Andrea Fumagalli
riduzione delle entrate fiscali taglio del finanziamento alla spesa pubblica statale deregolamentazione dei movimenti internazionali di capitale
L’articolo 53 della
Costituzione della Repubblica Italiana stabilisce che
“TUTTI SONO TENUTI A CONCORRERE ALLE SPESE PUBBLICHE IN RAGIONE DELLA
LORO CAPACITÀ CONTRIBUTIVA. IL SISTEMA TRIBUTARIO È INFORMATO A
CRITERI DI PROGRESSIVITÀ”
CRITERI DI PROGRESSIVITÀ”
La progressività
dell’imposizione fiscale è giustificata in base a criteri di equità,
soprattutto in presenza di un sistema universale di welfare e garantisce una
miglior e automatica redistribuzione del reddito: i più ricchi pagano in
proporzione di più potendo accedere gratuitamente ai servizi sociali di base
(istruzione, sanità, difesa, giustizia)
Al contrario, il sistema
si definirebbe proporzionale se esistesse un’unica aliquota fiscale per ogni
livello del reddito.
Il dettame
costituzionale ha trovato applicazione solo nel 1974, con la riforma Visentini,
dopo 27 anni dal varo della costituzione. Negli anni precedenti, quelli del
cosiddetto “miracolo economico”, la tassazione era applicata in base alla
condizione professionale dei contribuenti. I commercianti, gli agricoltori, i
liberi professionisti, gli imprenditori, i lavoratori dipendenti avevano un
sistema di tassazione diverso, esito della contrattazione con il sistema
politico, all’epoca il regime democristiano. Era evidente lo scambio
politico-economico che ne conseguiva, consentendo al partito di maggioranza di
godere dell’appoggio elettorale di buona parte del lavoro indipendente.
L’inesistenza di un
sistema fiscale progressivo ha impedito che il fisco svolgesse la funzione di
“stabilizzatore automatico”, ovvero di rendere fattivo quel principio secondo
cui negli anni di crescita economica la pressione fiscale (il rapporto tra
l’ammontare delle tasse e il Pil) è destinata a aumentare, e viceversa a
decrescere in caso di recessione.
Dal 1946 al 1971,
infatti, la pressione fiscale si è mantenuta più o meno costante, intorno al
25-26%, a fronte di una crescita media annua del Pil nominale del 6,7%. In
presenza di progressività, la pressione fiscale avrebbe dovuto invece aumentare
di almeno 10 punti percentuali, portando allo Stato italiano risorse aggiuntive
pari a poco più di 80 miliardi di euro (potere d’acquisto 2010). (dati ricavati
dalla serie storica della Banca d’Italia pubblicati dall’Istat).
Con la riforma Visentini
si sancisce il principio “liberale” che “tutti sono uguali di fronte al fisco”:
un unico sistema di aliquote progressive viene applicato, a prescindere dal
cespite di reddito di provenienza (se da lavoro, da impresa, da capitale, ecc.)
Al 1 gennaio 1974,
quando entra in vigore la riforma, si contano ben 22 aliquote di prelievo
fiscale sul reddito delle persone fisiche, con la più bassa al 10% e la più
alta che arrivava al 72%. Nel 1983, con il varo di una prima riforma fiscale,
la progressività viene ridimensionata: le aliquote diventano nove, con la più
bassa al 18% e la più elevata al 65%. In seguito sono stati introdotti
ulteriori cambiamenti, in generale tesi a ridurre il grado di progressività del
prelievo. Attualmente le aliquote di prelievo fiscale sono 5, con la più bassa
al 23% e la più alta fissata al 43% e l’esistenza di una no-tax area per
redditi inferiori a 8.174 euro l’anno. Nel dettaglio, gli scaglioni sono i
seguenti:
nessun aliquota fino a 8.174 euro di reddito da lavoro da pensione o da
dipendente (4.800 euro per i redditi da lavoro autonomo): no-tax area;
·
il 23% per lo scaglione di reddito compreso tra 8.174 e 15mila euro;
·
il 27% per lo scaglione di reddito compreso tra i 15mila e i 28mila euro;
·
il 38% per lo scaglione di reddito compreso tra i 28mila e i 55mila euro;
·
il 41% per lo scaglione di reddito compreso tra i 55mila e i 75mila euro;
·
il 43% per la parte di reddito che eccede i 75mila euro.
Risulta evidente da
questo schema che la progressività è stata via via limitata nel tempo e
contemporaneamente sono state innalzate le imposte sui redditi più bassi e
ridotte quelle sui redditi più alti.
Due sono le principali
motivazioni che hanno portato alla costante riduzione della progressività delle
aliquote.
La prima ha a che fare
con il processo di deregolamentazione dei movimenti internazionali di
capitale, che ha permesso ai percettori di redditi più elevati di stabilire
la propria residenza fiscale lì dove preferiscono e hanno convenienza e ha
quindi spinto i singoli Paesi a farsi concorrenza al ribasso sulle aliquote per
persuadere i contribuenti più ricchi a restare sul territorio nazionale. Si è
così sviluppato un dumping fiscale che oggi non rappresenta l’eccezione ma è la
noma all’interno della governamentalità neo-liberale.
Questa osservazione ci
porta alla seconda motivazione, la più reale anche se la più
misconosciuta: ridurre le entrate fiscali al fine di tagliare sempre
più il finanziamento alla spesa pubblica statale.
Tale obiettivo non
dichiarato è in continuità con le politiche di austerity. Se nel recente
passato il tetto alla spesa pubblica è stato dettato dall’emergenza crisi, oggi
viene giustificato dalla necessità di abbassare le tasse. Nell’ambito della
campagna politica per le elezioni europee è questo il nuovo mantra che tutti i
partiti ripetono sino alla noia. Ovviamente, la riduzione delle tasse – si
proclama e si promette – va a beneficio dei ceti meno abbienti, ma è proprio su
questo punto che la proposta della flat tax evidenzia tutto il suo inganno.
Per cogliere gli
aspetti redistributivi del sistema fiscale è necessario un’analisi complessiva,
partendo dal definire le tre grandi categorie che costituiscono le entrate fiscali:
1. le imposte dirette, che colpiscono una
manifestazione diretta della capacità contributiva come la percezione di un
reddito (Irpef, Ires, patrimoniali);
2. le imposte indirette che colpiscono una
manifestazione mediata della capacità contributiva come la produzione, il
trasferimento o il consumo dei beni (Iva);
3. i contributi sociali, che tassano i
redditi da lavoro e sono specificamente destinati al finanziamento delle
principali prestazioni del welfare (pensioni, ammortizzatori sociali).
La tendenza in atto in
tutta Europa e in Italia è un inasprimento dell’imposizione indiretta a scapito
della progressività dell’imposizione diretta. Dal 1973 a oggi l’Iva in Italia
passa dal 12 al 22%. Gli ultimi aumenti, in ordine di tempo, sono del 2011 e
del 2013, quando l’Iva è passata dal 20 al 22%. Nel luglio 2011, il
Governo Berlusconi IV, nel tentativo di risanare i conti pubblici e rassicurare
gli investitori internazionali, nonché per rispettare i vincoli di bilancio
derivanti dal Trattato di Maastricht, ha inserito nella manovra finanziaria di
luglio 2011 la cosiddetta clausola di salvaguardia. Essa prevede un
aumento automatico delle aliquote IVA (sino al 24,5% ) e delle
accise qualora il governo non sia in grado di reperire le risorse necessarie a
finanziare la manovra stessa. Da allora, le successive manovre di bilancio
devono indicare come intendono soddisfare i vincoli di bilancio (per esempio,
contraendo la spesa pubblica o aumentando le tasse). Insomma, se i vincoli di
bilancio vengono sforati, la clausola di salvaguardia scatta automaticamente,
aumentando aliquote IVA e accise.
Sulla base dei dati
Banca d’Italia negli ultimi anni il peso relativo dell’imposizione diretta,
indiretta e di contributi sociali è rimasta più o meno costante. Le prime due
hanno lo stesso peso (intorno al 34-35%), mentre l’apporto dei contributi
sociali è di circa il 30%.
Se la clausola di
salvaguardia viene disattesa, con il conseguente aumento dal 22% al 24,5%,
l’imposta sui consumi (Iva) diventa la principale imposta, ponendo fine con
successo a un inseguimento (nei confronti delle imposte dirette sul reddito)
che dura da più di 20 anni.
Occorre ricordare che
l’Iva è un’imposta proporzionale (flat tax), così come l’Ires (la tassa sui
profitti), che è stata progressivamente ridotta (era al 37% nel 1994) sino
all’attuale valore, fissato dal governo Renzi pari al 24%.
Considerando, inoltre,
che, con riferimento all’Irpef, le aliquote medie crescono dal 23% al 31% per
la fascia di reddito imponibile che va dai 13.000 euro ai 53.000 (dove si
colloca la quota maggiore dei contribuenti) e, a partire dai redditi superiori
ai 200.000 euro, l’aliquota media rimane stabile intorno al 42%, di fatto
possiamo affermare che l’attuale sistema fiscale è già ampiamente
caratterizzato più da proporzionalità che da progressività
A ben guardare, la
flat tax è quindi già operativa. Ciò che intende fare il governo (e in
particolar modo la Lega) non è dunque introdurre la flat tax ma ridurne l’aliquota
e estenderla anche ai redditi più bassi.
In tal modo si può
propagandare la riduzione dell’imposizione anche per i ceti meno abbienti, ma
nascondendo che i maggiori beneficiari saranno le famiglie più ricche, mentre
quelle che entrano nella fascia della no-tax area, ovvero le più povere, non
godranno di alcun beneficio. Si tratta di circa 10 milioni di persone. Per chi
si trova nella area no-tax, il rischio è infatti che tale area venga sostituita
da un flat-tax al 15%.
In realtà la riduzione
dell’imposizione per i ceti medio-bassi è tutta da verificare alla luce
dell’effetto sostituzione tra flat tax e le attuali detrazioni fiscali, che
rischiano di essere limitate per compensare la riduzione
dell’aliquota.
Alcuni studi
(vedi qui), considerando diversi possibili
scenari, concordano nell’evidenziare che: “La riduzione di gettito sarebbe di
circa 50 miliardi di euro. Metà circa di questo risparmio andrebbe al decimo
decile (il 10% più ricco, ndr.). Se
vogliamo identificare la “classe media” con i decili dal sesto all’ottavo, il
risparmio medio per queste famiglie sarebbe di circa 1.500 euro all’anno, 125
euro al mese per famiglia”.
Ecco allora svelati i
reali intendimenti dietro la demagogia del “meno tasse per tutti” (slogan che
ha sempre un certo appeal elettorale): ridurre il gettito fiscale per
smantellare ancor di più lo stato sociale e favorire un incremento
della concentrazione dei redditi a favore dei più ricchi.