-Antonio Minaldi-
LIMITI DELLA DEMOCRAZIA E PRATICHE DEL COMUNE
tutto ciò non è più affidabile alle sapienti mani di una
“avanguardia verticalmente gerarchizzata”, ma deve essere un prodotto non
disgiunto di teoria e lotta fondato nella pratica comune della moltitudine orizzontalmente
costituenda [accì]
Leggo in un
vecchio saggio sulla "cittadinanza" di Danilo Zolo questo pensiero:
"Libertà ed eguaglianza sono valori tra loro largamente incompatibili. Non
esiste alcuna pulsione umana fondamentale verso l’uguaglianza che sia
lontanamente paragonabile, per intensità e universalità, alla pulsione verso la
libertà”.
Posta in
questi termini, con riferimento alla "natura umana", la cosa mi trova
in disaccordo. Penso piuttosto che questa potente pulsione verso la libertà, “egoisticamente”
slegata dai valori riferibili all’idea d’uguaglianza, sia un prodotto
storico-culturale ampiamente riferibile alle vicende che hanno caratterizzato
la modernità occidentale attraverso un percorso plurisecolare.
Non è questa
la sede per approfondire un discorso così complesso e di cui possiamo indicare
solo alcune direttrici di ricerca.
Credo che il
punto centrale intorno a cui tutto ruota è quello della nascita e dello
sviluppo nel tempo dell'etica lavorista ed individualista borghese tutta
centrata sull’autonomia decisionale del lavoratore imprenditore, in origine
commerciante o artigiano, poi evolutasi (o degenerata) nella logica competitiva
dell'economia di mercato capitalista. Si tratta di pratiche sociali fortemente
legate anche alla nascita dello Stato moderno, che cancella i legami comunitari
tradizionali di origine medioevale in favore di un rapporto esclusivo tra
sovrano e suddito-cittadino considerato come singolo. È nell’ambito di questo
rapporto di tipo verticale, anche variamente suffragato sul piano intellettuale
dal pensiero illuminista e dalle teorie politiche giusnaturaliste, che si
afferma alla fine del 700, grazie alla vicende delle rivoluzioni americana e
francese, l’idea dei diritti naturali dell’uomo concepiti come diritti
individuali e “inviolabili” da parte dello Stato, ma al tempo stesso del tutto
indifferenti rispetto a qualsivoglia legame orizzontale di tipo egualitario e
comunitario.
Per la
verità, prima dell’era delle rivoluzioni, una diversa idea delle relazioni
sociali e di potere era stata espressa dal pensiero di Rousseau, il quale, come
è noto, sviluppa un concetto radicale di democrazia fondato su una
partecipazione ugualitaria del cittadino alla cosa pubblica, ma col gravissimo
limite di avere presupposto la subordinazione dell’individuo alla “volontà
generale”. IL pensiero di Rousseau si pone in questo modo in netta
contrapposizione con l’idea di libertà come diritto di autonomia e di
indipendenza del cittadino dal sovrano, come era stato delineato in maniera
mirabile, nell’ambito della cultura giusnaturalista, da l’inglese John Locke.
Non è un caso che molti studiosi abbiano parlato di “totalitarismo” a proposito
del pensiero di Rousseau.
È nel corso della rivoluzione francese che le
due concezioni della “libertà individualista” e della “democrazia comunitaria
ed egualitaria” si scontrano, ma al tempo stesso cercano, nel concreto delle
vicende rivoluzionarie, un punto d’incontro e di mediazione. Alla fine è di
fatto il “pensiero liberale” che si afferma (come già nella rivoluzione
americana) attraverso la sconfitta del giacobinismo, che segna anche la fine
della rivoluzione.
Il motivo di
tale affermazione sta nella capacità mostrata dal liberalismo di recepire
l’idea democratica, ma spurgandola della sua originaria carica egualitaria
fondata sull’idea (o sull’utopia) di un continuo flusso partecipativo popolare
e dal basso, e ingabbiandola invece in “forme” e “limiti” (per dirla con la
Costituzione Italiana) che segneranno la nascita della cosiddetta “democrazia
rappresentativa”.
Da allora
l’idea di libertà, così concepita, si è effettivamente radicata nella cultura
(anche popolare) dell’occidente, divenendone un bene col senso di un valore
effettivamente indisponibile e inviolabile, molto di più di quanto non sia
avvenuto per l’idea di una effettiva partecipazione popolare e per la spinta
verso la realizzazione di una qualche forma di uguaglianza sociale.
Tale
situazione viene ormai perpetrata da quasi due secoli e mezzo con l’indiscusso
prevalere del pensiero liberal-democratico, almeno nell’area occidentale,
interrotto solo dalla brutalità della dittatura quando è stato necessario per
preservare gli assetti di classe dell’ordine sociale. La conseguenza è stata
quella di un continuo accentrarsi della ricchezza, e conseguentemente del
potere reale e nominale, nelle mani di pochi, sia nell’ambito delle “cittadelle
capitaliste”, sia a livello globale nella sperequazione tra Stati ricchi e
Stati poveri del terzo mondo.
La
situazione attuale è però anche il prodotto della incapacità, ormai storica, da
parte della sinistra socialista e comunista, o di qualsivoglia altra ipotesi ugualitaria,
di sapere coniugare l’idea di uguaglianza con una visione della libertà e
“delle libertà” che sappia andare oltre l’etica individualista e la logica
competitiva della visione antropologica oggi dominante.
Una visione
dei diritti intesi come beni comuni, fondati su una concezione solidaristica partecipativa
e comunitaria, e quindi inscindibili dall'obiettivo dell'uguaglianza sociale.
Una idea di
libertà fondata sui principi di reciprocità e di responsabilità al posto di una
logica puramente acquisitiva di autopromozione e di autoaffermazione.
Quella idea
di libertà, che faceva dire a R. Luxemburg, in aperta polemica con il leninismo
e con gli esiti della rivoluzione d’ottobre, che "la libertà è sempre la
libertà dell'altro".
Tale
incapacità della sinistra ha certamente una storia molto lunga, che affonda le
sue radici fin dalle origini del pensiero socialista, che ha spesso liquidato
la questione della libertà individuale come semplice “ideologia borghese”o
libertà semplicemente “formale”, senza comprendere che un’altra idea di libertà
era necessaria, perché le pratiche solidaristiche ed ugualitarie fondate su
relazioni orizzontali dovevano necessariamente partire, non da input statalistici
e centralizzati, ma dalla “naturale” propensione dell’individuo ad agire per
libera scelta secondo coscienza e convinzione. Un capitolo importante di questa
storia (e di questo fallimento) è dato, come tutti possono capire, dalle
vicende del cosiddetto socialismo reale, dalla rivoluzione d’ottobre alle
strettoie, secondo alcuni anche “criminali”, dello statalismo e della
costruzione del “socialismo in un solo paese”. Mentre di converso quelle
istanze libertarie, che a vario titolo e in vario modo, si sono prodotte,
spesso anche con grande forza e impatto, lungo tutta la storia dei movimenti di
lotta e di liberazione, non sono mai riuscite a trasformarsi in ipotesi strategiche
vincenti.
Approfondire
il tema della “libertà” e del suo difficile ma essenziale rapporto con
“l’eguaglianza sociale” (e di conseguenza anche quello della compatibilità tra
espressione della sovranità popolare e autonomia del cittadino) è oggi il problema
centrale nella costruzione di una ipotesi politica e strategica di superamento
della attuale società fondata sul comando di capitale.
In questo
senso questo breve lavoro vuole essere solo una sorte di “premessa” o di
“introduzione” ad una opera collettiva che è da venire.
Mi permetto
qui di dare, a tale proposito, una sola possibile indicazione. Forse il limite
storico della sinistra non sta soltanto nel travaglio nel comprendere il senso
dei valori di libertà, ma probabilmente anche nel modo con cui è stata intesa
la stessa idea di uguaglianza sociale. La suggestione mi viene da M. Walzer e
dalla sua teoria della “eguaglianza complessa”, che, detto in estrema sintesi,
è l’idea che l’uguaglianza non può essere il prodotto della semplice
distribuzione di un bene dominante, come per esempio il denaro, ma della
distribuzione di una complessità di “beni comuni”, ciascuno dei quali ha
specifici modi di acquisizione e di fruibilità.
Non è qui il
luogo per approfondire il pensiero del politologo americano, né questo è il
nostro interesse specifico. Ciò che ci interessa, oltre e a prescindere da
Walzer,è il valore semantico, propositivo e propulsivo, del concetto stesso di
“uguaglianza complessa”, come possibile risposta di trasformazione
rivoluzionaria nei confronti di un sistema sociale, nel quale lo stesso dominio
di capitale si esprime attraverso una complessità di sistemi e ambiti di vita,
tra loro interconnessi, ma ciascuno con proprie norme, procedure e specifiche
finalità.
In questa
situazione l’antagonismo sociale non può che essere pensato come la convergenza
nella lotta di miriadi di diversità in movimento.
Ma ciò che mi
pare veramente decisivo è che anche l’individuo, preso nella sua singolarità, è
egli stesso un insieme complesso di appartenenze e di identità, che se non
vengono vissute passivamente, aprono alla possibilità della libera scelta nella
autodeterminazione di sé come soggetto politico.
La libertà è
anche la scelta della propria “diversità”, tra tutte “le diversità possibili”,
oltre ad essere la presa d’atto o la ribellione alla propria “diversità
subita”.
La libertà è
anche scelta dei modi attraverso i quali godere di ogni singolo bene per sé, ma
anche di come sia possibile, se si vuole, impegnarsi, in un’ottica
solidaristica, in un percorso per la migliore fruizione collettiva dei beni, o
di un singolo bene.