Toni Negri
dal
punto di vista oggettivo, come
macchina del capitale
dal
punto di vista soggettivo, come
soggettivazione
capace di liberazione
Soggettivazione significa che, dentro la nuova forma
di organizzazione del lavoro,il lavoratore è soggettivato
sia perché la cooperazione è fatto sociale
di organizzazione del lavoro,il lavoratore è soggettivato
sia perché la cooperazione è fatto sociale
-pluralità in un insieme operativo-
sia perché il lavoro è diventato “immateriale”
-cognitivo, affettivo, terziario-
l'organizzazione del lavoro è innanzitutto
agencement (collegamento,
esercizio, dispositivo…)
di“produzione di soggettività”: laddove
per
“produzione di soggettività” s’intenda,
da un lato, produzione attraverso
“soggettivazione”
(e cioè l’attivazione delle qualità e delle conoscenze singolari del soggetto lavoratore) e, dall’altro, il continuo tentativo di
ridurre quest’ultimo, la sua singolarità, a “soggetto” comandato
4.1. Vediamo prima
di tutto che cos’è divenuto il lavoratore oggi. È colui che opera in una rete
immateriale della quale il padrone incrementa la produttività e dalla quale, al
tempo stesso, estrae plus-valore. D’altra parte però, questo lavoratore,
situato in una cooperazione lavorativa sempre più intensa, sviluppa una
capacità produttiva crescente ed afferma in maniera sempre più evidente questa
sua produttività cooperativa come potenza motrice del sistema produttivo.
Mi spiego: è dentro la cooperazione che il lavoro diventa sempre più “astratto”, e cioè sempre più espressivo del valore della produzione e sempre più centrale nella capacità di organizzare la produzione. Nello stesso tempo, tuttavia, questo insieme consolidato di “lavoro astratto” è sempre più pesantemente sottoposto a operazioni di estrazione del valore prodotto. Detto in altri termini: il lavoratore è da un lato sempre più posto nella condizione di creare cooperazione e quindi produttività, e dall’altro soffre, in misura sempre maggiore, l’estrazione da parte del capitale del valore prodotto; nel rapporto con il macchinario il lavoratore sviluppa in maniera sempre più autonoma l’istanza cooperativa, ma in tal modo organizza anche l’estrazione della propria energia produttiva.
Possiamo quindi parlare, anche ora, in una situazione di “sussunzione reale”, di una relativa “autonomia” del lavoratore, nel senso in cui potevamo parlarne dentro la fase della “sussunzione formale” del lavoro sotto il capitale? Quando l’artigiano, il lavoratore indipendente trovava una collocazione produttiva all’interno del sistema industriale, valorizzato dunque in questa diversità/interiorità? Ormai non più, perché il grado di autonomia del lavoratore post-industriale non riposa più semplicemente su una differente posizione nel ciclo produttivo, ma sulla sua partecipazione ai processi cooperativi del produrre. Questa posizione ha comunque una consistenza paradossalmente autonoma, anche se sottoposta al comando capitalista. Si determina qui una situazione nella quale una continua (nel tempo) ed estesa (nello spazio) iniziativa autonoma produttiva, un’invenzione collettiva e cooperante, vengono subordinate all’estrazione di valore da parte del capitale. È una vera mutazione quella che si sperimenta quando il rapporto tra processo lavorativo (in mano ai lavoratori) e processo capitalista di valorizzazione, da sempre formalmente separati, cominciano ad esserlo anche realmente, affidato il primo all’autonomia del lavoro vivo, il secondo al puro comando. Significa che il lavoro ha raggiunto un livello di dignità e di forza che è in contraddizione con la forma di valorizzazione che gli è imposta.
Per esempio: nelle prediche sull’efficacia “senza alternative” del potere del capitale che il “pensiero unico” dei padroni e dei socialdemocratici produce (there is no alternative) sentiamo sempre più frequentemente inneggiare al dominio dell’“algoritmo”. Ma che cos’è quest’algoritmo al quale si imputa oggi la padronanza sui processi informatici di valorizzazione capitalistica? Non è altro che una “macchina” che nasce dalla cooperazione dei lavoratori, dall’intellettualità logistica, e che il padrone impone sopra questa cooperazione, sopra appunto questa intellettualità massificata. L’algoritmo è la macchina padronale sull’intellettualità di massa. La grande differenza fra i processi lavorativi studiati da Marx e quelli attuali, consiste nel fatto che la cooperazione, oggi, non è più imposta dal padrone ma prodotta “dall’interno” della cooperazione della forza-lavoro; che il processo produttivo e le macchine non sono portate “dall’esterno” dal padrone ma sono “interiorizzate”, appropriate dai lavoratori. Noi possiamo propriamente parlare di “appropriazione di capitale fisso” da parte dei lavoratori e con ciò indicare un processo di costruzione dell’algoritmo conoscitivo, disposto alla valorizzazione del lavoro in ogni sua articolazione, capace di produrre linguaggi di cui diverrà il dominus. Questi linguaggi sono dunque stati creati dai lavoratori che ne posseggono la chiave e il motore cooperativo.
Mi spiego: è dentro la cooperazione che il lavoro diventa sempre più “astratto”, e cioè sempre più espressivo del valore della produzione e sempre più centrale nella capacità di organizzare la produzione. Nello stesso tempo, tuttavia, questo insieme consolidato di “lavoro astratto” è sempre più pesantemente sottoposto a operazioni di estrazione del valore prodotto. Detto in altri termini: il lavoratore è da un lato sempre più posto nella condizione di creare cooperazione e quindi produttività, e dall’altro soffre, in misura sempre maggiore, l’estrazione da parte del capitale del valore prodotto; nel rapporto con il macchinario il lavoratore sviluppa in maniera sempre più autonoma l’istanza cooperativa, ma in tal modo organizza anche l’estrazione della propria energia produttiva.
Possiamo quindi parlare, anche ora, in una situazione di “sussunzione reale”, di una relativa “autonomia” del lavoratore, nel senso in cui potevamo parlarne dentro la fase della “sussunzione formale” del lavoro sotto il capitale? Quando l’artigiano, il lavoratore indipendente trovava una collocazione produttiva all’interno del sistema industriale, valorizzato dunque in questa diversità/interiorità? Ormai non più, perché il grado di autonomia del lavoratore post-industriale non riposa più semplicemente su una differente posizione nel ciclo produttivo, ma sulla sua partecipazione ai processi cooperativi del produrre. Questa posizione ha comunque una consistenza paradossalmente autonoma, anche se sottoposta al comando capitalista. Si determina qui una situazione nella quale una continua (nel tempo) ed estesa (nello spazio) iniziativa autonoma produttiva, un’invenzione collettiva e cooperante, vengono subordinate all’estrazione di valore da parte del capitale. È una vera mutazione quella che si sperimenta quando il rapporto tra processo lavorativo (in mano ai lavoratori) e processo capitalista di valorizzazione, da sempre formalmente separati, cominciano ad esserlo anche realmente, affidato il primo all’autonomia del lavoro vivo, il secondo al puro comando. Significa che il lavoro ha raggiunto un livello di dignità e di forza che è in contraddizione con la forma di valorizzazione che gli è imposta.
Per esempio: nelle prediche sull’efficacia “senza alternative” del potere del capitale che il “pensiero unico” dei padroni e dei socialdemocratici produce (there is no alternative) sentiamo sempre più frequentemente inneggiare al dominio dell’“algoritmo”. Ma che cos’è quest’algoritmo al quale si imputa oggi la padronanza sui processi informatici di valorizzazione capitalistica? Non è altro che una “macchina” che nasce dalla cooperazione dei lavoratori, dall’intellettualità logistica, e che il padrone impone sopra questa cooperazione, sopra appunto questa intellettualità massificata. L’algoritmo è la macchina padronale sull’intellettualità di massa. La grande differenza fra i processi lavorativi studiati da Marx e quelli attuali, consiste nel fatto che la cooperazione, oggi, non è più imposta dal padrone ma prodotta “dall’interno” della cooperazione della forza-lavoro; che il processo produttivo e le macchine non sono portate “dall’esterno” dal padrone ma sono “interiorizzate”, appropriate dai lavoratori. Noi possiamo propriamente parlare di “appropriazione di capitale fisso” da parte dei lavoratori e con ciò indicare un processo di costruzione dell’algoritmo conoscitivo, disposto alla valorizzazione del lavoro in ogni sua articolazione, capace di produrre linguaggi di cui diverrà il dominus. Questi linguaggi sono dunque stati creati dai lavoratori che ne posseggono la chiave e il motore cooperativo.
[Sia
chiaro che qui non consideriamo la cooperazione lavorativa, la sua relativa
autonomia come qualcosa che possa trasformarsi immediatamente in
un soggetto, in un individuo collettivo, e tantomeno che la si possa
considerare come un soggetto bell’e fatto. Il passaggio dalla composizione
tecnica a quella politica è sempre discontinuo, imprevedibile, solo
storicamente determinato. Questo non significa che l’“individuo sociale” non si
formi, non sia lì. Quello che mi sembra fondamentale afferrare qui è che la
forza-lavoro possiede una dignità sempre più alta nello sviluppo capitalistico.
È fondamentale riproporlo in un’età di catastrofismi metafisici e maledizioni
politiche che assalgono la forza-lavoro e tanto più ne diminuiscono la potenza
e la dignità quanto più la individualizzano e l’assegnano ad un destino di
subordinazione.]
4.2. Se le cose
stanno così, è solo inseguendo l’astrazione progressiva dei processi lavorativi
che il comando capitalista riesce ad esercitarsi. Non a caso non parliamo più
semplicemente di sfruttamento legato alle dimensioni industriali
dell’organizzazione del lavoro ma di “sfruttamento estrattivo” della
cooperazione sociale. In questo tipo di valorizzazione, l’organizzazione
del lavoro è innanzitutto agencement (collegamento,
esercizio, dispositivo…) di “produzione di soggettività”: laddove per
“produzione di soggettività” s’intenda, da un lato, produzione attraverso
“soggettivazione” (e cioè l’attivazione delle qualità e delle conoscenze
singolari del soggetto lavoratore) e, dall’altro, il continuo tentativo di
ridurre quest’ultimo, la sua singolarità, a “soggetto” comandato. Soggettivazione significa
che, dentro la nuova forma di organizzazione del lavoro (cioè nella
“sussunzione reale” e attraverso l’operare biopolitico del produttore), il lavoratore è soggettivato sia,
in altissimo grado, perché la cooperazione è un fatto sociale, che prevede
dunque il comporsi di una pluralità in un insieme operativo; sia perché il
lavoro è diventato di più in più “immateriale”, significando con questo termine
che esso è cognitivo, affettivo, terziario, ecc. (è quindi espressione di una
singolarità creativa la cui potenza produttiva non può semplicemente integrare
una variante statistica della legge del valore). Estremizzando da par suo
questo processo, Marx dirà: “Capitale fisso è l’uomo stesso”. Un individuo
collettivo che ricompone il processo produttivo nelle sue stesse componenti.
In questa figura si presentano le diverse figure del lavoro vivo nella sua strutturazione post-industriale. E, badate bene, quando il capitale ha identificato quel nuovo ricco contesto nel quale il lavoro vivo si esprime e lo ha posto sotto il suo comando, ha agito in due sensi. Da un lato, ha articolato il suo comando alla vivente produzione di linguaggi; d’altro lato, ha operato attraverso la funzionalizzazione dei bisogni e dei desideri del lavoratore al comando capitalista. Il capitale (nel neoliberalismo) vorrebbe che la forza della soggettivazione produttiva si riconoscesse come soggetto del rapporto di capitale. Vorrebbe servitù volontaria. Vista da un punto di vista di classe, credo che questa contraddittoria esperienza costituisca un limite della valorizzazione capitalista.
In questa figura si presentano le diverse figure del lavoro vivo nella sua strutturazione post-industriale. E, badate bene, quando il capitale ha identificato quel nuovo ricco contesto nel quale il lavoro vivo si esprime e lo ha posto sotto il suo comando, ha agito in due sensi. Da un lato, ha articolato il suo comando alla vivente produzione di linguaggi; d’altro lato, ha operato attraverso la funzionalizzazione dei bisogni e dei desideri del lavoratore al comando capitalista. Il capitale (nel neoliberalismo) vorrebbe che la forza della soggettivazione produttiva si riconoscesse come soggetto del rapporto di capitale. Vorrebbe servitù volontaria. Vista da un punto di vista di classe, credo che questa contraddittoria esperienza costituisca un limite della valorizzazione capitalista.
4.3. Giunti a
questo punto possiamo con più chiarezza ripetere la questione: chi è, che cos’è
oggi l’Individuo Sociale?
Per rispondere possiamo seguire due vie, che corrispondono alla doppia posizione che l’individuo sociale ha nel rapporto di dominio oggi definito dal capitale. La prima via è quella che ci permette di considerare l’individuo sociale dal punto di vista oggettivo, come macchina del capitale. La seconda via ce lo presenterà invece dal punto di vista soggettivo, ossia come soggettività, come soggettivazione capace di liberazione.
Il discorso torna dunque al rapporto capitale/lavoro, capitale fisso/capitale variabile – ma situato in un periodo nel quale il carattere collettivo, cooperativo del processo produttivo, e la sua relativa autonomia, non sono più contestabili. Il capitale variabile ha quindi una figura collettiva, è costruito nella cooperazione e si definisce in termini cognitivi. Il punto di contraddizione – determinato dal rapporto antagonista di capitale –si instaura così sul terreno cognitivo. Gli economisti diranno sul terreno dell’“economia della conoscenza”. Su questo terreno si danno due ipotesi di ricerca. La prima, per così dire, esterna: la conoscenza, incorporata e mobilitata dal lavoro, è descritta all’interno della divisione tecnica e sociale del lavoro e dei meccanismi istituzionali che determinano un livello generale di Bildung (formazione, educazione) per l’intera classe lavoratrice. Una seconda opzione è invece, per così dire, interna: la conoscenza è incorporata dal capitale e in qualche modo si presenta come forma del “capitale fisso”. Ma questo suo apparire come capitale fisso è fortemente ambiguo. La forza-lavoro collettiva è infatti, da un lato, assorbita nella tecnologia e nella logistica del padrone (è cioè capitale variabile), ma d’altro lato – come abbiamo visto – ha la capacità di esprimersi in forme autonome e quindi di “appropriarsi il capitale fisso”.
Per rispondere possiamo seguire due vie, che corrispondono alla doppia posizione che l’individuo sociale ha nel rapporto di dominio oggi definito dal capitale. La prima via è quella che ci permette di considerare l’individuo sociale dal punto di vista oggettivo, come macchina del capitale. La seconda via ce lo presenterà invece dal punto di vista soggettivo, ossia come soggettività, come soggettivazione capace di liberazione.
Il discorso torna dunque al rapporto capitale/lavoro, capitale fisso/capitale variabile – ma situato in un periodo nel quale il carattere collettivo, cooperativo del processo produttivo, e la sua relativa autonomia, non sono più contestabili. Il capitale variabile ha quindi una figura collettiva, è costruito nella cooperazione e si definisce in termini cognitivi. Il punto di contraddizione – determinato dal rapporto antagonista di capitale –si instaura così sul terreno cognitivo. Gli economisti diranno sul terreno dell’“economia della conoscenza”. Su questo terreno si danno due ipotesi di ricerca. La prima, per così dire, esterna: la conoscenza, incorporata e mobilitata dal lavoro, è descritta all’interno della divisione tecnica e sociale del lavoro e dei meccanismi istituzionali che determinano un livello generale di Bildung (formazione, educazione) per l’intera classe lavoratrice. Una seconda opzione è invece, per così dire, interna: la conoscenza è incorporata dal capitale e in qualche modo si presenta come forma del “capitale fisso”. Ma questo suo apparire come capitale fisso è fortemente ambiguo. La forza-lavoro collettiva è infatti, da un lato, assorbita nella tecnologia e nella logistica del padrone (è cioè capitale variabile), ma d’altro lato – come abbiamo visto – ha la capacità di esprimersi in forme autonome e quindi di “appropriarsi il capitale fisso”.
4.3.1. È importante
innanzitutto insistere sulla relazione esterna:
è qui in particolare che si determinano le condizioni sociali della
cooperazione produttiva e le produzioni collettive del Welfare State. Qui
si sviluppano quei modi della “produzione dell’uomo per l’uomo” che
costituiscono la polarità della forza-lavoro nel rapporto con il capitale, e
che configurano e difendono la relativa autonomia del capitale variabile
(nonché l’autonomia del lavoro vivo). Su questa dimensione, l’economia della
conoscenza che nasce dall’incontro dell’intelligenza collettiva, dallo sviluppo
delle istituzioni del welfare e
infine dalle istituzioni tecniche della rivoluzione digitale (se affrontate da
un punto di vista critico), mostra una vigorosa forza vitale. E questa dinamica
entra in contraddizione diretta con la logica del capitalismo cognitivo fondata
su mercificazione, proprietà e corporatization del
sapere. Questa linea di relazione esterna fra
capitale e lavoro cognitivo è davvero fondamentale. A dimostrazione della sua
importanza devono essere sottolineate le forme nelle quali il funzionamento del Welfare costituisce
un enorme spazio di produzione di sapere e un contropotere reale.
Carlo Vercellone ha insistito molto su queste figure.
4.3.2. Questa
sottolineatura apre ad evidenziare l’altra linea, quella che abbiamo chiamato interna e così
ad analizzare e ad assumere come figura protagonista, oltre gli effetti dello
scontro fra capitale costante e capitale variabile sul terreno sociale, l’appropriazione di capitale
fisso da parte dei lavoratori, da parte cioè del lavoro vivo.
Questa determinazione assume sempre più importanza nella misura nella quale il modo di produzione capitalista incrocia il lavoro vivo nella sua forma cognitiva. Lo incrocia: e cioè lo sfrutta, ne estrae valore, cerca di appropriarselo ma allo stesso tempo si scontra con esso, con la sua relativa autonomia. “Si ode il fragore della battaglia”, diceva qualcuno che quest’incrocio ha studiato. Se il lavoro vivo cognitivo, disteso e diffuso sul terreno biopolitico, diventa allora la forza che contrasta l’accumulazione capitalista (è quello che abbiamo chiamato lo scenario esterno), è anche vero che il capitale costante in questo scontro si flessibilizza e si diluisce sempre di più sul terreno sociale produttivo e si scontra con le prestazioni singolari dei soggetti produttivi, con l’autovalorizzazione del lavoro vivo. Su questo terreno, dove cioè il capitale costante sembra flessibilizzarsi nello scontro con il lavoro vivo, dove la forza produttiva del capitale sembra cedere alla potenza del lavoro vivo (capitale variabile), la via interna dell’appropriazione di capitale fisso da parte del lavoro vivo diviene sempre più centrale e consistente.
Questa determinazione assume sempre più importanza nella misura nella quale il modo di produzione capitalista incrocia il lavoro vivo nella sua forma cognitiva. Lo incrocia: e cioè lo sfrutta, ne estrae valore, cerca di appropriarselo ma allo stesso tempo si scontra con esso, con la sua relativa autonomia. “Si ode il fragore della battaglia”, diceva qualcuno che quest’incrocio ha studiato. Se il lavoro vivo cognitivo, disteso e diffuso sul terreno biopolitico, diventa allora la forza che contrasta l’accumulazione capitalista (è quello che abbiamo chiamato lo scenario esterno), è anche vero che il capitale costante in questo scontro si flessibilizza e si diluisce sempre di più sul terreno sociale produttivo e si scontra con le prestazioni singolari dei soggetti produttivi, con l’autovalorizzazione del lavoro vivo. Su questo terreno, dove cioè il capitale costante sembra flessibilizzarsi nello scontro con il lavoro vivo, dove la forza produttiva del capitale sembra cedere alla potenza del lavoro vivo (capitale variabile), la via interna dell’appropriazione di capitale fisso da parte del lavoro vivo diviene sempre più centrale e consistente.