-Tania
Rispoli-
trasversalità delle lotte e i legami delle strutture sociali del movimento americano
Questo movimento ha una coscienza politica molto più matura, ma c’è anche un ulteriore aspetto di maturità di questo movimento che occorre segnalare: rispetto a Ferguson, per esempio, ci sono molti più bianchi che partecipano alla lotta. V'è tutta una generazione nuova di militanti bianchi che ora sanno come partecipare e come stare in una lotta anti-razzista. Non si tratta solo di essere solidali con le “povere vittime nere” ma di essere pienamente coscienti che
una società razzista fa schifo per tutti quanti
Negli ultimi due anni Atlas of
Transitions ha portato avanti una riflessione molto interessante
sulle migrazioni e sul paradigma del confine nell’immaginario contemporaneo. Il
tema di quest’anno è Performing Resistance e tu e Sandro
Mezzadra oggi pomeriggio all’interno delle iniziative di Atlas of
Transitions parlerete di una delle esperienze più significative
di resistenze degli ultimi anni: Mediterranea. Proprio in questi giorni la nave
Mare Jonio riprende le proprie attività nel Mediterraneo, dopo il sequestro
dello scorso 3 settembre 2019 per via dei decreti sicurezza. Nel frattempo i
naufragi di migranti continuano così come gli accordi tra i paesi europei e la
Libia. Come vedi il ruolo di Mediterranea nella fase attuale?
Credo che il progetto di Mediterranea
sia molto cambiato in questi due anni, non tanto per il progetto in sé, i cui
obiettivi rimangono quelli di salvare i migranti in mare e intervenire sulle
politiche genocide degli accordi Italia-Libia, quanto per il contesto. Quasi
due anni fa quando si è cominciato il percorso, Mediterranea era un progetto
controcorrente, non perché non ci fossero, in Italia, molte persone
favorevoli a soccorrere i migranti in mare ma perché il contesto politico
istituzionale, soprattutto con Matteo Salvini e la sua retorica governativa,
rendevano un progetto di questo tipo se non irrealizzabile, quasi impossibile.
Quando si è lanciata in mare la nave Mare Jonio, l’idea di effettuare dei
salvataggi di migranti costitutiva una vera e propria sfida rispetto alla retorica
politica dominante. Il contesto, oggi, mi sembra cambiato, in particolare nelle
ultime settimane, nel momento in cui si punta più decisamente su una politica
anti-razzista dei movimenti e su una società che faccia dell’anti-razzismo uno
dei suoi obiettivi principali. Se all’inizio Mediterranea ha dimostrato che
malgrado la situazione politica orribile si può comunque fare qualcosa – se
quindi ci ha dimostrato che è pur sempre possibile resistere – oggi, invece, il
suo ruolo è quello di accelerare una serie di processi. Mediterranea può
favorire delle forme di resistenza e dei movimenti che stanno di settimana in
settimana sempre più crescendo, e questo sia in Europa che negli Stati Uniti.
Il ruolo di Mediterranea, in conclusione, si sta quindi adeguando a questo
nuovo e potente contesto.
Quello che
sta succedendo nelle ultime settimane negli Stati Uniti è eccezionale, assume
delle proporzioni enormi e sembra che stia completamente riconfigurando la fase
attuale. Come giudichi questo movimento e di che tipo di novità ti sembra
essere portatore?
Una delle
novità che osservo è che questo movimento ha una coscienza politica molto più
profonda rispetto ai movimenti degli ultimi anni su alcune questioni, come per
esempio il tema e il metodo dell’intersezionalità. Ma più in generale questo
movimento ha una coscienza politica molto più matura. Questa “maturità” può
essere intesa in due sensi: da un lato questo movimento è un movimento contro
le strutture razziali che è anche molto consapevole delle gerarchie di genere e
sessualità e include appieno le istanze dei movimenti trans-femministi (come è
avvenuto nella grande manifestazione a NYC di domenica scorsa) – e in questa
prospettiva è un movimento che ha piena coscienza dei legami trasversali
delle lotte. Dall’altro lato, è un movimento che non è solamente cosciente
del fenomeno della violenza ma inquadra questa violenza nella
problematizzazione di strutture sociali più ampie e radicate. È
evidente che la scintilla di queste proteste e di questo movimento è stato un
atto violento della polizia, cioè il brutale omicidio di George Floyd, ma per
il movimento è altrettanto chiaro che questa violenza è un epifenomeno e un
sintomo di un problema ancora più fondamentale che è la struttura sociale
razzista della società americana (e non solo). Ecco, questo mi sembra un
formidabile segno di maturità del movimento. Inoltre, si potrebbe dire che
anche la retorica, il linguaggio e l’immaginario degli attivisti, che in
generale sono molto giovani e hanno 20-25 anni, sia molto prossimo a un tipo di
discorso che spesso viene anche portato avanti nelle aule universitarie e che
propone un’analisi strutturale del razzismo. Questo movimento utilizza un
linguaggio e delle richieste che sono molto sofisticate ed elaborate.
Alcuni
analisti sostengono che ci siano anche dei conflitti intra-governativi in
questo momento negli Stati Uniti che favoriscono o sostengono i movimenti. Tu
che ne pensi?
Indubbiamente in alcune aree c’è un
rapporto virtuoso tra manifestazioni e governi locali che si oppongono
fortemente alle politiche di Trump. Per esempio sia a Seattle che a Washington
– le due città in cui ho anche partecipato attivamente alle manifestazioni – i
sindaci hanno dato l’ordine alla polizia di non opporsi alle manifestazioni. A
Washington durante l’ultima enorme manifestazione non si vedeva neppure un
poliziotto ma a presidiare la Casa Bianca c’era la Guardia Nazionale… I sindaci
sia a Washington che a Seattle stanno quindi sostenendo le manifestazioni
contro Trump. Bisogna vedere se questo rappresenti un vero e proprio conflitto
tra governi locali e Stato federale…
Anche perché
spesso storicamente è stato il contrario, cioè gli Stati singoli prendevano
delle posizioni più conservatrici mentre il governo federale proponeva delle
decisioni più avanzate…
Sì, questo è quello che si diceva a
metà degli anni Sessanta ed era grossomodo vero soprattutto per quanto
riguardava gli Stati del Sud che non volevano porre termine alla segregazione
mentre il governo federale, invece, forzava. Quella attuale costituisce una
specie di inversione di tendenza interessante e rappresenta una forma di
pressione e messa all’angolo di Trump. Sicuramente c’è un conflitto
intra-governamentale che è molto interessante e che vedremo quanto possa essere
potente. Una contrapposizione di questo tipo tra governo centrale e governi
locali si è data anche in Italia, per esempio quando il sindaco di Riace si è
opposto alle politiche anti-migratorie di Salvini. Certo Washington non è
esattamente Riace! Negli Stati Uniti una vera novità sarebbe assistere a
qualcosa di simile a quello che è avvenuto in Spagna, quando si è dato un
movimento municipalista di trasformazione. Siamo ovviamente ben lontani da un
processo di questo tipo, ma sono dinamiche da tenere presenti.
In questi
giorni stavo pensando che il movimento di Ferguson del 2014-2015 ha svolto
quasi un ruolo “formativo” rispetto a un certo linguaggio e forse anche il
ruolo dell’università è stato importante perché anche le università hanno
contribuito a creare un senso comune sui temi che riguardano il razzismo e il
genere considerando l’attenzione che c’è ai dipartimenti di African-American
Studies e Gender Studies
Sicuramente le università hanno
svolto una funzione importante, ma c’è anche un ulteriore aspetto di maturità
di questo movimento che occorre segnalare: rispetto a Ferguson, per esempio, ci
sono molti più bianchi che partecipano alla lotta. E questo non perché prima
non fossero solidali ma perché ora hanno una formazione più completa che li
rende capaci di partecipare. Credo che ci sia – e anche questa è una novità –
tutta una generazione nuova di militanti bianchi che ora sanno come partecipare
e come stare in una lotta anti-razzista. E anche questa è una questione di
formazione politica all’interno dei movimenti. In queste manifestazioni in cui
partecipano oltre agli afroamericani, latinx, asiatici e bianchi è visibile il fatto
che non si tratta solo manifestare solidarietà o esprimere un’alleanza, ma di
sentirsi pienamente parte del problema. La questione del razzismo è davvero un
problema di tutti. Non si tratta solo di essere solidali con le “povere vittime
nere” ma di essere pienamente coscienti che una società razzista fa schifo per
tutti quanti.
Una delle
forze che più colpisce di questo movimento americano è stata la sua capacità di
generalizzazione a livello mondiale. Enormi manifestazioni ci sono state non
solo in tutte le principali città americane ma anche a Londra, a Berlino, a
Parigi e in Italia. Come mai una lotta contro il razzismo strutturale (che
negli Stati Uniti ha delle peculiarità molto specifiche) riesce a diventare
immediatamente generale?
L’immagine che offre la stampa
americana e che ritengo sia completamente falsa è che questi movimenti altrove,
in Europa, in Australia e così via siano dei movimenti in solidarietà con gli
afro-americani. A me sembra che la generalizzazione e la diffusione delle lotte
oltreoceano sia data dalla consapevolezza del razzismo strutturale in ogni
paese dell’Europa come in Australia. Il movimento di queste settimane è una
scintilla che parte dai movimenti americani e arriva a quelli europei, che si
trovano in una situazione altrettanto matura per affrontare la questione del
razzismo. Certo, ogni espressione di questo movimento globale avrà delle
caratteristiche locali, ma sicuramente in Italia, in Francia oppure in Inghilterra
(che tra loro hanno contesti di partenza molto diversi) c’era già una lotta
molto sviluppata e avanzata contro le violenze della polizia e più generale
contro il razzismo strutturale. Questo evento americano, questa sollevazione
così partecipata e diffusa cade, per così dire, in un campo che era già
preparato, in una situazione che è già matura dal punto di vista delle lotte e
dei discorsi.
In Assemblea tu
e Toni Negri avete dedicato diverse pagine alla dimensione “leaderless” dei
movimenti attuali. Questo movimento di Black Lives Matter sembra esprimere
questa caratteristica in modo particolarmente evidente. Che cosa dice questo
aspetto del movimento attuale?
È un fatto
assodato che Black Lives Matter sia un movimento non centralizzato e quindi
senza portavoce o leader. E d’altra parte tutti i movimenti di questa
generazione si devono confrontare con quest’esigenza di organizzarsi senza
centralizzazione. Però come tutti i movimenti che riescono a essere efficaci e
vincenti necessitano, anche senza una struttura centralizzata, di un notevole
sforzo di organizzazione – e questo è un aspetto che si nota moltissimo nelle
ultime settimane. Black Lives Matter, come tutti sanno, non è un’organizzazione
in senso stretto: manca un comitato centrale e non c’è un leader. Black Lives
Matter è un nome comune che ogni gruppo locale può usare e fare proprio. Eppure
quello che osserviamo in queste settimane è quanto siano ben organizzati i
movimenti negli Stati Uniti. In ogni città le manifestazioni sono perfettamente
organizzate, anche per quanto riguarda gli aspetti pratici. Per esempio
l’enorme manifestazione a Washington della settimana scorsa che ha raccolto più
di 20-30 mila persone è stata organizzata fin nei minimi dettagli: c’era
l’acqua gratis per tutti, snack da mangiare, disinfettante e persino protezione
solare, perché c’era un sole fortissimo quel giorno. Quello che voglio
osservare tramite questo esempio è che anche se un movimento di questo tipo
è leaderless non manca di organizzazione, anzi richiede ancora
più organizzazione. Ed è quello che vediamo all’opera nel movimento attuale – e
sono anche queste le ragioni per cui dura così a lungo e riesce ad avere tanti
successi – perché ognuno di questi gruppi locali che prendono il nome di Black
Lives Matter hanno una forza e una capacità organizzativa così elevata.
Una delle
parole d’ordine delle piazze di Black Lives Matter di questi giorni è stata
“defund the police” e in alcuni casi addirittura “abolish the police”. Come
vedi questa rivendicazione e cosa pensi che esprima questa attenzione agli
apparati repressivi dello Stato? Quale pensi che sia la sua centralità nella
fase attuale?
La parola d’ordine “defund the
police” è a mio avviso interessante e in parte per la sua ampiezza. Nel senso
che da un lato potrebbe persino costituire una richiesta di riforma abbastanza
moderata che limita le responsabilità della polizia per dare fondi ad altre
agenzie governative che potrebbero essere in grado di gestire delle situazioni
che non necessariamente richiedono la presenza della polizia o nelle quali la
polizia non sarebbe adatta. Ma dall’altro lato – come si evince dalla parola
d’ordine “abolish the police” – si tratta di una rivendicazione piuttosto
radicale che deve essere inserita all’interno di una riflessione che va avanti
da qualche decennio sull’abolizione del carcere e quindi anche della polizia:
l’idea è proprio quella di abolire tutta la struttura carceraria di cui la
polizia fa parte. Se per un verso “defund the police” potrebbe sembrare una
proposta moderata, l’idea di trasformare tutto il sistema poliziesco e
carcerario (l’idea di abolire la polizia) è davvero una proposta
rivoluzionaria. Il punto per i movimenti è che la trasformazione del sistema
della polizia, anche se in forma minimale, attraverso il definanziamento, è
sempre visto come il sintomo di un problema molto più profondo che riguarda il
razzismo strutturale e da ultimo la messa in discussione di una società
razzista. Certo, riformare la polizia potrebbe anche andare bene ed essere un
primo passo, ma l’ambizione dei movimenti è molto più elevata e guarda a una
trasformazione più radicale e strutturale. L’obiettivo è trasformare la società
in quanto tale. In conclusione tutte queste parole d’ordine (“defund the
police” o “abolish the police”) sono come tutte le parole d’ordine molto utili
per far avvicinare le persone al tema o al problema generale, però una volta
che ci si è avvicinati al problema, il modo di affrontarlo deve diventare più
complessivo e generalizzato: si comincia dalla polizia per problematizzare
un’intera società razzista e per capire una volta per tutte come trasformarla.
Intervista pubblicata per DinamoPress il 18 giugno 2020
Segnaliamo
l’intervista di Tania Rispoli a Michael Hardt. Il video dell’incontro di
giovedì 18 giugno di Atlas of
Transitions può
essere visto qui: https://www.facebook.com/dinamopress/videos/694958334399412/