sabato 6 novembre 2021

INACCETTABILI FALSIFICAZIONI

 -Sergio Bologna\Andrea Fumagalli-

    La parabola di Carlo Formenti  

Allargando e riprendendo un testo di Sergio Bologna pubblicato sul sito di Officina Primo Maggio, con questo scritto si vuole rispondere ad alcune affermazioni inesatte di Carlo Formenti relative all’analisi del progresso tecnologico da parte della variegata galassia del pensiero neo-operaista. Formenti non è nuovo a simili falsificazioni. Nel libro La variante populista pubblicato da Derive Approdi nel 2016, a pag. 256, sosteneva ingiustamente che: “Le tesi post-operaiste rappresentano infatti la punta di lancia del progetto di cooptazione del cosiddetto lavoro cognitivo nel blocco sociale neoborghese”. L’argomento non gli è nuovo e lo aveva già trattato nel precedente libro Un’ambigua utopia, denunciando a suo modo di vedere, l’attrazione del pensiero neo-operaista dalle pillole di zucchero della pensiero liberista, con particolare riferimento al pensiero di Toni Negri et alii. Posizione non originale nel panorama di una certa sinistra nostalgica, che sarebbe sicuramente meglio destinare all’oblio e all’indifferenza, anche perché sconfessata dalla storia recente. Ne vogliamo, invece, parlare perché Carlo Formenti negli anni Novanta, ai tempi della diffusione della Rete, è stato uno degli analisti più attenti di quel fenomeno. 

Come ammetteva anche Cristina Morini nella sua recensione critica al libro La variante populista: “Con testi come Incantati dalla rete (2000), Mercanti di futuro (2002) e Cybersoviet (2008), [Formenti] è stato un acuto teorico della Rete e – probabilmente non gli piacerà – del capitalismo biocognitivo”, ponendosi in sintonia con le analisi che all’epoca facevamo sulle trasformazioni dei processi di accumulazione e di valorizzazione del capitalismo contemporaneo. La parabola di Formenti è paradigmatica di un certo pensiero di sinistra che è stato poi incredibilmente soggiogato dalle sirene del populismo. Ogni posizione ha diritto ad esprimersi, ma quando si esprime con inaccettabili falsificazioni,e tra l’altro in momenti tanto delicati della storia che mostrano proprio l’efficacia di talune tesi (sia relative alla ormai manifesta trasformazione del capitalismo di piattaforma, sia relative alle pericolosità dei richiami populisti, negli Stati Uniti come in Italia) pensiamo sia necessario intervenire. (A.F.)

È stata una pessima idea quella di Carlo Formenti a voler indottrinare i lettori del suo blog sulla discussione avvenuta in questi ultimi vent’anni sul tema dei knowledge workers e del rapporto tra ruoli professionali e tecnologia, perché ha dimostrato o di averla seguita assai male questa discussione o di non averci capito nulla. Scrive in un suo post intitolato “Dalla IBM alla gig economy”:

“Con la rivoluzione digitale e gli anni Novanta abbiamo assistito a un potente ritorno di attenzione sul rapporto fra innovazione tecnologica e lotta di classe. Purtroppo nella gran parte dei casi questa attenzione è coincisa con l’esaltazione acritica del presunto potenziale emancipativo delle nuove tecnologie (….) A seguire è subentrata la versione post operaista del sogno hacker: i lavoratori della conoscenza (le classi creative in altre versioni) vennero battezzati come la nuova avanguardia rivoluzionaria, pronta a raccogliere il testimone delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta.”

Per quanto ne sappiamo, la discussione all’interno del pensiero cosiddetto post-operaista, fu lanciata da un volume collettaneo curato dai sottoscritti e pubblicato nel 1997 in coedizione tra Feltrinelli e Shake Editore, una casa editrice che aveva dato molto spazio alla cultura hacker, dal titolo Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia. Carta canta, come si dice. Ebbene, sfidiamo qualunque lettore a trovare in quel volume un benché minimo accenno a una definizione dei lavoratori della conoscenza “come la nuova avanguardia rivoluzionaria”. In quel volume, ed in particolare nei due saggi scritti da Sergio Bologna, si diceva che a) il lavoro indipendente che si stava diffondendo aveva uno stretto rapporto con le nuove tecnologie digitali e con gli strumenti di lavoro che queste tecnologie avevano messo a disposizione, come il personal computer, b) che questa condizione non aveva creato dei lavoratori più “liberi” o più “autonomi” perché essi si trovavano sempre in un rapporto di forza diseguale con il committente, c) che essi dovevano prendere coscienza di questa loro debolezza sul mercato e quindi dovevano pensare a coalizzarsi, a tutelarsi.

Cosa che puntualmente avvenne agli inizi degli anni 2000, sia negli USA con la costituzione della Freelancers Union (www.freelancersunion.org), sia in Italia con la costituzione di ACTA (www.actainrete.it), sia con la creazione di altre iniziative di carattere sindacale o mutualistico a livello europeo, p.es. la cooperativa SMArt, con sede a Bruxelles e filiali in nove paesi europei. Ossia, si era messo in moto finalmente – forse anche grazie a quella nostra analisi – un processo di coalizione, di riconoscimento della propria identità lavorativa, da parte di lavoratori che fino a quel momento avevano pensato di non essere lavoratori ma imprese, anche perché così li definiva l’Unione Europea, negando loro il diritto a un collective bargaining. Formenti ignora tutto questo, oppure vuole semplicemente oscurare una realtà che smentisce i suoi giudizi?

Contemporaneamente e nella prima decade del nuovo millennio, l’analisi post (o neo) operaista si interrogava sui nuovi processi di frammentazione e dispersione del lavoro e del venir meno delle tradizionali forme della rappresentanza sindacale, non in grado di tutelare l’emergenza della condizione precaria come condizione strutturale ed esistenziale, che andava ben al di là del tempo e dello spazio del lavoro.

Un tempo e uno spazio che tendevano a dilatarsi sino a coinvolgere in modo sempre più diretto il tempo e lo spazio di vita. Ciò era reso possibile proprio delle nuove tecnologie informatiche e algoritmiche, che venivano ad assumere nuove funzioni rispetto a quelle più tradizionali di incrementare l’intensità dei ritmi di lavoro e quindi lo sfruttamento del lavoro. Nuove funzioni che si implementavano da un lato nello sviluppo di tecniche di sorveglianza di un lavoro sempre soggetto alla domestication (già denunciata nel nostro libro del 1997) e all’esternalizzazione (si pensi oggi al ruolo che verrà svolto dallo smart-working), dall’altro consentivano e consentono quella enorme cattura di dati, di informazione e conoscenza che favorisce un sistematico processo di sfruttamento della vita. Per maggiori approfondimenti, rimandiamo al testo di Andrea Fumagalli Economia politica del comune, soprattutto il capitolo conclusivo.

Altro che “l’esaltazione acritica del presunto potenziale emancipativo delle nuove tecnologie”, come falsamente scrive Formenti!

È in questo contesto, che si sviluppano i primi faticosi tentativi di ricomposizione della frammentarietà precaria e delle attività autonome eterodirette, a partire dalla già citata ACTa e dalle Mayday degli anni 2000 per arrivare alle organizzazioni autonome di oggi (dalle forme di mutuo soccorso sul modello della ricordata “SMArt”, come, ad esempio, FairCoop che da Barcellona si è estesa in altri paesi europei, alle mobilitazioni dei riders, dei lavoratori dei call-center e delle cooperative di magazzinaggio).

Questo vero e proprio “risveglio” di una disponibilità alla solidarietà tra lavoratori, che si assomigliano per tutta una serie di condizioni spazio-temporali e soprattutto di rapporto con le nuove tecnologie, ha impresso una dinamica virtuosa, che sta portando alla luce sempre nuove soluzioni e nuove iniziative. Una di queste è la Tech Workers Coalition, oggi presente anche in Italia. Che cosa ha portato di nuovo rispetto alle esperienze precedenti? Prima di tutto il fatto di rivolgersi ai lavoratori salariati dell’industria high tech, non soltanto a quelli freelance, costruendo in tal modo le premesse per allargare un certo “blocco sociale”. In secondo luogo – com’è chiaramente espresso nel loro sito USA – quello di mettere in piedi non una Union ma una Coalition, cioè una struttura flessibile e trasversale che dialoga e collabora con tutte le Unions o le associazioni professionali che in un modo o nell’altro intendono tutelare i lavoratori che hanno a che fare con le tecnologie digitali latu sensu, quindi programmatori ma anche rider, lavoratori delle piattaforme e così via (we work in solidarity with existing movements towards social justice, workers’ rights, and economic inclusion).

Detto questo, non sappiamo se vale la pena, visto che Formenti ha le idee così confuse, ricordare che il pensiero cosiddetto “operaista” in Italia nasce all’interno di una rivista che si chiamava” Quaderni Rossi” e che uno dei primi testi, se non il primo, su cui si sono formati i partecipanti a quella esperienza era un testo di Raniero Panzieri che negava la presunta “neutralità” della tecnologia (lettura del ’Frammento sulle macchine’ di Marx). Era il 1961.


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