giovedì 18 giugno 2020

LO STATO MODERNO TRA UGUAGLIANZA E LIBERTÀ

-Antonio Minaldi-

LIMITI DELLA  DEMOCRAZIA E  PRATICHE DEL COMUNE  

    Il tema proposto attraversa da lungo tempo il dibattito e le pratiche dei movimenti postfordisti nel tentativo di spezzare l’ipocrita ripetizione del pensiero mainstream, secondo cui alla destra va assegnato il primato sul concetto di “Libertà senza Uguaglianza” e alla sinistra quello sulla “Uguaglianza senza Libertà”. In realtà, se guardiamo al Politico e alle forze che si agitano nello spazio della rappresentanza, la distinzione è relegata più sul piano ideologico (riferibile alle vicende dello stato-democratico nel “Secolo breve”) che alla concrezione contemporanea. Infatti il “ceto politico” che anima oggi la contrapposizione destra/sinistra gioca la partita, alla ricerca del consenso, sul terreno della governamentalità, cioè sulla offerta di efficienza ed efficacia dell’azione esecutiva  finalizzata al tutoraggio del libero mercato: il Pubblico servitore dell’Economico. L’articolo, nel ricostruire sinteticamente le diacronie del rapporto tra Libertà e Uguaglianza nel divenire dello stato-moderno, ci richiama alla necessità di ri-fondare un pensiero libertario ed egualitarista contro il “pensiero unico” dominante ammantato d’ equità mistificante, abbandonando una volta e per tutte la zavorra categoriale dell’ipostasi-partito: 
tutto ciò non è più affidabile alle sapienti mani di una “avanguardia verticalmente gerarchizzata”, ma deve essere un prodotto non disgiunto di teoria e lotta fondato nella pratica comune della moltitudine orizzontalmente costituenda     [accì] 

Leggo in un vecchio saggio sulla "cittadinanza" di Danilo Zolo questo pensiero: "Libertà ed eguaglianza sono valori tra loro largamente incompatibili. Non esiste alcuna pulsione umana fondamentale verso l’uguaglianza che sia lontanamente paragonabile, per intensità e universalità, alla pulsione verso la libertà”.
Posta in questi termini, con riferimento alla "natura umana", la cosa mi trova in disaccordo. Penso piuttosto che questa potente pulsione verso la libertà, “egoisticamente” slegata dai valori riferibili all’idea d’uguaglianza, sia un prodotto storico-culturale ampiamente riferibile alle vicende che hanno caratterizzato la modernità occidentale attraverso un percorso plurisecolare.
Non è questa la sede per approfondire un discorso così complesso e di cui possiamo indicare solo alcune direttrici di ricerca.
Credo che il punto centrale intorno a cui tutto ruota è quello della nascita e dello sviluppo nel tempo dell'etica lavorista ed individualista borghese tutta centrata sull’autonomia decisionale del lavoratore imprenditore, in origine commerciante o artigiano, poi evolutasi (o degenerata) nella logica competitiva dell'economia di mercato capitalista. Si tratta di pratiche sociali fortemente legate anche alla nascita dello Stato moderno, che cancella i legami comunitari tradizionali di origine medioevale in favore di un rapporto esclusivo tra sovrano e suddito-cittadino considerato come singolo. È nell’ambito di questo rapporto di tipo verticale, anche variamente suffragato sul piano intellettuale dal pensiero illuminista e dalle teorie politiche giusnaturaliste, che si afferma alla fine del 700, grazie alla vicende delle rivoluzioni americana e francese, l’idea dei diritti naturali dell’uomo concepiti come diritti individuali e “inviolabili” da parte dello Stato, ma al tempo stesso del tutto indifferenti rispetto a qualsivoglia legame orizzontale di tipo egualitario e comunitario.
Per la verità, prima dell’era delle rivoluzioni, una diversa idea delle relazioni sociali e di potere era stata espressa dal pensiero di Rousseau, il quale, come è noto, sviluppa un concetto radicale di democrazia fondato su una partecipazione ugualitaria del cittadino alla cosa pubblica, ma col gravissimo limite di avere presupposto la subordinazione dell’individuo alla “volontà generale”. IL pensiero di Rousseau si pone in questo modo in netta contrapposizione con l’idea di libertà come diritto di autonomia e di indipendenza del cittadino dal sovrano, come era stato delineato in maniera mirabile, nell’ambito della cultura giusnaturalista, da l’inglese John Locke. Non è un caso che molti studiosi abbiano parlato di “totalitarismo” a proposito del pensiero di Rousseau.
È  nel corso della rivoluzione francese che le due concezioni della “libertà individualista” e della “democrazia comunitaria ed egualitaria” si scontrano, ma al tempo stesso cercano, nel concreto delle vicende rivoluzionarie, un punto d’incontro e di mediazione. Alla fine è di fatto il “pensiero liberale” che si afferma (come già nella rivoluzione americana) attraverso la sconfitta del giacobinismo, che segna anche la fine della rivoluzione.
Il motivo di tale affermazione sta nella capacità mostrata dal liberalismo di recepire l’idea democratica, ma spurgandola della sua originaria carica egualitaria fondata sull’idea (o sull’utopia) di un continuo flusso partecipativo popolare e dal basso, e ingabbiandola invece in “forme” e “limiti” (per dirla con la Costituzione Italiana) che segneranno la nascita della cosiddetta “democrazia rappresentativa”.
Da allora l’idea di libertà, così concepita, si è effettivamente radicata nella cultura (anche popolare) dell’occidente, divenendone un bene col senso di un valore effettivamente indisponibile e inviolabile, molto di più di quanto non sia avvenuto per l’idea di una effettiva partecipazione popolare e per la spinta verso la realizzazione di una qualche forma di uguaglianza sociale.
Tale situazione viene ormai perpetrata da quasi due secoli e mezzo con l’indiscusso prevalere del pensiero liberal-democratico, almeno nell’area occidentale, interrotto solo dalla brutalità della dittatura quando è stato necessario per preservare gli assetti di classe dell’ordine sociale. La conseguenza è stata quella di un continuo accentrarsi della ricchezza, e conseguentemente del potere reale e nominale, nelle mani di pochi, sia nell’ambito delle “cittadelle capitaliste”, sia a livello globale nella sperequazione tra Stati ricchi e Stati poveri del terzo mondo.
La situazione attuale è però anche il prodotto della incapacità, ormai storica, da parte della sinistra socialista e comunista, o di qualsivoglia altra ipotesi ugualitaria, di sapere coniugare l’idea di uguaglianza con una visione della libertà e “delle libertà” che sappia andare oltre l’etica individualista e la logica competitiva della visione antropologica oggi dominante.
Una visione dei diritti intesi come beni comuni, fondati su una concezione solidaristica partecipativa e comunitaria, e quindi inscindibili dall'obiettivo dell'uguaglianza sociale.
Una idea di libertà fondata sui principi di reciprocità e di responsabilità al posto di una logica puramente acquisitiva di autopromozione e di autoaffermazione.
Quella idea di libertà, che faceva dire a R. Luxemburg, in aperta polemica con il leninismo e con gli esiti della rivoluzione d’ottobre, che "la libertà è sempre la libertà dell'altro".
Tale incapacità della sinistra ha certamente una storia molto lunga, che affonda le sue radici fin dalle origini del pensiero socialista, che ha spesso liquidato la questione della libertà individuale come semplice “ideologia borghese”o libertà semplicemente “formale”, senza comprendere che un’altra idea di libertà era necessaria, perché le pratiche solidaristiche ed ugualitarie fondate su relazioni orizzontali dovevano necessariamente partire, non da input statalistici e centralizzati, ma dalla “naturale” propensione dell’individuo ad agire per libera scelta secondo coscienza e convinzione. Un capitolo importante di questa storia (e di questo fallimento) è dato, come tutti possono capire, dalle vicende del cosiddetto socialismo reale, dalla rivoluzione d’ottobre alle strettoie, secondo alcuni anche “criminali”, dello statalismo e della costruzione del “socialismo in un solo paese”. Mentre di converso quelle istanze libertarie, che a vario titolo e in vario modo, si sono prodotte, spesso anche con grande forza e impatto, lungo tutta la storia dei movimenti di lotta e di liberazione, non sono mai riuscite a trasformarsi in ipotesi strategiche vincenti.
Approfondire il tema della “libertà” e del suo difficile ma essenziale rapporto con “l’eguaglianza sociale” (e di conseguenza anche quello della compatibilità tra espressione della sovranità popolare e autonomia del cittadino) è oggi il problema centrale nella costruzione di una ipotesi politica e strategica di superamento della attuale società fondata sul comando di capitale.
In questo senso questo breve lavoro vuole essere solo una sorte di “premessa” o di “introduzione” ad una opera collettiva che è da venire.
Mi permetto qui di dare, a tale proposito, una sola possibile indicazione. Forse il limite storico della sinistra non sta soltanto nel travaglio nel comprendere il senso dei valori di libertà, ma probabilmente anche nel modo con cui è stata intesa la stessa idea di uguaglianza sociale. La suggestione mi viene da M. Walzer e dalla sua teoria della “eguaglianza complessa”, che, detto in estrema sintesi, è l’idea che l’uguaglianza non può essere il prodotto della semplice distribuzione di un bene dominante, come per esempio il denaro, ma della distribuzione di una complessità di “beni comuni”, ciascuno dei quali ha specifici modi di acquisizione e di fruibilità.
Non è qui il luogo per approfondire il pensiero del politologo americano, né questo è il nostro interesse specifico. Ciò che ci interessa, oltre e a prescindere da Walzer,è il valore semantico, propositivo e propulsivo, del concetto stesso di “uguaglianza complessa”, come possibile risposta di trasformazione rivoluzionaria nei confronti di un sistema sociale, nel quale lo stesso dominio di capitale si esprime attraverso una complessità di sistemi e ambiti di vita, tra loro interconnessi, ma ciascuno con proprie norme, procedure e specifiche finalità.
In questa situazione l’antagonismo sociale non può che essere pensato come la convergenza nella lotta di miriadi di diversità in movimento.
Ma ciò che mi pare veramente decisivo è che anche l’individuo, preso nella sua singolarità, è egli stesso un insieme complesso di appartenenze e di identità, che se non vengono vissute passivamente, aprono alla possibilità della libera scelta nella autodeterminazione di sé come soggetto politico.
La libertà è anche la scelta della propria “diversità”, tra tutte “le diversità possibili”, oltre ad essere la presa d’atto o la ribellione alla propria “diversità subita”.
La libertà è anche scelta dei modi attraverso i quali godere di ogni singolo bene per sé, ma anche di come sia possibile, se si vuole, impegnarsi, in un’ottica solidaristica, in un percorso per la migliore fruizione collettiva dei beni, o di un singolo bene.