-Global
Project-
Ma
come osa, questo capitalismo!
Milioni
di persone in piazza
nella settimana di mobilitazione globale per il clima
È
iniziata venerdì
20 settembre la settimana di mobilitazioni globali contro la crisi climatica
lanciata da Fridays For Future
In ogni angolo del mondo il
movimento ecologista per l’uscita dal carbon-fossile e la giustizia climatica
ha avuto migliaia e migliaia di adesioni
La forma scelta, quella dello
sciopero, segue il solco dell’iniziativa di Greta Thunberg, che un anno fa iniziava
a scioperare dai banchi di scuola ogni venerdì
Il
movimento di giovani che sta travolgendo tutto il mondo sembra da sei mesi a
questa parte inarrestabile, e nonostante il calo di copertura mediatica le
piazze rimandano un segnale molto chiaro: l’emergenza climatica è una realtà
con cui in molti e molte fanno già i conti, soprattutto nei Paesi del Sud
Globale. Sebbene nato in Svezia e diffusosi inizialmente soprattutto nei Paesi
anglofoni e in Europa, il terzo sciopero globale ha visto infatti un’enorme
diffusione anche in luoghi finora non raggiunti dal movimento: i quotidiani
dello scorso venerdì aprivano infatti con gli scatti delle mobilitazioni in
Afghanistan, Indonesia, Hong Kong, Nigeria e così via.
A
Kabul il corteo di alcune centinaia di giovani era aperto da 9 ragazze (vedi immagine) e
circondato da militari: la capitale afghana vive da anni uno stato di perenne
assedio a causa della guerra e dei continui attacchi talebani, ma nonostante la
paura i/le giovani che già da tempo si occupavano di ambiente hanno deciso di
aderire alla chiamata di Fridays For Future e attraversare il centro della
città. «Se è vero che la guerra può uccidere molti di noi, il cambiamento
climatico ci ucciderà tutti» sono le parole di Fardeen Barakzai, un giovane
attivista afghano. Oltre infatti al conflitto armato, Kabul è una delle città
con il più alto tasso d’inquinamento atmosferico al mondo, cui si aggiungono
gravissimi problemi di contaminazione delle acque. Ma c’è di più: l’Afghanistan
subisce già da tempo gli effetti dell’esasperazione dei fenomeni atmosferici
intensi, con il drastico alternarsi di fasi di siccità a pesanti alluvioni. Una
condizione drammatica, che Qais Murshid, un altro giovane portavoce di Fridays
For Future Afghanistan, riporta in questo modo all’Agenzia Fides: «L’anno
scorso abbiamo visto gente abbandonare le proprie zone di origine per la
mancanza di acqua, ma al tempo stesso, delle inondazioni hanno ucciso persone e
distrutto case e terreni agricoli».
Una
condizione comune, quella delle migrazioni forzate causate proprio dal
cambiamento climatico, a numerosi altri territori che aderiscono al movimento
di Fridays For Future individuando nel “climate justice” un claim che
appartiene a loro prima che a chiunque altro. La crisi sociale che si intreccia
inevitabilmente con il collasso ambientale accumula in layers ordinati strati
gerarchici di discriminazione che investono anzitutto le popolazioni più povere
del mondo, le minoranze, le donne: chiedere giustizia climatica significa
chiedere la fine di un regime di disuguaglianze alimentato dall’estrattivismo e
dall’iniqua appropriazione di ricchezze e natura “a buon mercato” da parte di
un’oligarchia economica e politica.
Ed
ecco che ragazzi e ragazze bengalesi, indiani, thailandesi, filippini,
pakistani, indonesiani hanno invaso la scena, occupando e bloccando piazze e
strade delle principali città dei propri Paesi chiedendo da un lato la
dichiarazione dell’emergenza climatica e dall’altro la risoluzione dei problemi
che sul piano locale si trovano a dover fronteggiare.
Si
sono fatte protagoniste anche le generazioni più giovani in numerosi Paesi
africani, dalla Nigeria, martoriata da anni di devastazioni a firma Eni e
Shell, al Sud Africa, in cui l’apertura di miniere e impianti a carbone ha reso
l’aria irrespirabile, provocando un severo aumento dei casi di malattie
respiratorie e andando a incidere sui fenomeni atmosferici a causa delle
elevatissime emissioni clima-alteranti.
Ancora
una volta, il claim è climate justice: il discorso ha superato qualsiasi
retorica della responsabilità individuale – se mai questa ha potuto attecchire
in quei territori devastati da multinazionali occidentali – per puntare dritto
al cuore della contraddizione capitalistica e far emergere i legami intrinseci
tra crisi climatica, modello produttivo-accumulativo, migrazioni forzate,
neocolonialismo, estrattivismo, infrastrutture.
Una
contraddizione che non sfugge, naturalmente, al movimento nelle sue
declinazioni europee e statunitensi, per cui la crisi climatica è hic et nunc e
la necessità più impellente è l’uscita dal carbon-fossile per l’elaborazione di
un modello di sviluppo radicalmente diverso. Un modello finalmente estraneo
all’estrazione e accumulazione di valore da qualsiasi aspetto del vivente: a
questo si riferisce anche la stessa Greta Thunberg quando di fronte al meeting
UN di New York, con la voce rotta dalla rabbia, attacca la sua platea: «Come
osate? Tutto ciò di cui parlate sono soldi e favole di eterna crescita
economica?».
La
familiarità con questa retorica, con il mito di un infinito sviluppo
sostenibile, ha inevitabilmente attecchito, sin dall’inizio della protesta
solitaria della sedicenne svedese, sui giovani e sulle giovani dei Paesi
“occidentali”, avvezzi a misurare in valuta finanziaria qualsiasi aspetto
dell’esistente. Forse per questo le piazze numericamente più rilevanti sono
quelle europee e statunitensi, giunte alla terza edizione dello sciopero
globale di Fridays For Future. In Germania, dove il movimento ecologista ha una
lunga tradizione e ha ricevuto nuova linfa, negli ultimi anni, dall’esperienza
di Ende Gelände, ci sono state 575 manifestazioni il 20 settembre, e lo stesso
giorno è arrivata notizia, da parte del governo, dello stanziamento di 54
miliardi di euro per la protezione del clima, destinati a crescere fino alla
soglia di 100 miliardi di investimento dopo il 2030. Una prima vittoria, che
supera i successi inglesi ottenuti da Extinction Rebellion nella settimana di
mobilitazione primaverile, quando la Camera dei Comuni britannica aveva
approvato la mozione laburista per la dichiarazione dell’emergenza climatica,
salvo stipulare un accordo non vincolante e destinato a rimanere, almeno
sinora, una nominale dichiarazione di buoni intenti utile a pulire con un colpo
di spugna la coscienza di governo e istituzioni.
Anche
in Inghilterra, dove gli ideali di Fridays For Future vengono portati avanti
dall’UK Student Climate Network, le piazze si sono riempite di studenti e
studentesse i cui radical claim superano in lungimiranza e progettualità le
dichiarazioni del laburista Corbyn, che non allarga il proprio orizzonte
rispetto agli accordi di Parigi.
Folle
oceaniche sono state anche quelle di Bruxelles, Atene, Amsterdam, Cracovia, ma
quelle forse più singolari sono state le piazze francesi e di Hong Kong, dove
la protesta climatica ha incontrato le rivendicazioni di altri soggetti: i
gilets jaunes e il movimento contro gli emendamenti cinesi in materia di
estradizione. In entrambi i casi, ciascuna delle due lotte ha dato adesione
alle proteste di Fridays For Future ottenendo, soprattutto in Francia, una vera
e propria convergenza delle lotte. Il caso francese è particolarmente
emblematico: sono passati pochi mesi da quando Macron, messo alle strette dai
gilet gialli, provava a cavalcare l’onda ecologista additando in Fridays For
Future il movimento per l’ambiente “dei buoni”, da contrapporre proprio alle
pratiche dei gilet gialli. L’atto 45, andato in scena lo scorso sabato 21, ha
costretto a una chiara ridefinizione della narrativa intorno al movimento,
anche per le violente cariche della polizia agli Champs Elysées e per gli
scontri durati fino a tarda notte: «la manifestazione per il clima di oggi
[sabato 21, ndr] è la prima al mondo ad essere stata aperta da un corteo
antagonista, di massa ed eterogeneo, partecipato anche dai gilet gialli e
caratterizzato da slogan esplicitamente anticapitalisti», così scrivono su Acta
i protagonisti di quella giornata.
Gli
appuntamenti, così numerosi, partecipati ed efficaci in ogni angolo del globo,
rendono il secondo appuntamento della settimana di mobilitazione, venerdì 27
settembre, un osservato speciale. L’Italia è uno dei pochi Paesi che ha scelto
di lanciare come data dello sciopero globale l’ultimo venerdì di settembre,
dando il via a una serie di azioni e iniziative di avvicinamento: venerdì 20
sono state decine le città in cui i presidi locali di Fridays For Future hanno
fatto azioni di varia natura. A Milano è stata occupata la sede della RAI e le
proteste sono continuate con il sanzionamento delle vetrine del marchio di
H&M, il cui impatto ambientale, unito allo scarsissimo rispetto delle
condizioni di lavoro dei dipendenti, si è reso immediato bersaglio della
protesta.
Resta
ora da vedere come si riempiranno le piazze italiane questo venerdì, anche se
l’adesione allo sciopero da parte di tutti i sindacati segna già una grande
vittoria del movimento, quella di aver tolto proprio a questi ultimi
l’esclusività di uno strumento che i nuovi
conflitti di classe stanno completamente ridisegnando.