Imperialismo del dollaro - Maurizio Lazzarato -
* La guerra (e tutte le sue variazioni, guerra di classe, di razza, di sesso, neocoloniale ecc.) è il regime di verità del capitalismo.
* Il capitalismo non si può in nessun caso identificare con il neoliberalismo. Il misfatto di confondere i due è stato operato per primo da Michel Foucault, creando una catastrofica confusione teorica e politica nel pensiero critico che non ha fatto che aggravarsi con il passare del tempo. Il capitalismo si è sbarazzato della governamentalità neoliberale, come un secolo primo aveva fatto con il liberalismo classico, a cui ha preferito, per difendere gli interessi delle classi proprietarie, populismi, nuovi fascismi, guerre civili e da ultimo la guerra.
* Il capitalismo è diventato, dalla fine del XIX secolo, imperialismo. Altra categoria problematica, rifiutata da Negri e Hardt, o ignorata da Deleuze e Foucault. Non è lo stesso imperialismo di Lenin o Rosa Luxemburg perché non è più territoriale, ma monetario e finanziario. È un imperialismo ancora più sofisticato, predatorio, un imperialismo che, dopo altri, definisco del dollaro, in cui il profitto e la rendita tendono a confondersi. La sua azione non si limita a ciò che Marx chiama il «capitale», ma integra in una stessa macchina da guerra lo Stato, tanto la sua funzione politico-amministrativa quanto quella militare.
Delle quattro caratteristiche principali dell’imperialismo di Lenin che possiamo ritrovare molto accentuate nel capitalismo contemporaneo, finanziarizzazione, colonizzazione, monopoli e guerra, quest’ultima ci sembra la più significativa perché costituisce una novità che il capitale di Marx non integrava ancora come condizione indispensabile dell’accumulazione capitalistica. L’imperialismo, in estrema sintesi, è moneta e guerra.
Quando si dice che l’economia si è mangiata il politico, che la finanza detta le condizioni alla politica, si dice una cosa assolutamente falsa, perché la costituzione dell’imperialismo ha modificato radicalmente sia l’economia che la politica. Più precisamente, il capitale e il sistema politico statale (comprendente la burocrazia amministrativa e militare) si integrano, costituendo una macchina che però non annulla completamente le loro specificità. Funzionano insieme e in maniera complementare.
* Il deficit commerciale degli Usa inaugura non solo l’egemonia del dollaro, ma anche un’economia del debito che fonda il modello di accumulazione della mondializzazione: il colossale debito americano assicura uno sbocco alle merci cinesi e i cinesi reinvestono le somme astronomiche di dollari accumulati nel finanziamento del debito stesso (e investono nella finanza e nell’immobiliare). È questo sistema in discussione nella guerra, perché, nel breve periodo, se salvaguarda l’egemonia americana e l’«American way of life», nel lungo rinforza economicamente e politicamente il Sud globale, che deve invece essere radicalmente subordinato al dollaro. Attaccando questa complementarietà gli Usa condannano la mondializzazione, le cui catene del valore e i loro scambi saranno ormai politici, tra «alleati».
* I principi e le regole dell’imperialismo del dollaro sono diversi, anzi contrari ai principi e le regole del neoliberalismo. L’imperialismo si costruisce all’incrocio di una triplice centralizzazione del potere in pochissime mani: centralizzazione economica (monopoli e oligopoli industriali, ma soprattutto monopolio della moneta), centralizzazione politica (l’esecutivo che esautora il legislativo) e centralizzazione militare (esercito professionale). Tutte insieme eliminano o riducono a fenomeni insignificanti il mercato, la concorrenza, la libera iniziativa, alfa e omega del neoliberalismo. Le centralizzazioni non sono opera di automatismi, ma di strategie. All’automatismo del mercato e alla forza della concorrenza che dovrebbero assicurare l’equilibrio ed evitare la guerra, si sostituiscono strategie di grandi gruppi, di multinazionali, di fondi pensione, ma soprattutto di grandi Stati che integrano economia, politica e azione militare, imponendo rapporti di forza, combinando guerra economica, guerra tecnologica, guerra monetarie e infine lo scontro armato. Questa «concorrenza» non ha niente a che vedere con l’economia, ma molto con una rivalità tra grandi potenze economico-politiche che non è sicuramente regolata dal mercato, ma dai rapporti di forza e dalla guerra (dalle guerre).
* Il neoliberalismo non è il nome di politiche sue proprie. Il capitalismo stabilisce, da sempre, una gerarchia precisa: la governamentalità è subordinata alle politiche dell’accumulazione infinita del profitto e dell’accumulazione infinita del potere. La finanziarizzazione, le privatizzazioni, il blocco dei salari, la precarizzazione della forza lavoro, il neo-colonialismo, la trasformazione del welfare da politiche «redistributive» a fonte di finanziamento delle imprese e dei ricchi, l’allungamento dell’età pensionistica, il razzismo, il sessismo ecc., sono politiche imperialiste e dell’imperialismo che il neoliberalismo gestisce soltanto per un corto periodo. Costituiscono le condizioni della cattura da parte del dollaro, della moneta di credito e della finanza del valore prodotto a livello mondiale. Il neoliberalismo si limita a governare gli «interessi» dell’imperialismo finanziario monetario americano. Quest’ultimo, come tutti i vincitori, deve far dimenticare le proprie origini che affondano nei soprusi, nei massacri, nello sfruttamento, nel razzismo e nel sessismo, cioè nelle guerre. Anzi, deve cancellarle e mostrarsi come natura. Contemporaneamente deve neutralizzare ogni conflitto che minacci la naturalizzazione di queste politiche imperialiste. È stato questo il primo compito della «governamentalità»! Ed è stato anche il suo maggior fallimento. La rimozione della lotta di classe, del conflitto, dello scontro è esplosa nella guerra aperta tra Stati e nelle guerre civili striscianti. Ha funzionato soltanto in un momento del ciclo dell’accumulazione, durante la sua fase ascendente. Il neoliberalismo è messo da parte quando il capitalismo/imperialismo necessitava di accentuare ancora le sue centralizzazioni per prepararsi alla guerra e alle guerre civili che non hanno la concentrazione esplosiva del XX secolo perché gli strumenti economici per dilazionare lo scontro sono molto più sofisticati, ma soprattutto perché non c’è nessun nemico lontanamente paragonabile al pericolo rosso e bolscevico. I movimenti contemporanei non minacciano in nessun modo l’esistenza della macchina capitalista.
* La guerra smentisce, senza possibilità di appello, tanto i sostenitori dell’identità di neoliberalismo e capitalismo quanto i critici del concetto di imperialismo.
* La guerra attuale, dunque, non è una guerra locale, ma uno scontro tra imperialismi per una nuova spartizione del potere sul mercato mondiale: vi sono un imperialismo globale, gli Usa, un imperialismo regionale, la Russia, un imperialismo che non riesce ancore ad avere une dimensione mondiale. Ciò che manca alla Cina, ancora prima di un grande esercito, a detta dei cinesi stessi, è una moneta che funzioni contemporaneamente nazionalmente e a livello degli scambi internazionali. È una delle ragioni principali che fanno sì che l’imporsi dell’egemonia cinese a scapito degli americani, prevista da Giovanni Arrighi, non sembra essere di attualità nel breve-medio periodo. È anche uno dei motivi per cui la guerra apre un periodo di instabilità, di imprevedibilità, di caos che rischia di durare a lungo.
* La causa principale della guerra è l’indebolimento progressivo delle economie occidentali (dall’80% della produzione mondiale al 40%) e dei loro monopoli tecnologici[1] e scientifici che, da assoluti, diventano relativi. La sola grande supremazia dell’Occidente, che si autodenomina «comunità internazionale» per quanto non raggruppi che un terzo della popolazione mondiale, è nel militare e nella produzione di armi. L’esportazione dei valori occidentali, primo tra tutti la democrazia, si è infranta contro il grande Sud, perché rappresenta l’imposizione degli interessi imperialisti, mentre sistema democratico e Stato di diritto declinano rapidamente anche nel Nord. Ma il cuore dello scontro in atto è il sistema monetario e finanziario costruito sul dollaro. Uscire dalla dipendenza dal dollaro e dalla finanza americana è la ragione fondamentale della volontà di costruire regimi monetari e finanziari (regionali) che si sgancino dalla cattura operata dalla moneta statunitense. Ogni tentativo e progetto in questo senso sono una dichiarazione di guerra agli Usa, perché indeboliscono il meccanismo che garantisce la sua egemonia e mette in pericolo lo «stile di vita» americano il cui colossale spreco è pagato dal resto del mondo. Attraverso il dollaro e la finanza gli Usa operano una nuova forma di colonizzazione a cui sono sottomessi anche gli alleati (Europa, Giappone, Inghilterra ecc.).
* L’Europa, da docile colonia americana, è anch’essa in guerra contro la Russia (30 miliardi di armi fornite all’Ucraina, contro i 90 degli Usa). Ma è soprattutto in guerra contro se stessa, perché sta facendo gli interessi americani il cui obiettivo, tra altri, è di ridurre l’economia europea (e quindi fondamentalmente tedesca) nelle condizioni dell’economia giapponese (stagnazione permanente). Politicamente l’Europa ha sostituito all’asse franco-tedesco l’asse Stati Uniti – Inghilterra – paesi dell’Est con al centro la Polonia. Il primo ministro italiano, la neofascista Giorgia Meloni, ha detto la verità sull’Europa che gli Usa ci stanno preparando con la guerra: la Polonia, il paese più a destra, più reazionario, più sessista, più omofobo, più familista, più anti-europeo, «è il confine morale e materiale dell’Occidente». Lo Stato polacco guida la costituzione dell’Europa delle nazioni imposta dagli americani, sotto lo sguardo inebetito della Germania e della Francia, mentre il governo neofascista italiano si sta allineando con i suoi fratelli dell’Est sotto la copertura della «guerra della democrazia contro l’autocrazia». I popoli europei reagiscono alla guerra che si svolge a casa loro con l’indifferenza, esattamente come in tutte le guerre combattute dagli occidentali nel Sud.
* Il regime politico dell’imperialismo del dollaro, dell’economia della rendita, della finanziarizzazione non è la democrazia, ma l’oligarchia. Le tre oligarchie che dominano l’economia e la politica americane (50% dei «rappresentanti» del popolo sono o milionari o miliardari), risultano le grandi vincitrici della guerra in corso. L’oligarchia estrattiva, dopo aver ottenuto il sabotaggio del Nord Stream 2 incassa benefici da record con la crisi energetica scatenata dalla guerra. Ormai è stabilito che sono stati gli americani, dopo che il presidente e il Senato avevano affermato nel 2021 che non «s’ha da fare». Merkel, ben prima della guerra, aveva comprato del gas liquido dagli Usa, senza avere ancora la tecnologia per renderlo utilizzabile, pur di cercare di fermare gli americani. Lo aveva fatto senza successo, perché la volontà di fare i conti con la Cina passando prima per la Russia si esprime da anni in tutti i documenti strategici degli Usa (in progressione ascendente: Obama, Trump, Biden). L’oligarchia dell’armamento è alle stelle, perché la sua produzione (al limite delle capacità produttive), tira la crescita degli Usa, a dimostrazione – se ce ne fosse bisogno – dell’identità di produzione e distruzione. L’oligarchia finanziaria, salvata dall’intervento pubblico, subito dopo il 2008 si sta arricchendo come non mai. Gli «ingenui» che credono che l’Occidente combatta per salvare la democrazia dall’oligarchia, sono ciechi e sordi. Sono l’ideale per il disastro che si sta preparando[2].
* Perché la rivoluzione? Il limite del potere sovrano non è l’economia politica (Foucault), come il limite del capitalismo non è la schizofrenia (l’accelerazione decodificante di Deleuze e Guattari). L’«economia» non stabilisce in nessun caso un limite: è invece squilibrio, crisi, concentrazione smisurata della ricchezza, produzione di polarizzazioni crescenti tra Nord e Sud, tra classi sociali, tra Stati. Insieme al potere sovrano, che amplifica sia squilibri che polarizzazioni, portano alla guerra. Anche l’accelerazione del dominio del capitalismo non conduce al suo superamento, ma crea le condizioni della guerra.
I due soli veri limiti del capitalismo sono la guerra e la rivoluzione, non ne conosciamo altri. Dire che la guerra limita la macchina di potere-profitto (Stato-capitale) non è corretto, perché si tratta piuttosto del suo risultato. In ogni modo blocca lo sviluppo e apre a una fase di profonda e prolungata incertezza. Solo la rivoluzione è riuscita a limitare, per un breve periodo, il capitalismo/imperialismo, neutralizzando la sua arma maggiore, la finanza («eutanasia del rentier»), e nello stesso conquistando non solo il potere in molte colonie nel Sud globale, ma anche diritti sociali, economici e politici per tutti, anche se in maniera differenziata. Scomparsa la rivoluzione, salari, redditi, conquiste sociali e politiche sono evaporati. Dopo cinquant’anni di controrivoluzione siamo tornati all’epoca precedente alla rivoluzione sovietica – anzi peggio, perché nel XIX e XX secolo alle sconfitte politiche non corrispondevano sconfitte economiche, mentre oggi subiamo entrambe contemporaneamente.
* L’imperialismo del dollaro non è solo all’origine della crisi finanziaria del 2008 che ha aperto la fase dello scontro armato tra imperialismi e delle guerre civili più o meno striscianti (Usa, Brasile, Perù), ma anche delle rivolte e vere proprie insurrezioni che sono scoppiate a partire dal 2011, soprattutto nel Sud globale. La scomparsa politica e teorica della rivoluzione mette questi movimenti di rottura in grave difficoltà perché la critica della sua forma socialista non ha prodotto alcunché di simile quanto a efficacia e capacità di stabilire dei rapporti di forza favorevoli agli oppressi. Se gli Stati sono consapevoli delle poste in gioco della guerra, i movimenti sembrano esserci stati scaraventati dentro senza rendersi conto che la situazione politica è radicalmente cambiata. Sembrano voler continuare le politiche del tempo di «pace», quando invece la guerra restringe o annulla gli spazi politici che le rendevano possibili.
Le rivoluzioni del XX secolo sono sempre state associate alla guerra, perché il capitalismo, portando al limite la sua mondializzazione e non riuscendo a realizzarla, apre delle brecce nella sua capacità di controllo e di riproduzione del sistema. Si è esaurito il tempo continuo e lineare dello sviluppo e si entra in un tempo che è uscito dai suoi cardini, un tempo aperto, imprevedibile, dove si gioca il «crollo» del capitalismo e il futuro del mondo.
* Le rivolte e le insurrezioni pongono il problema della rivoluzione nelle nuove condizioni. Il suo venir meno e al tempo stesso la sua urgente necessità pone il problema di ritrovare una continuità perduta tra emancipazione (pratiche di libertà, di cura, produzione di soggettività, rapporto a sé) e cambiamento economico-politico radicale. Ci obbliga anche a interrogarci sulla separazione tra «rivolta» e «rivoluzione» e sulla discontinuità prodotta dopo il ’68 tra sapere dell’emancipazione e sapere della rivoluzione.
* L’imperialismo del dollaro può funzionare come analizzatore sia della moneta che del potere. La dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro ha fatto della moneta americana un’arma politica che non ha le sue fondamenta nell’economia, bensì nella macchina Stato-capitale dell’imperialismo. Rinvia direttamente alla nascita della moneta come «moneta di credito» per regolare il pagamento delle imposte al potere politico e religioso in Mesopotamia, durante il neolitico, cinquemila anni fa. La moneta di credito non emerge alla fine del processo di scambio prima e di produzione poi (Marx), ma li precede. L’imperialismo può anche mettere in evidenza tutti i limiti della comprensione dell’esercizio del potere come governamentalità. Foucault, separando la verticalizzazione e la centralizzazione del potere nelle mani di pochi, dal potere diffuso, locale, che agisce nel sociale, ci ha dato un’immagine postmoderna del suo funzionamento.
I monopoli economici, politici e militari dell’imperialismo sono l’altra faccia delle tecniche di governo e di controllo diffuse e disperse. Se si separano le due modalità in cui si esercitano e non si vede la gerarchia cha li organizza, avremo un’immagine soft del potere, mentre la guerra porta in primo piano il potere sovrano e la sua forza distruttiva («far morire e lasciar vivere») che il neoliberalismo doveva aver superato e sostituito con l’azione positiva di sviluppare e far crescere le forze delle popolazioni.
* La governamentalità neoliberale è il compimento di un processo che è stato fatto proprio anche dal pensiero critico, rendere positivo tutto il negativo tacciato di arma della dialettica. Il potere non è vietare, ma incitare, sollecitare, favorire; il neoliberalismo non è repressione ma produzione, aumento della capacità di agire delle forze. Il negativo, che non era mai scomparso (sfruttamento, razzismo, sessismo, guerre di ogni genere), dispiega tutta la sua potenza distruttiva nella guerra tra imperialismi e dimostra di aver poco a che fare con la dialettica. La guerra è l’impossibilità della sintesi, della conciliazione. Deve invece determinare vincitori e vinti e solo a partire dalla subordinazione e dall’assoggettamento di questi ultimi ai primi si dà sintesi, conciliazione, «pace», patto.
* Il pensiero critico che negli anni Sessanta voleva escludere il negativo è in ritardo di una guerra: non questa, ma la Prima guerra mondiale. Durante la precedente mondializzazione, produzione e distruzione tendevano a coincidere. La Grande guerra è stata un’enorme socializzazione della produzione e del lavoro finalizzata alla distruzione. Oggi, dopo un secolo, produzione e distruzione coincidono perfettamente e non solo nella guerra. L’anatema contro la negazione è uno dei maggiori controsensi prodotti dalle teorie degli anni Sessanta e Settanta. È la ragione per cui non si è vista arrivare la guerra e ci si limita a constatare il disastro ecologico, mentre questo è semplicemente un sottoprodotto dell’identità di produzione e distruzione, cosa che gli ecologisti non riescono a integrare. La possibile «fine del mondo» per l’umanità vedrà un ambiente distrutto, imploso, ma tecnologicamente saturo di «novità», di sviluppo del capitalismo cognitivo, delle piattaforme, di scoperte scientifiche, di performance organizzative. Produzione e distruzione continueranno la loro vita parallela e complementare fino in fondo.
* «Non c’è più un fuori. Appare così lo stadio ultimo della globalizzazione […] Immanenza statica e compatta: né cesure, né vuoti, né linee di fuga, né vie di uscita», scrive Donatella Di Cesare. Non c’è più un fuori, annunciavano ancora prima Negri e Hardt in Impero. Nonostante ciò, l’imperialismo scricchiola da tutte le parti, brecce vistose si aprono nel suo dominio/controllo. Cesure di ogni tipo si manifestano: insurrezioni, rivolte, guerre civili, guerre tra Stati. Il fuori non è già dato, ma accade, sopravviene. È l’inattuale che porta la divisione, che impone la rottura. Arriva con la guerra, si attualizza con le rivolte, si incarna nelle insurrezioni. Immanenza non vuol dire nessuna cesura possibile, nessuna via di uscita praticabile. Immanenza significa che la via di fuga bisogna crearla, che il cammino per uscire dal capitalismo non è già tracciato, ma si fa camminando.
* L’affermazione continuamente citata «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» è falsa o irresponsabile, segno di una ignoranza delle «leggi» che reggono il suo sviluppo. La macchina Stato-capitale non è destinata a crollare ma ci porta, presto o tardi, a una situazione limite, la guerra. Il capitalismo arriva regolarmente non al suo crollo, ma alla fine del suo mondo (del suo regime di accumulazione). Queste «fini» si ripetono con regolarità dal XX secolo. Oggi siamo immersi nella fine del mondo nato con l’imperialismo del dollaro nel 1971. Quello che funzionava in quel mondo, non funziona più oggi e obbliga tutti a ripensare un nuovo mondo. Precisamente quello che questa sciagurata affermazione ci invita a non fare, sintomo del profondo smarrimento teorico e politico del pensiero critico.
NOTE
[1] Dice Biden: «Noi – come nazione – investivamo trentacinque anni fa il 2% del nostro Pil in ricerca e sviluppo. Adesso è la metà. Eravamo i numeri uno al mondo. Ora siamo il numero 13 al mondo. La mia amministrazione sta cambiando queste cose. Gli Stati Uniti possedevano il campo dell’innovazione […]. È così che c’è stato il primo sviluppo di un missile anticarro con avanzati sistemi di guida a infrarossi, quello che è culminato nell’attuale Javelin. Il Bipartisan Innovation Act aiuterà a invertire il declino decennale degli investimenti federali in ricerca e sviluppo. E dovrebbe creare posti di lavoro e supportare intere famiglie, espandere la produzione statunitense e rafforzare la nostra sicurezza nazionale. Dov’è scritto, in nome di Dio, che gli Stati Uniti non possono più essere un produttore leader nel mondo?».
[2] Biden, il rappresentante di commercio dell’ideologia occidentale: «Le cose stanno cambiando così rapidamente che dobbiamo mantenerne il controllo. C’è una battaglia in corso nel mondo tra autocrazia e democrazia. Xi Jinping, il leader della Cina, con cui ho parlato […] dice chiaramente che le democrazie non sono sostenibili nel XXI secolo […] perché le cose stanno cambiando molto rapidamente e le democrazie richiedono consenso […]. Ma non sarà così. Se ciò accadesse, il mondo intero cambierebbe. E grazie a voi – in questa prima battaglia [in Ucraina], se volete – si determina se ciò accadrà».