e politica. Una possibile ricomposizione intersezionalista, che contempli anche la lotta del lavoro (salariato e dipendente) al capitale, entro un orizzonte comune di liberazione integrale dei diversi, richiede organizzazione e ricomposizione delle differenti volontà e sensibilità individuali. Queste ultime molto spesso finiscono per essere abbandonate a se stesse e all’illusorio e consolatorio convincimento che, per il cambiamento, sia sufficiente muovere dal proprio giardinetto, dal proprio angolino di diversità e dal proprio stile di vita, convinte di poterlo moralisticamente e volontaristicamente estendere a tutto il resto del mondo. Da qui il latente ma sempre presente rischio di litigiosità e rissosità tali da sfociare, come nei casi raccontati nel libro, in forme di brutale e fascistizzante intolleranza. Insomma, le pratiche di vita alternative, dal basso, volte alla riappropriazione di spazi da liberare dalla colonizzazione del capitale, sono necessarie ma non sufficienti. Vale la pena ricordare che è possibile un capitalismo rispettoso delle pari opportunità o in grado di convivere con il green washing o con il rispetto dei diritti gay. 

Vado a concludere. Da quanto si è detto ne deriva che non si può che concordare con quanto si denuncia nel libro a proposito dell’abbandono della dimensione universalisticaa vantaggio di una presunta e surrettizia libertà individuale che finisce per essere l’alfa e l’omega di ogni agire politico. Nel libro si scrive: “i risultati? Li abbiamo sotto gli oc­chi con lo scambio della concezione della libertà come affermazio­ne positiva dell’integralità della persona con l’idea mercantile della libertà come assenza di vincoli nel disporre di sé sul mercato. Fino al punto di invocarla per giustificare la pratica della maternità sur­rogata, per ridurre la prostituzione a sex work, a un lavoro come un altro o per pensare la sessualità come scelta soggettiva, come è nel caso dell’identità di genere” (p. 10).L’approccio individualistico non coglie la natura sistemica del rapporto di produzione e la dimensione complessa e totalizzante della struttura sociale. Eppure non può esserci ricomposizione unitaria delle lotte, e un altro mondo possibile oltre i confini del capitale, se non si è in grado di porsi ad un livello tale che comporti la dimensione universale del conflitto. Ciò non vuol dire che l’approccio differenzialista e la rivendicazione del proprioparticolarismo non possano avere anche un carattere legittimo e progressivo. Tuttavia, per porsi al livello del capitale occorre accedere ad un livello di mediazione che accetti di contemplare come non lesivi dell’autonomia dell’individuo realtà e valori sovraindividuali. Il ricorso alla sfera dell’universalità non comporta obbligatoriamente la negazione delle differenze e il disconoscimento della particolarità. L’universalismo è stato effettivamente tale quando, storicamente, ha avuto la capacità di rispettare, comprendere inclusivamente e tutelare le particolarità e le differenze. È questa la vera posta in gioco che occorre tenere a mente nella nostra discussione.  




[1] Su questa questione traggo un interessante e utile spunto di riflessione da quanto scrive Marco Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, Jaca Book, Milano, 2018, in particolare pp. 199-251.