lunedì 15 giugno 2020

UNA 'JAM SESSION' PER LE LOTTE

 - #ilmondocheverrà -  Respirare assieme, respirare liberi 

    il testo, frutto della discussione collettiva avviata il 9 aprile da “il mondo che verrà”, è uno spartito aperto il cui ritmo è stabilito da chi suona dal vivo nelle lotte a venire 

   Il virtuosismo che pretende è quello della combinazione, non dell’assolo 

   Dalle lotte di questi anni al programma \ 
 Dal programma alle lotte che verranno  


«I can’t breathe». Le ultime strazianti parole di George Floyd, barbaramente soffocato dalla polizia il 25 maggio scorso nella città di Minneapolis, sono lo slogan che anima il movimento anti-razzista più potente degli ultimi decenni. Negli Stati Uniti, indubbiamente, ma con una propagazione mondiale che senz’altro continuerà a stupirci. Parole che, al pari delle mobilitazioni radicalissime che stanno infiammando l’America di Trump, vanno oltre la semplice denuncia della violenza poliziesca. Non si respira in molti modi, nel pianeta travolto dalla pandemia, dal cambiamento climatico e dalla crisi economica più catastrofica dell’ultimo secolo. Negli Stati Uniti, gli afroamericani continuano a morire di razzismo: da mesi muoiono anche di COVID-19; da mesi, sono i più colpiti dal «cataclisma occupazionale» che ha investito il paese (40 milioni di disoccupati). I corpi neri, scuri e bianchi che stanno inondando le strade dal 25 maggio, con proteste esplose in quasi 200 città, vogliono respirare un altro mondo, e stanno già cominciando a costruirlo – moltiplicando spazi di intersezione tra pratiche, lotte e soggetti che vivono in forme diverse esperienze di dominazione e sfruttamento ma insorgono in una prospettiva comune.
Con quei corpi, con quelle voci, siamo tutte e tutti complici e solidali. Alle città degli US occupate dai manifestanti, al mondo che alza la testa e si ribella, si ispira il testo che state leggendo. La sua origine è situata: la pandemia che in Italia, subito dopo la Cina, si è tradotta in lockdown e oltre 30 mila morti. Nel tempo sospeso della quarantena di massa, abbiamo deciso di rompere la solitudine con un’assemblea telematica che ha visto la partecipazione di centinaia di donne e di uomini, giovani e meno giovani, con migliaia che guardavano la diretta online. Un evento, quello del 9 aprile scorso, così travolgente da pretendere un seguito. #ilmondocheverrà è stato ed è uno spazio di convergenza, refrattario a perimetri e identità consolidate; da subito ha ambito a elaborare un programma politico offensivo, capace di fare i conti con la svolta epocale che da febbraio l’intero pianeta sta vivendo a causa della pandemia.
Senza lotte, senza organizzazione delle lotte, nessun programma. L’indicazione di metodo è decisiva. E infatti non si è trattato, nei 4 atti che hanno seguito la prima assemblea del 9 aprile, di preparare l’abito elegante col quale stringere i soggetti che combattono. Le tracce del programma che leggerete, e che ricordiamolo è stato frutto di una intensa e partecipata discussione collettiva, vivevano già prima di COVID-19. Il lockdown, la chiusura delle frontiere e la crisi economica che di tutto ciò già è e sarà (da settembre ancora di più) effetto hanno reso esplosivi problemi che riguardano da tempo il nostro mondo violentato dalla globalizzazione neoliberale e dalla sua torsione autoritaria. Ci muove un senso di urgenza, la nostra temporalità è quella che riprendiamo dal movimento ecologista più radicale, che ci intima di agire ora. Crescita delle disuguaglianze e impoverimento, recrudescenza patriarcale e razzismo, privatizzazione del welfare e delle risorse naturali, saccheggio e devastazione dell’ambiente: fenomeni che conoscevamo bene, e che da anni stanno sollecitando le lotte del sindacalismo sociale, del movimento femminista transnazionale, di quello anti-razzista, di quello ecologista. Si trattava e si tratta, per questo il tentativo che segue, di conquistare uno spazio di intersezione, di convergenza tra tante/i e diverse/i – a partire da una solida base, e in particolare dalla forza con cui il movimento femminista e quello ecologista hanno materialmente definito un orizzonte programmatico (che facciamo nostro senza dedicare punti specifici a questi temi).
Ma il programma ovviamente è uno spartito. Di quelli il cui ritmo è stabilito – di volta in volta – da chi suona dal vivo. Materia utile per una jam session, insomma. Il virtuosismo che pretende è quello della combinazione, non dell’assolo. Dalle lotte di questi anni al programma, dal programma alle lotte che verranno. Ci è parso fin qui, e ci pare, che la discontinuità di questi mesi appena trascorsi, se per un verso aggrava il disastro neoliberale che sempre più si presenta con i volti autoritari di Trump e Bolsonaro, Modi e Putin, per l’altro renda possibile un ripensamento radicale della società. Di fronte al trauma che miliardi di donne e di uomini stanno vivendo in tutto il mondo, e noi con loro, la violenza capitalistica perde ogni velo, esibisce la sua brutalità, si presenta per quello che è: la catastrofe, quella vera. Un programma offensivo per le lotte a venire è un modo per ribadire che la normalità era il problema e solo un’alternativa al capitalismo può metterci in salvo. La ricchezza è comune, così il sapere, le istituzioni del welfare: comune non fa rima con scarsità e competizione, ma con uso, condivisione, felicità. Sì, battere la tristezza e la solitudine: ci servirà anche e soprattutto questo, nel mondo che verrà – che le lotte dovranno costruire.
In Italia abbiamo discusso. Nella consapevolezza, fin dal primo momento, che la conquista dello spazio politico europeo non è più rinviabile. L’Europa dei trattati non è mai stata e mai sarà la nostra. Gli Stati e la loro patetica ambizione sovrana sono nemici della democrazia e della libertà. Tra l’una e gli altri, c’è una prateria di lotte da far crescere: perché è in Europa che la ricchezza viene prodotta, in Europa che si impongono gerarchie ed esclusioni, tagli e impoverimento, moneta e lavoro. Contro l’Europa dei trattati, solo l’Europa dei movimenti sociali anticapitalisti potrà fare la differenza. Il movimento femminista, capace di estendersi in tutto il mondo, ha già materialmente chiarito come lo Stato sia legato a doppio filo alla logica patriarcale e non rappresenti certo un baluardo contro il neofascismo. Le strutture dello Stato possono certo essere valorizzate nella prospettiva della costruzione di politiche di welfare, ma a partire da una mobilitazione, da pratiche e da lotte che lo Stato non può pretendere di rappresentare e contenere. E la pressione migratoria contro confini e muri, nel coraggio e nella sofferenza, ogni giorno ci ricorda che la democrazia è una forma politica espansiva, o non è. Il Recovery Fund, per la prima volta dopo la crisi dei debiti sovrani e della Troika, introduce un bilancio comunitario: le risorse sono insufficienti e arriveranno tardi, vero; ma decidere dove farle atterrare, se nelle tasche corporation o a sostegno della riproduzione sociale della vita (cura, Sanità, Scuola e Università, riconversione ecologica ecc.), è la sfida che ora dobbiamo e possiamo porci.
Il COVID-19 non è più debole, la pandemia non è terminata. Non lo sarà fin quando non arriverà il vaccino, che al momento si presenta sotto il segno nefasto della competitiva corsa all’oro globale – in particolare tra USA e Cina. L’autunno europeo sarà forse simile a quello francese dello scorso anno, dei Gilet jaunes. Forse. Sicuramente drammatica sarà la crisi economica, con licenziamenti di massa e welfare impreparato. Il resto dipenderà dalle lotte, dalla loro capacità di convergere, su scala tanto locale quanto continentale e globale. Ora è il momento di riappropriarci dello spazio pubblico, per abitarlo e trasformarlo facendo tesoro del sapere della cura praticato nelle case durante il lockdown. Il programma che abbiamo scritto in tante e tanti, articolato attorno a sei assi tematici, da questo auspicio ha mosso i suoi passi. Per ricominciare a respirare, per farlo assieme, nel mondo che verrà.

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