mercoledì 3 novembre 2021

LA POTENZA DELLA «RETE NON TERRITORIALE DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE»

-redazione ɲ ẞ ḃ Ɱ-

    nuove e vecchie strutture di orientamento capitalistico 
Il brano che pubblichiamo è tratto dal volume del sociologo e storico dell’economia “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” (Il Saggiatore). Si tratta di un passaggio - scelto dalla nostra redazione per le "schede di ɲ ẞ ḃ Ɱ" - dove si esamina la costituzione di spazi diversi da quelli fisici e non coincidenti con quelli degli Stati nazionali, ma ugualmente assoggettati alle leggi del capitalismo   

 

Carl A. Gerstacher, presidente della Dow Chemical, disse ciò sarebbe poi diventato un locus classicus della letteratura sulle grandi imprese transnazionali: "Ho sognato a lungo di acquistare un’isola che non fosse di proprietà di alcuna nazione […] e di stabilire, sul suolo davvero neutrale di quest’isola, la sede centrale mondiale della Dow, esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione o società. Se ci trovassimo sul suolo davvero neutrale di quest’isola, potremmo allora realmente operare negli Stati Uniti come cittadini americani, in Giappone come cittadini giapponesi, e in Brasile come brasiliani, invece di essere governati innanzi tutto dalle leggi degli Stati Uniti. […] Saremmo persino in grado di ricompensare generosamente gli abitanti del luogo perché si trasferiscano altrove" (citato in Barnet e Miller, 1974, p. 16). Curiosamente, questo sogno di una non territorialità assoluta evoca il sistema di «fiere senza luogo» realizzato dalla diaspora capitalistica genovese quattrocento anni fa. A differenza delle fiere medievali, queste fiere erano strettamente controllate da un gruppo ristretto di mercanti banchieri, che le tenevano dove preferivano fino a quando si stabilirono sul terreno davvero neutrale di Piacenza. «È stato inventato da’ Genovesi un nuovo cambio, ch’essi chiamano per le fiere di Bisenzone, ove da principio si andava; ora si vanno a fare in Savoja, in Piemonte, in Lombardia, a Trento, alle porte di Genova, e ovunque voglion essi; talché assai meglio Utopie, cioè fiere senza luogo s’avriano da chiamare» (citato in Boyer-Xambeau, Deleplace e Gilard, 1991, p. 123). La verità è che le fiere genovesi erano una utopia solo se considerate dal punto di vista degli spazi-di-luoghi delle città-stato in declino e degli stati-nazione emergenti. Dal punto di vista dello spazio-di-flussi delle diaspore capitalistiche, al contrario, esse erano un potente strumento di controllo dell’intero sistema europeo di pagamenti tra gli stati. I flussi di merci e i mezzi di pagamento «esterni» agli stati in declino e a quelli emergenti erano, in realtà, «interni» alla rete non territoriale del commercio di lunga distanza e dell’alta finanza controllata e gestita dall’élite mercantile genovese mediante il sistema delle fiere di Bisenzone (vedi cap. 2). Come nei sistemi di dominio basati sulla parentela studiati dagli antropologi, per parafrasare Ruggie (1993, p. 149), la rete di intermediazione commerciale e finanziaria controllata dall’élite mercantile genovese occupava dei luoghi, ma non era definita dai luoghi che occupava. Mercati come Anversa, Siviglia e le fiere mobili di Bisenzone erano tutti altrettanto fondamentali della stessa Genova nell’organizzazione dello spazio-di-flussi attraverso cui la diaspora di mercanti banchieri genovesi controllava il sistema europeo di pagamenti tra gli stati. Ma nessuno di questi luoghi – inclusa Genova – definiva da solo il sistema di accumulazione genovese. Il sistema era invece definito dai flussi di metalli preziosi, di lettere di cambio, di contratti con il governo imperiale della Spagna e di eccedenze monetarie che univano questi luoghi l’uno all’altro. Se l’equivalente «premoderno» del sistema genovese di accumulazione è costituito dai sistemi di dominio basati sulla parentela, il suo equivalente «postmoderno» più stretto è il mercato dell’eurodollaro, una notevole caratteristica del quale, secondo Roy Harrod (1982, p. 331), «è che non ha uffici centrali o edifici propri. […] Materialmente consiste soltanto di una rete di telefoni e di telescriventi disseminate per il mondo, telefoni che possono essere utilizzati anche per scopi diversi dagli scambi in eurodollari». Il sistema genovese non aveva a sua disposizione alcun moderno mezzo di comunicazione. Fisicamente, tuttavia, esso era costituito, come l’odierno mercato dell’eurodollaro, da una semplice rete di comunicazioni che poteva essere utilizzata per scopi diversi dal cambio di valute. I genovesi non furono i soli a controllare reti non territoriali di questo genere. Lo stesso facevano le «nazioni» fiorentina, lucchese, tedesca e inglese – come erano chiamate nel XVI secolo le comunità di mercanti banchieri residenti all’estero. Nella seconda metà del XVI secolo, tuttavia, la «nazione» genovese emerse di gran lunga come la più potente tra di esse. Nel 1617, Suárez de Figueroa si spinse ad affermare che la Spagna e il Portogallo erano divenute «le Indie dei genovesi» (citato in Elliott, 1970, p. 96). L’iperbole conteneva un importante elemento di verità. Come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo, nel mezzo secolo circa che precede il 1617 la «mano invisibile» del capitale genovese, operante attraverso il triangolo-di-flussi che univa l’una all’altra Siviglia, Anversa e Bisenzone, era riuscita a trasformare gli obiettivi di potere della Spagna imperiale, così come gli obiettivi industriali di Venezia, vecchia rivale di Genova e città-stato «modello», in motori della propria valorizzazione. Questa potente rete non territoriale di accumulazione del capitale era dotata di una struttura e di un orientamento essenzialmente capitalistici.