giovedì 12 luglio 2018

interviste\ LA LOGISTICA NEL CAPITALISMO GLOBALE

-n. cuppini/m. frapporti-

DIALOGO CON GIORGIO GRAPPI, BRETT NEILSON E NED ROSSITER


la logistica è fuoriuscita dall’ambito prettamente ingegneristico o manageriale entro cui era racchiusa fino a qualche anno fa, presentando una inedita e produttiva prospettiva utile alla comprensione del presente politico globale



Ci piacerebbe iniziare con una panoramica generale sul perché per voi la logistica rappresenta oggi un punto di vista attraverso il quale è possibile analizzare le dinamiche del capitalismo globale. In altre parole: perché la logistica è stata per voi e per le vostre ricerche un tema e una prospettiva importante?

Rossiter: È spesso difficile spiegare e catturare il senso delle massicce trasformazioni avvenute nel mondo negli ultimi venti/quarant’anni, trasformazioni impresse dalla forza della globalizzazione oltre a un livello meramente esperienziale. Come è possibile rendere concreta l’intensa astrazione della globalizzazione? È un punto sul quale continuano a misurarsi molte discipline, noi inclusi. Non siamo mai stati particolarmente entusiasti di percorrere in solitaria il mondo della produzione teorica, e come soggetto di studio la logistica ci permette di ricercare un modello di produzione del sapere attraverso un modello più socialmente espansivo. Uno studio critico della logistica ci fornisce un qualcosa di tangibile con cui è possibile registrare il cambiamento a differenti scalarità. La nostra ricerca collettiva negli ultimi anni ci ha permesso di concretizzare un’idea di come i sistemi tecnici, i software di management e le infrastrutture delle supply chain governino il lavoro e la vita all’interno di economie estrattive. Abbiamo inoltre rilevato come la logistica costituisca un nuovo orizzonte del controllo utilizzando tecniche di governance algoritmica che si manifesta in un variegato spettro di assetti istituzionali, inclusa l’università. Sebbene il lavoro nei porti o nei magazzini possa apparire agli antipodi rispetto alla routine nelle università, i sistemi di software utilizzati nella gestione del lavoro di supply chain rendono chiara un’architettura di relazioni che in realtà connette settori industriali e istituzionali distinti. In altre parole la logistica ci racconta qualcosa di non così ovvio anche rispetto alle università.

Neilson: A mio avviso, la logistica offre una peculiare angolatura analitica sul capitalismo contemporaneo e risulta dunque molto importante domandarci se questo consenta un’analisi differente rispetto all’adozione di altre prospettive. Se guardiamo alla finanza, ad esempio, notiamo che il coordinamento e il controllo dei canali del capitale avviene attraverso processi di calcolo estremamente astratti ma che hanno potenti effetti materiali sui territori. Se invece guardiamo ai processi estrattivi possiamo osservare come le operazioni del capitale si sviluppano nelle relazioni di scambio e impoverimento che riguardano il pianeta Terra, l’intera biosfera e differenti tipologie di collettività umane. Io penso che la logistica fornisca un’angolatura privilegiata sulla circolazione del capitalismo contemporaneo, garantendoci dunque di tracciare le variazioni nei modelli produttivi attraverso e oltre la vecchia questione della globalizzazione sollevata da Ned. Possiamo approcciare la questione attraverso la prospettiva tecnica o con quella dei software, ma un altro sguardo possibile che dobbiamo considerare è quello della soggettività rispetto alla logistica. Dobbiamo porci una questione irrisolta, domandandoci: «la logistica tenta di aggirare la soggettività, o piuttosto produce una sua specifica forma di soggettività?».

Grappi: Ciò che per me è stato interessante nel lavorare sulla logistica è prima di tutto che in qualche modo essa impone di riportare l’elaborazione teorica sulla globalizzazione e sul capitalismo alla sua dimensione concreta e materiale. Se a livello basilare la logistica attiene al campo della circolazione, essa tuttavia ha un rilievo anche rispetto a come la produzione viene continuamente organizzata e riorganizzata, inclusa la linea di produzione. Per me che sono in qualche modo arrivato «tardi» sul tema, dopo aver studiato le prospettive postcoloniali sulla globalizzazione, la logistica rappresenta un metodo per confrontarsi con ciò che potremmo chiamare una sorta di dimensione costituzionale della globalizzazione e una via per osservare e connettere assieme differenti tipologie di processi, dai più semplici e materiali livelli della produzione al ruolo delle tecnologie informazionali. In secondo luogo la logistica è anche una logica politica di frammentazione e comando che si espande ben oltre questi terreni, permeando le società contemporanee. Per me confrontarsi con questo doppio volto della logistica è anche un modo per ripensare cosa possa essere una critica dell’economia politica del globale nel presente. Ciò impone di andare oltre le risposte pre-confezionate per comprendere gli attuali processi in atto, e ci forza a pensare congiuntamente la dimensione economica e quella politica del capitalismo contemporaneo.

Proviamo a concentrarci un attimo su un punto di vista storico. Tutti voi affermate che la logistica ha una lunga storia. Tuttavia molti libri e molti autori affermano che, nonostante ciò, la logistica continua ad essere una sorta di «scatola nera». Per voi per quale motivo ciò avviene? E ritenete che strutturare un approccio genealogico alla logistica possa permettere di illuminare questa «scatola nera»?

Neilson: Solitamente si afferma che la logistica ha una storia militare e che si è riversata anche in ambito civile solo nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. In prima battuta la metafora della «scatola nera» forse riflette dei sentimenti di paranoia rispetto al militare, alla segretezza che circonda i codici militari ecc… Penso che una delle ragioni per cui la metafora della «scatola nera» risulta così diffusa sia legata con il training di persone come noi, che siamo interessati alla logistica per i motivi cui abbiamo accennato nelle precedenti risposte. Noi chiaramente non puntiamo a comprendere i dettagli tecnici di come operano gli algoritmi logistici o i complessi metodi di coordinamento degli impiegati della logistica. La metafora della scatola nera è spesso un modo per descrivere le nostre scarse conoscenze su questi processi. Al contrario, la metafora dell’«aprire la scatola nera» è molto retorica perché non significa che possiamo e finanche vogliamo comprendere le tecniche, le tecnologie e i codici che fanno funzionare la logistica. Indica semplicemente che tutti questi fattori sono importanti. Non sono molto d’accordo con il ricorso a questa metafora perché consente di proiettare fantasie e paranoie all’interno della nostra analisi. Credo che come ricercatori critici interessati alla logistica abbiamo il compito di iniziare a comprendere questi processi non a partire dalle ragioni tecniche, ma da quelle politiche.

Rossiter: Per tutte le lacune conoscitive che possiamo avere rispetto alle operazioni tecniche relative ai sistemi di software e all’ingegneristica che sottendono la formazione delle infrastrutture per lo sviluppo dei terminal intermodali, dei porti ecc…, è possibile comunque affermare una cosa rispetto alla «scatola nera»: che tutte quelle cose sono costitutive e producono in maniera concreta. E producono cose che non possono essere contenute all’interno della «scatola nera». In questo senso la scatola nera rende possibile un mondo che può essere indagato, che è disponibile a una esternalità, e la vita quotidiana delle persone viene trasformata in modi che non sono riducibili alla logica parametrica della «scatola nera». In questo senso possiamo anche parlare di una politica parametrica.

Grappi: Vorrei solo aggiungere che l’idea di aprire la «scatola nera» suggerisce che sia necessario per la teoria politica comprendere la dimensione politica di cose che vengono supposte come tecniche. Possiamo pensare al ruolo della burocrazia o dell’amministrazione di uno Stato e formulare una sorta di parallelismo per sostenere che nel funzionamento del capitale le procedure tecniche, le infrastrutture, i metodi di misura hanno una dimensione costitutivamente politica che dobbiamo riconoscere e comprendere. Sono d’accordo con Brett, l’idea che ci sia un qualcosa che sta impattando sulle nostre vite e che avviene al di là del nostro sguardo è una trappola teorica e dobbiamo dunque superare l’idea della «scatola nera» per aggiornare la nostra capacità di pensare «i segreti laboratori della produzione», per riprendere l’espressione marxiana: piuttosto che evocare una sorta di forza oscura, abbiamo bisogno di giusti strumenti critici per sviluppare una comprensione politica di come funzionano gli oggetti tecnici e le procedure di cui stiamo parlando. Questo vale anche rispetto al riconoscere che ciò che viene usualmente nominato come dimensione immateriale, rispetto al software e alle tecnologie informazionali, è in effetti intimamente integrato in processi estremamente concreti che determinano le nostre vite e i modi in cui si scontrano capitale e lavoro oggi.

L’ultima domanda è legata a quello cui accennava ora Giorgio rispetto a quella che potremmo definire come la «politica della logistica» e al fatto che di solito la logistica propone un’immagine di sé che tende a depoliticizzare tutti i suoi aspetti in quanto ambiti tecnici. Sappiamo tuttavia che negli ultimi anni sono emerse in tutto il mondo nuove forme di «soggettivazione» all’interno del settore logistico. Più in generale crediamo che oggi la logistica delinei un campo di tensione. I suoi processi sono continuamente contestati, e facciamo riferimento anche al tema delle infrastrutture nonché ai loro possibili usi differenti. Vorremmo dunque chiedervi qualche considerazione sul tema logistica e contrologistica, sulla politica della logistica…

Rossiter: È una domanda difficile perché la contrologistica può anche rafforzare la logistica, il sistema dominante del controllo e della governance oggi. Se la logistica opera come sistema cibernetico che incorpora la contingenza, non è allora la contrologistica solo un’altra esternalità che può essere incorporata e quindi svuotata del proprio potenziale politico? Come operare logisticamente all’interno della logistica è ciò che stanno ponendo in molti come tema. Come poter intervenire concretamente è davvero una domanda difficile, che non può che essere sempre circostanziata e situata anche perché l’immagine o la fantasia della logistica è quella di una interoperabilità universale, mentre sappiamo che ci sono molti modi e istanze nei quali l’interoperabilità può essere rotta. Quindi come intervenire nella logistica diviene anche una questione di come produrre forme di anonimato che turbano, se non proprio rifiutano, l’incorporazione o l’espropriazione all’interno dei sistemi di valorizzazione. Una delle cose che vediamo è inoltre che il capitalismo logistico ha ovviamente dei limiti. In questo senso le infrastrutture divengono continuamente ridondanti, superate dagli sviluppi tecnologici, dalle diverse innovazioni e dalla logica dell’obsolescenza delle merci. Il pianeta e anche lo spazio che lo circonda sono popolati da infrastrutture obsolete: spazzatura. Una contrologistica dovrebbe dunque domandarsi se sia possibile riusare queste machine per produrre differenti soggettività, differenti immaginari estetici, differenti tipi di possibilità che non siano regolate dall’accumulazione del capitale. In proposito vedo anche una politica dell’obsolescenza e dell’esaurimento.

Neilson: Il modo classico per porre la questione è relativa a ciò che i sindacalisti a volte chiamano «posizione strategica». I lavoratori della logistica hanno una posizione strategica all’interno delle supply chain perché le loro azioni possono avere effetti di rallentamento o blocco a cascata che si diffondono lungo tutta la catena. Ma la logistica dispone anche di mezzi estremamente sofisticati per bypassare tali azioni o interruzioni, indipendentemente che si tratti di scioperi dei lavoratori o di tempeste (solo per fare due esempi). Si potrebbe anche riformulare la domanda se si pensa al cosiddetto capitalismo logistico e alla maniera in cui esso posiziona i soggetti. Penso al modo in cui Stefano Harney e Fred Moten hanno descritto la jaywalking (il crimine di attraversamento illegale della strada) che ha fatto da scintilla per i riot di Ferguson. Per loro il jaywalking è un modo di ribellione attiva contro il capitalismo logistico. In questa istanza, non c’è la forma politica dello sciopero ma quella del riot. Ci sono molti dibattiti su come queste due modalità di azione politica possono interrompersi a vicenda. Il tema della logistica e della contrologistica deve assolutamente considerare la questione della soggettività, ma penso che limiteremmo l’analisi se collocassimo queste soggettività unicamente all’interno della forza-lavoro logistica, perché la logistica ha anche molte implicazioni nel come pensiamo al capitalismo oltre alla sfera della produzione in senso stretto.

Grappi: Credo sia importante comprendere e pensare la logistica «oltre» la logistica nel senso ristretto dell’industria logistica, che è solo una parte di ciò che significa la logistica. Allo stesso tempo bisogna pensare alla circolazione assieme alle altre dimensioni che sono impattate dalla logistica. Ho l’impressione che i discorsi sulla contrologistica producano ciò cui ha appena accennato Brett, conducendo all’idea che un piccolo gruppo di persone capace di bloccare un flusso di merci o una linea di trasporto abbia un potere gigante, e che dunque non sia necessario pensare a fondo cosa significa organizzarsi politicamente in queste circostanze, ma che appunto basti effettuare dei blocchi in qualche punto. Io penso invece che sia necessaria una miglior comprensione della logistica anche per pensare seriamente cosa possa significare una contrologistica o, per dirla meglio, cosa possa significare agire politicamente nei «mondi logistici», per richiamare il nome di un progetto nel quale abbiamo lavorato tutti e tre. Per fare solo un esempio, se pensiamo a come lavora una supply chain abbiamo differenti opzioni. Possiamo focalizzarci su specifiche supply chain, e ciò produce modelli di organizzazione e azione sindacale che provano a comprendere e ad agire in quella specifica catena industriale. Ma possiamo anche pensare a come una supply chain e più in generale la logistica sia capace di avvantaggiarsi delle differenze e degli squilibri tra differenti condizioni locali, e perfino a livello locale come condizioni che sono molto differenti e frammentate (dalle quelle formalizzate e standardizzate fino ai livelli più informali dell’economia) sono incluse negli stessi processi. Questo apre a un intero spettro di differenti questioni politiche che andrebbero esplorate più in profondità. Per me pensare alla politica in relazione alla logistica è una sfida, e pensare a cosa possa significare un’infrastruttura politica di fronte alla logistica è una questione cruciale, che in qualche modo riporta in auge il tema del partito: cosa significa oggi organizzarsi per poter effettivamente incidere.