mercoledì 3 novembre 2021

DELLA IMPOSSIBILE DITTATURA SANITARIA

 -Antonio Minaldi-

      una critica della società individualizzata  

la tesi della estrazione del valore dal tempo vita, 
non può non presupporre una ampia 
autonomia del soggetto sociale 
le cui decisioni devono sempre essere libere, 
almeno da un punto di vista formale 
e nella percezione che ne ha chi le compie    

Malgrado si cerchi a volte di enfatizzare, reali o presunte, differenze tra No green Pass e No Vax, mi pare che l’aspetto che in qualche modo unifica il fronte del “NO” in tutte le contestazioni all’operato dei governi occidentali, sia l’idea che ci troviamo di fronte ad una ingiustificata restrizione delle libertà fondamentali dei cittadini, generalmente sintetizzata nell’espressione “dittatura sanitaria”.

Alla base sta l’idea che l’attuale situazione pandemica non sia una emergenza reale con la quale fare i conti, a prescindere da qualsiasi altra considerazione sulla sua genesi e sulla sua gestione, quanto piuttosto un parto dei cosiddetti poteri forti, o in una logica complottista (“la pandemia è stata provocata”), o in una logica negazionista o riduzionista (“la pandemia non esiste”, e se esiste “è poco più di una influenza”).

L’equazione emergenza-dittatura ha in effetti una sua ragione storica. Basti pensare all’ascesa del fascismo e del nazismo a seguito delle difficoltà determinate dal conflitto mondiale prima, e dalla grande crisi del 29 dopo. Tutte le situazioni di grave pericolo e di forte incertezza agiscono inevitabilmente come moltiplicatore delle diseguaglianze nella distribuzione del potere oltre che della ricchezza, dando legittimità al decisionismo dei governi e degli Stati, a scapito di libertà e democrazia. “Sovrano è colui che decide nello stato d’emergenza” diceva C. Schmitt, ed in effetti è pratica risaputa dei regimi autarchici quella di gridare “Al lupo! Al lupo!”, inventando imminenti catastrofici pericoli per giustificare qualunque atto di dominio, anche di natura criminale.

Credo tuttavia che sia sbagliato negare i pericoli e le difficoltà che la vita ci pone di fronte, considerandoli semplicemente come puri strumenti del potere. Un conto è la realtà delle cose, un conto il modo in cui viene manipolata e usata. Il primo dato da cui partire è dunque che la pandemia è reale ed è realmente un evento catastrofico. Non si inventano cinque milioni di morti. Né si può troppo sindacare sulle cifre e sulle cause dei decessi.

Ma l’aspetto su cui vogliamo concentrarci, e che voglio anticipare ci porterà a conclusioni che potranno apparire molto controverse, è sintetizzabile nella domanda “Vi sono reali necessità di dominio e credibili obiettivi politici che spingerebbero oggi i governi occidentali verso l’istaurazione di una dittatura sanitaria?” Credo che già il solo fatto di porre in questi termini la domanda possa apparire a molti come curiosa e straniante. Agiscono a tale proposito due pregiudizi.

Il primo riguarda l’idea tipicamente complottista, che alimenta indifferentemente gli incubi dei contestatori sia di destra che di sinistra, di considerare, magari in maniera non sempre del tutto consapevole, il potere globale come un mostro con una sola testa e una sola cabina di comando. Un solo luogo dove i potenti della terra decidono come governare il mondo; Una dittatura organica, che assume oggi (chi sa perché proprio oggi) l’aspetto della dittatura sanitaria a favore dei profitti delle grandi case farmaceutiche. In realtà il dominio, sebbene caratterizzato da alcuni aspetti storici e strutturali che lo caratterizzano univocamente, è pervaso da contraddizioni e molteplici linee di tendenza, che mai potrebbero permettere, almeno a mio avviso, di considerare quanto sta avvenendo come frutto di decisioni consapevoli ed organiche prese unitariamente e a tavolino.

Il secondo pregiudizio riguarda soprattutto la sinistra radicale e un diffuso sentire dei suoi militanti, per cui ogni espressione del potere, dagli Stati nazionali al capitalismo globale, non può che caratterizzarsi se non come sostanziale dittatura. Il che è anche vero, se inteso in senso generale e tenendo conto di tutte le forme che la governance può assumere nelle varie circostanze e situazioni. Il guaio è che la propensione al comando e al controllo sociale da parte del capitale, viene spesso intesa nel senso univoco di una pratica costante e brutale volta alla repressione di ogni autonomia, con la continua riduzione delle libertà fondamentali, fino al limite della loro soppressione, quando le circostanze lo rendono anche solo possibile. Certo questo è quello che spesso avviene in molte parti del mondo, ed è anche vero che in quella pluralità di tendenze che caratterizza le ipotesi di governo delle cose, tende anche ad affermarsi una componente nazional-populista a vocazione autoritaria come reazione alla globalizzazione. Ma infine, la dittatura fascista o post-fascista, ed in sostanza la soppressione completa delle libertà e di ogni forma di democrazia sono da considerare, in tutte le circostanze storiche e senza eccezioni, il solo volto possibile e il solo approdo destinale della società capitalista? 

A giudicare da come lo homo occidentalis passa il suo tempo a scrivere di tutto, postare foto ed interagire sui social, si direbbe che ciò che oggi ci limita non è la libertà che ci viene negata, quanto piuttosto una sorta di inflazione della libertà di parola, o forse e meglio, una impotente inflazione della parola in libertà. Più in generale, sembra che oggi, nel mondo occidentale, a limitare la nostra capacità di agire sulle cose e sul mondo, più che il divieto di fare, sia la difficoltà a dare valore e significanza al nostro fare.

Certo tutto vale ipoteticamente e fino a prova contraria. Ma sicuramente le nostre condizioni d’esistenza, sono oggi perfettamente in sintonia con l’affermarsi, a partire dagli anni 70\80 ed in concomitanza con l’ascesa del neoliberismo, del modello antropologico dello homo oeconomicus, nella forma del soggetto egoistico, la cui esistenza è completamente tesa a massimizzare i propri interessi e la propria autoaffermazione. Un soggetto che per raggiungere i propri scopi competitivi deve essere libero di pensare e di agire, o almeno credere di esserlo.

Su questo fondamentale passaggio avvenuto a cavallo degli anni 70, credo sia necessario spendere ancora alcune parole di riflessione. L’affermarsi del neo liberismo segna la fine dell’epoca fordista e post fordista, il cui dato fondamentale, o almeno quello che più esplicitamente ne chiarisce il senso, credo si possa esprimere col termine “massificazione”. Anche se di società di massa si inizia a parlare alla fine del XIX secolo, è col taylorismo e con la nascita della catena di montaggio alla Ford che nasce concretamente l’uomo massa. Un soggetto in qualche modo alienato e schizofrenico, o comunque duale. Determinato da un lato come operaio massa, schiavo dei ritmi della catena di montaggio, che sottopongono a rigida disciplina il corpo e alienano la mente, e determinato per altro verso come consumatore massa, il cui senso è eloquentemente spiegato dalla celebre affermazione di Henry Ford “Tutti saranno liberi di scegliere il colore della Ford T, purché sia rigorosamente nero”.Il cosiddetto compromesso keynesiano è il punto d’arrivo e la perfetta realizzazione della società massificata. Compromesso tra capitale e lavoro, tra esigenze della produzione e benefici del consumo, tra l’essere produttore e l’essere consumatore del proletariato. Voglio a questo punto azzardare che la stessa idea di libertà venisse per così dire “massificata”. Libertà massificata, come tendenziale appartenenza ad un NOI, spesso indifferenziato e “ideologizzato” in senso interclassista, piuttosto che bisogno di affermazione dell’IO particolare nella sua singolarità.

Questo modello di società massificata sarà esportato in Europa a seguito del secondo conflitto mondiale e darà origine, grazie al piano Marshall, alla società consumistica, che nel nostro paese si identificherà con il boom economico degli anni 50. Una nuova idea di società di massa tendenzialmente democratica, che prendeva il posto della “piazza” sciovinista e nazionalista, culminata con le grandi adunate del fascismo e del nazismo, e che per altro verso si affiancava dentro il nuovo compromesso alla tradizione europea delle lotte operaie e sindacali.

L’affermarsi del neoliberismo a partire già dalla metà degli anni 70, non mette in questione solamente le scelte di politica economica dei singoli Stati, né tantomeno lo si può limitare ad una questione di interpretazione dei fatti con valore solo sovrastrutturale. Si tratta in realtà di un vero e proprio cambiamento di paradigma che muterà radicalmente la logica dei modi della produzione e della macchina dello sfruttamento capitalista. Non mi soffermerò molto su considerazioni e analisi che altri, in modo più autorevole di me, hanno già approfondito da tempo. Ci limiteremo ad alcuni brevi accenni il cui scopo è sottolineare come a livello della considerazione complessiva dell’organizzazione sociale, si passi dalla società di massa a ciò che definirei, se mi è concesso,  società della individualizzazione.

E’ ovvio che il punto di partenza non può che essere il superamento della organizzazione fordista della produzione e del lavoro. L’abbattimento dei muri della fabbrica; il passaggio dalla sussunzione del tempo lavoro alla sussunzione del tempo vita. Non più la catena di montaggio che disciplina i corpi per controllare le menti, ma lo spazio sociale dove controllare le menti per (auto)disciplinare i corpi. E’ nota, a questo proposito, la teoria dello uomo che produce valore e ricchezza semplicemente vivendo. Ciascuno di noi che nell’insieme delle proprie scelte, nella determinazione dei propri ambiti di vita e delle proprie relazioni sociali, produce valore e ricchezza sociale. In questa logica il capitale fisso col quale interagiamo non è dato più dal ritmo costante e predefinito della macchina nella catena di montaggio. Il lavoro morto è già dentro di noi in quanto sapere sociale, insieme di conoscenze e di esperienze relazionali, general intellect per dirla con Marx.

Non mi interessa entrare nei particolari, ne discutere della validità delle tesi esposte. Mi basta sottolineare, ai fini del nostro discorso, come la tesi della estrazione del valore dal tempo vita, non può non presupporre una ampia autonomia del soggetto sociale, le cui decisioni devono sempre essere libere, almeno da un punto di vista formale e nella percezione che ne ha chi le compie.

E’ importante infine sottolineare come a conclusioni sostanzialmente identiche, rispetto alle logiche di individualizzazione, si arriva anche nelle analisi di chi, in una visione molto differente, vede come ultima frontiera del capitalismo, la sorveglianza sociale finalizzata alla raccolta di big data. raccolta ad ampio raggio di informazioni sulle nostre vite pubbliche e private, allo scopo di conoscere i nostri desideri, le preferenze, i sentimenti, le speranze e quant’altro, per potere influenzare, e anzi determinare, le nostre azioni e le nostre scelte di acquisto. Anche per costoro che pongono al centro del capitalismo contemporaneo, più che il produttore, l’uomo consumatore,  l’auto percezione (ingannatrice) del soggetto sociale come padrone della propria libertà, resta condizione preliminare e sempre necessaria.

Questa esigenza di percepita autonomia del soggetto sociale come funzionale ai meccanismi di comando, e che resta in gran parte illusoria, trova un essenziale riferimento, come già abbiamo accennato, nella teoria dello homo oeconomicus, come soggetto ideale del capitalismo maturo. Questo modello comportamentale, anche quando, e per fortuna spesso, spurgato dai suoi tratti più egoistici, è diventato comunque un habitus, un principio etico irrinunciabile dello homo occidentalis. La libertà come dovere assoluto nei confronti di se stessi. Fonte sovente di sofferenze quando non ci si sente all’altezza di quello che si vorrebbe essere e si vorrebbe realizzare. Concezione comunque individualista perché non riesce a vedere l’altro e la comunità come fonti di propri precisi doveri e responsabilità, se non nel generico e formale riconoscimento per tutte le singolarità altre, dello stesso diritto alla libertà.

Tornando ora al nostro discorso iniziale, e tenendo conto di quanto detto, io mi chiedo che posto possa esserci nelle scelte dei governi occidentali, e più in generale che spazi si possano dare nelle diverse pratiche della governamentalità, per decisioni che possano apparire con evidenza come dettate da logiche dittatoriali. Certo è bene ricordare ancora una volta, che il potere in generale e il potere politico in particolare, hanno sempre per loro natura un carattere di imperio, una affermazione di comando, un dictat che non può essere cancellato. Ma questo uso della forza, a differenza del passato quando veniva esibito e simbolizzato, tende oggi, nelle democrazie occidentali, ad essere il più possibile nascosto, edulcorato e se possibile mistificato e banalizzato.

Francamente penso che la pandemia, se per qualcuno come big farma è stata una grande opportunità, per i governi occidentali è stata motivo di affanno e di difficoltà. L’idea di una dittatura sanitaria, intenzionalmente voluta e perseguita, mi sembra sbagliata e del tutto fuorviante. Al contrario mi pare che spesso, come nel caso del governo britannico, la paura delle reazioni critiche da parte dell’opinione pubblica, abbia fatto da freno alle necessarie misure di contenimento della diffusione del virus che sarebbe stato indispensabile adottare.

Voglio che sia chiaro infine che il mio ragionamento non vuole essere per nulla assolutorio nei confronti dell’occidente e del governo italiano in particolare. L’atteggiamento di acquiescenza nei confronti delle grandi multinazionali del farmaco, l’avere accettato tutte le loro condizioni, e il non avere sollevato la sacrosanta questione della moratoria sui brevetti in favore dei popoli del terzo mondo, ci dicono innanzitutto da che parte stanno i nostri governi. Come sempre dalla parte del capitale e del suo dominio globale. E in questa logica aggiungiamo: l’avere puntato (giustamente) sui vaccini, ma senza percorrere altre vie di contrasto (per esempio , i tracciamenti); Una informazione imprecisa e raffazzonata che ha dato fiato al “partito dei NO”; Non avere sostenuto economicamente, come sarebbe stato necessario, lavoratori, piccole imprese e commercio al dettaglio colpiti dalle chiusure; Non avere fatto nulla per migliorare i servizi ospedalieri e il sistema scolastico. (Né un posto in più in terapia intensiva, né un’aula in più nelle nostre scuole). Tutto questo suona come condanna per i nostri governanti. Ma immaginare che stiano pianificando una dittatura, mi sembra oltre che sbagliato, come una sorta di riconoscimento di una “capacità strategica”, di cui sinceramente non mi sembrano neppure all’altezza.