- Claudio Cavallari -Commento al Seminario XIV di Jacques Lacan
Nel 1966-67 il celebre psicoanalista francese Jacques Lacan tiene a Parigi, invitato da
Althusser presso l’École Normale Supérieure, il suo XIV Seminario intitolato La Logica del Fantasma. Recentemente pubblicato in lingua italiana da Einaudi, questo lavoro rappresenta un’ineludibile passaggio nel tentativo di Lacan di formalizzare la sua teoria dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Confrontandosi con la durezza dell’enunciazione lacaniana, Claudio Cavallari propone qui una breve riflessione dedicata agli snodi più densamente significativi di questo tassello centrale dell’insegnamento dello psicoanalista
Smarcherò immediatamente questo breve testo dalla forma-recensione e da quanto ci si potrebbe aspettare di conforme a quello che, in fondo, è il suo canone estetico. Non ci sono spiegazioni, chiose, giravolte da saltimbanco intellettuale che possano dipanare la matassa del lavoro di Jacques Lacan. Pensare di averlo compreso è il catastrofico errore di chiunque si accinga, povero lui, a scriverne. Lacan va frainteso. O meglio, non si può che fra-intenderlo. E questo è il destino, ma anche l’ispirazione profonda, che nel corso di 27 anni si rivela in quel luogo che egli chiamava il Seminario. Je parle aux murs! Ai sordi, direbbe ancora. A chi non può che fraintendere ciò che dice, e cioè che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Nella tappa di metà cammino, all’altezza del quattordicesimo episodio del suo Seminario – che leggiamo in traduzione italiana per l’editore Einaudi – non si parla d’altro. Certo, Lacan titola: La logica del fantasma. Ma ci si accorgerà abbastanza in fretta, tuttavia, che l’enigmatico sintagma percorre il testo su di un piano soltanto evocativo, benché ricorrente. Come sia da articolarsi questa logica del fantasma, non ci viene dunque spiegato. Occorre allora fare un passo di lato e sforzarsi di seguire Lacan nel movimento che costituisce il perno attorno a cui tutto il seminario orbita: proprio perché l’inconscio è strutturato come un linguaggio, nel fantasma – ma più in generale nel soggetto – è questione di logica, di struttura grammaticale. Tutto quanto, nello sviluppo di questo quattordicesimo passo, è finalizzato a dimostrare questa tesi centrale, mediante una formalizzazione rigorosissima. Ci troviamo, qui, già di fronte al cuore pulsante del metodo di insegnamento lacaniano, nella posta che insistentemente vi si gioca. Essa, in un certo senso, ci costringe ad accettare che quanto vi è di decisivo nell’emergenza del discorso psicoanalitico non abbia a che fare con la specificazione del suo oggetto. Non si tratta, dunque, di spiegare l’inconscio. Si tratta di lavorarlo, di produrlo forse. Di promuovere un avvicinamento ossessivo a quegli effetti di verità che ne mobilitano l’istanza. Passando da fuori. Ed ecco che ci si scandalizza. Perché è noto come Lacan non situi l’inconscio nell’intimità del soggetto, nella sua recondita profondità, ma nell’esteriorità che lo abita. Affermare che l’inconscio è il discorso dell’Altro, significa infatti riconoscere che esso è un’esteriorità interna, una extimité, una bordatura del soggetto. E significa che parla, che fa catene di significanti. Per 27 anni Lacan non fa nulla di diverso. Parla il discorso dell’Altro nel cuore dell’enunciato freudiano. Ecco allora la matematica, la fisica, la linguistica, la filosofia, la topologia, esasperare sino allo sfinimento la teoria di Freud, metterla a nudo, mettendosi a nudo in essa. Nel 1966-67 questo compito è assegnato alla logica, antica e moderna – Aristotele, Boole, Russel, De Morgan – e alla matematica – Felix Klein, la sezione aurea. Una formalizzazione serratissima. Di cosa parla Lacan? Ci si stupirà di come ciò importi in fondo meno del modo, dello stile che assume il rigore della sua enunciazione. C’è una durezza indigeribile, una rigidità strutturale inaggirabile, nel modo in cui Lacan tratta l’inconscio freudiano. Ma nondimeno un approssimarsi risoluto, un incedere schiacciante verso quei buchi che la formalizzazione ritaglia nel reale, verso ciò che cade staccandosi dall’operazione di taglio strutturale, logico, sul tessuto umano: l’infinitesimale detrito godente che presentifica l’essere proprio del soggetto, nella tela della grammatica.
È qui che si situa il movimento decisivo. Se dopo la svolta rappresentata dal settimo seminario – L’etica della psicoanalisi – è chiaro agli uditori di Lacan che non tutto è significante, e che nell’inconscio freudiano non si tratta solamente di articolazione logica e di struttura, bisogna tuttavia farsi le ossa con ciò che in esse si dà di più stringente, e forse arido, se si desidera avvicinare nel modo più preciso quanto finisce per eccederne la meccanica, rivelandosi inassimilabile alla loro architettura formale. Non si tratta allora di sbrogliare la sofisticatissima e inestricabile combinatoria di significante e godimento che costituisce l’umano, ma di tracciarne, con precisione infinitesimale, lo schema logico, sino ad incappare nei suoi punti di cedimento, o di paradossale caduta, scontrandosi con zone di intensificazione in cui si addensano quelle porzioni di godimento inarticolabile che Lacan ritrascrive come funzione dell’oggetto piccolo a, quel frammento di corpo godente che, pur dipendendo nella sua genesi dall’intervento del linguaggio, resiste al moto della sua colonizzazione, rimanendo rispetto ad esso eterogeneo.
Ma perché servirsi proprio della logica? L’esigenza dello psicoanalista francese è innanzitutto quella di determinare al massimo grado di approssimazione il posizionamento dell’atto psicoanalitico – L’atto psicoanalitico è il titolo del Seminario successivo che, come suggerisce Jacques-Alain Miller, costituisce un plesso unico con l’insegnamento esposto ne La logica del fantasma – rispetto allo statuto epistemologico di un discorso scientifico che, in quegli stessi anni, si trova posto su diversi fronti in questione dall’emergenza – destinata a durare poco, ma a lasciare il segno – della riflessione strutturalista. Per Lacan, come per altri pensatori a lui contemporanei, ciò significa inevitabilmente attrezzare uno scontro senza pari con Cartesio e il suo Cogito. Se da un lato, infatti, la scoperta freudiana è da iscriversi nel solco della rivoluzione scientifica che a partire da Descartes si autorizza, al tempo stesso occorre liberare il campo analitico dalle ambiguità – che lo Strutturalismo opportunamente andava denunciando – legate alla posizione di un fondamento ontologico nel soggetto, divenuto centro gravitazionale di ogni teoria. Sarà dunque la logica a fornire a Lacan l’armamentario concettuale con cui operarne il rovesciamento radicale. Il supporto della logica formale consente così alla teoria freudiana di individuare un vizio decisivo al cuore del Cogito – una comoda scorciatoia, come la definisce Lacan – la quale consiste nell’avere installato la funzione dell’Io quale garante dell’implicazione logica tra le dimensioni dell’Essere e del pensare. Ma l’Io penso – incalza lo psicoanalista– non può a sua volta articolarsi al di fuori della dimensione del linguaggio, da che deriva il paradosso per cui il termine medio definito dall’ergo della celebre formula cartesiana finisce per subordinare l’Essere alla sfera del non-essere della struttura articolata del significante. In un qualche modo allora la presenza dell’Altro – il luogo della parola in cui si situa la catena del significante – cioè qualcosa che, per definizione, non è, garantisce ed esaurisce, nella funzione artificiale dell’Io, la questione intera dell’Essere.
Ecco che, letto in questi termini, il Cogito cartesiano non può che rappresentarsi come il rovescio precipuo dell’inconscio che Lacan, mettendo alla prova gli operatori della logica insiemistica dell’unione e dell’intersezione, ritrascrive così: o io non penso o io non sono. Ancora, e come sempre, si tratta per il nostro autore di provare nel fuoco della formalizzazione il meccanismo di implicazione tra il Reale e il Simbolico o, se vogliamo – ma la formula andrebbe meglio precisata – tra il corpo e il linguaggio. Risolvere l’io sono nell’io penso rappresenta infatti una furbesca mistificazione laddove non si abbia l’accortezza di minare le basi stesse dell’articolazione linguistica di cui il sistema dell’Altro è posto a garante. Soltanto un linguaggio in se stesso totalizzato potrebbe sovrapporsi, senza resti, all’Essere del soggetto. Ma ciò richiederebbe l’esistenza di un metalinguaggio o, secondo il lessico del Seminario XIV, di un universo del discorso. Il punto su cui Lacan fermamente insiste – imperterrito, per anni – è il fallimento della significazione, cioè il fatto che non esiste significante che possa significare se stesso, da cui deriva la constatazione che l’insieme dei significanti che brulica nel corpo dell’Altro sia per forza incompleto, marcato da un –1, cioè dall’assenza di un significante in grado di nominare l’insieme di tutti i significanti facendone al contempo parte. Dunque, affermare che l’inconscio è strutturato come un linguaggio significa che esso è costituito, e nel modo più preciso, da un’articolazione logica che si fonda a partire dal difetto strutturale della catena del significante. Ovvero, in altri termini, che non-tutto il Reale si trova ricompreso nella rete estesa del Simbolico. Quando allora l’inconscio parla non fa altro che cercare di dire questa perdita originaria di senso che lo abita. Ed è per questo che i nostri sintomi, lapsus, atti mancati ci paiono collocarsi fuori da un orizzonte di significato, richiedendo di essere interpretati. Ed è per lo stesso motivo che soltanto dentro a questi punti caduta si enuncia qualcosa come una verità che ci riguarda. Una verità che ha a che fare con il sesso.
Qui il discorso sviluppato da Lacan compie una torsione, apparentemente brusca, impegnandosi a formalizzare un’intricata logica della sessuazione, la quale anticipa e prefigura quella che verrà presentata nel corso del Seminario XX, Ancora. Per trattenerne l’essenziale, mi limiterò a tratteggiare il passo che conduce Lacan verso una delle assunzioni centrali di tutto il suo insegnamento, e che all’altezza de La logica del fantasma viene affermata come quanto costituisce il grande segreto della psicoanalisi: non c’è atto sessuale. Come abbiamo detto, si tratta qui propriamente di una torsione, e non di un balzo laterale dell’argomentazione lacaniana, il cui baricentro resta a ben vedere il medesimo. Se nella riscrittura del Cogito cartesiano, che sembra porre in antinomia le dimensioni dell’io penso e dell’io sono, il problema posto dalla psicoanalisi ha a che fare con l’alienazione del soggetto nella funzione di cattura dell’Io, occorre allora individuare il punto di ricaduta in cui l’emergenza del soggetto possa tuttavia essere colta. Per prima cosa, bisogna che sia ribadita puntualmente la legge strutturale dell’inconscio freudiano: ciò che si trova rigettato dal Simbolico, ritorna nel Reale. Il meccanismo di questo ritorno è dunque quello di una ripetizione. E ciò che si ripete è sempre un significante, nel cui ritorno si danno le condizioni di articolazione per situare il soggetto. Questo, per Lacan, è ciò che costituisce nientemeno che la definizione di atto. Soltanto nel precipitato di un io agisco si risolve così l’antinomia tra l’Essere e il pensare, e un soggetto può trovare fondamento. Tra l’io non penso e l’io non sono, il soggetto si risolve pertanto in un fare, a patto che per effetto di una ripetizione significante egli si attribuisca l’azione che compie. Un atto dunque non è mera scarica o esecuzione motoria, è un raddoppiamento significante che lascia spazio all’attivazione di una catena in cui il soggetto possa essere iscritto. Cosa significa allora che non c’è atto sessuale? Semplicemente che l’atto sessuale non è un vero atto, e cioè che il soggetto non può sapere come trovarvi posto, in quanto il significante che dovrebbe ripetervisi è precisamente quel significante che manca alla catena: il fallo. Non sussistono, in altri termini, le condizioni logico-formali affinché il soggetto possa iscriversi come sessuato in riferimento alla copula, in quanto il corpo vi si pone come metafora del godimento dell’altro separandosi dal proprio, cioè da quanto in ultima istanza lo costituisce. Nel sesso dunque, come si suole dire, c’è sempre qualcosa che fa cilecca, poiché la soggettivazione pretende di affidarsi a quel mistero insolubile che è il godimento dell’Altro. Ciò che non fa funzionare il sesso come un atto è propriamente questo riferimento a un elemento terzo – l’Altro – al quale in un modo o nell’altro si finisce per demandare la fissazione della cifra, del valore di senso, di qualcosa che non può che rimanere insignificabile. Il sesso non può essere un atto perché non c’è alcun senso possibile della castrazione. Il ragionamento di Lacan si avvolge su questo piano in spire successive via via più stringenti. La separazione del corpo dal proprio godimento per effetto del linguaggio – vale a dire il complesso di castrazione – è la verità che si esprime nel fallimento dell’atto sessuale. Ed è la verità che parla l’inconscio. Ma la notizia non è a ben vedere malvagia, poiché è proprio lì che sorgiamo in quanto soggetti. E nella misura in cui il sesso non avvera il soggetto realizzandosi come atto vero e proprio, continueremo immancabilmente a ricercare l’incontro sessuale. In un certo senso possiamo affermare che la sessualità umana, nella sua impossibilità logica, sia regolata proprio dalla castrazione. La scissione significante che separa il nostro corpo dal godimento che gli sarebbe proprio, ritaglia infatti quel frammento enigmatico della sostanza di ciò che siamo, il quale orienta il nostro desiderio e riscatta tutto il godimento di cui possiamo essere capaci, ad esempio quello con cui entriamo in rapporto nella pratica sessuale. L’oggetto a, prodotto della castrazione, agisce come supplenza, o compensazione della mancanza di atto sessuale, ma si tratta di una supplenza, per così dire, radicalmente nostra, e inalienabile. Per questo supporta la dimensione di un desiderio indistruttibile, e sta alla base della sua comune messa in scena, vale a dire il fantasma. L’oggetto a è una sorta di totalizzazione residuale. È il niente che ci costituisce come un qualcosa. È la nostra risposta al –1 della catena significante. Nostra e soltanto nostra. Resta da capire – ma qui non si può che balbettare di fronte all’oscurità dell’enunciazione lacaniana, che è l’oscurità dell’inconscio – perché esso risulti irrintracciabile nel modo in cui il fantasma si enuncia nel soggetto. L’espressione che Freud trovò esemplare per condensare l’essenza del fantasma – un bambino viene picchiato – è interpretata da Lacan come una pura formula grammaticale, chiusa su di sé, dalla quale l’io penso è espunto e l’oggetto a vi resta quantomeno opaco. L’articolazione del fantasma è struttura senza soggetto. Forse è proprio per questo che possiamo dire che è vera. E forse, ancora di più, lo è poiché sgancia questa formazione inconscia dalle attribuzioni di senso dell’Altro. Una forma pura, logica, grammaticale, non ha significato in sé, non significa altro se non l’articolazione stessa del significante. Si potrebbe azzardare, pur nella certezza di fraintendere, che quanto essa mette in scena non sia altro che l’operazione stessa del taglio, dalla quale dipendono tanto lo statuto del soggetto, quanto quello dell’oggetto, convocati soltanto nella loro evanescenza effimera. Ma si tratta, per l’appunto, di quanto ci è unicamente concesso di fare con Lacan, appunto fraintendere.