martedì 17 luglio 2018

scie \QUALE SALTO OLTRE L’APOCALISSE


-franco «bifo» berardi-

SARÀ CAPACE LA GENERAZIONE IPERCONNESSA DI PRODURRE COSCIENZA COLLETTIVA?

Secondo il punto di vista di Bifo quella della resistenza è solo una inutile retorica, giacché il fenomeno del razzismo va oltre la dimensione di una destra minoritaria e aggressiva: “abbiamo a che fare con un fenomeno di razzismo di massa”


La resa dei conti con l’eredità del colonialismo
Una lettura evoluzionista di Marx – e non la lettura politico-volontarista che ha prevalso nella tradizione leninista, o quella legal-razionalista che ha prevalso nella tradizione socialdemocratica – permette di comprendere quello che sta succedendo e forse anche di intravedere una strategia che ci permetta di intuire come si esce da un’apocalisse a questo punto inevitabile. La prima considerazione, è che la mano invisibile del Capitale neoliberale si incarna nel nazismo, e che non c’è affatto opposizione tra nazismo e liberismo. Al contrario: è il liberismo che ha prodotto le condizioni del social-nazionalismo e dello sterminio di massa che esso porta inevitabilmente con sé.
In uno scritto del 1962, Günther Anders formula l’agghiacciante ipotesi che il Nazismo del XX secolo non è stato che un esperimento: una prova generale in qualche teatro di provincia, in preparazione della vera rappresentazione destinata ad avvenire in un futuro tecnologicamente perfezionato. Quel futuro è adesso.
Inoltre lo stesso Anders definisce l’essenza del nazismo come disumanità che non ha più bisogno della mano umana per compiersi, come automatismo tecnico del disumano. Auschwitz e Hiroshima sono stati per Anders l’annuncio del nazismo a venire. Siamo cresciuti credendo che il nazismo fosse scomparso con Hitler, ma ci sbagliavamo: il nazismo pienamente sviluppato è quello dell’automazione del disumano, che segue alla sconfitta dell’internazionalismo.
La politica di respingimento – unico comun denominatore di tutti i governi europei senza differenza sostanziale tra quelli che sono ancora definibili come «liberal-democratici» e quelli che sono entrati nella fase apertamente social-nazionalista – non è un fenomeno politico congiunturale, ma una reazione profonda che va letta entro un contesto evolutivo di lungo periodo. In questo senso, i discorsini mielosi dei «democratici umanitari» lasciano il tempo che trovano perché sono fondati su valutazioni di corto periodo e perché nascondono una sostanziale ipocrisia. Lo stanziamento provvisorio o definitivo dei migranti che sono giunti in Europa negli ultimi vent’anni è pesato interamente sulle aree urbane povere e sui ceti sociali più disagiati.
Inoltre: è vero che il sistema previdenziale italiano può reggersi soltanto grazie all’apporto dei lavoratori migranti, ed è vero che un certo quantitativo di migranti è indispensabile per l’equilibrio economico di paesi demograficamente declinanti. Ma noi dobbiamo affrontare una prospettiva più lunga: quella di una migrazione prolungata e massiccia, provocata dal collasso dell’ecologia di intere aree africane, e dal caos politico provocato dalle guerre che sconvolgono aree crescenti del continente euroasiatico.
Siamo entrati in un processo di riequilibrio demografico planetario che non può essere gestito con gli strumenti della politica democratica. E infatti la democrazia sta crollando ovunque per lasciare il passo alla violenza del razzismo e alla guerra. Al di là delle politiche di sterminio che il governo di Salvini sta applicando nel Mediterraneo, quale strategia si sta delineando per il prossimo futuro?
Il disegno di Salvini è quello di ricostituire condizioni di controllo militare del territorio africano da cui la migrazione deriva. Quanto agli investimenti economici nel territorio africano, sarebbe ingenuo credere che questi abbiano un carattere benevolo. Gli investimenti europei non hanno mai smesso di sfruttare lavoro a basso costo e territori ricchissimi di materie prime. Si tratta di un progetto colonialista classico di sfruttamento economico e di intervento militare nel cuore dell’Africa, che ben presto porterà a una serie di conflitti intereuropei per la spartizione del continente. La Cina segue con attenzione questo processo, e non possiamo escludere che nel medio periodo il continente africano diventi il territorio di una guerra sinoeuropea o addirittura intereuropea (si veda a tal proposito questo interessante documento neocolonialista di Francesco Sisci, che interpreta con intelligenza il punto di vista cinese).
Mi fa orrore dire quello che sto dicendo, ma l’orrore non sta nelle mie parole bensì nella realtà che esse descrivono: l’Olocausto del secolo passato rischia di impallidire di fronte alle proporzioni dell’Olocausto che è già iniziato nel Mediterraneo e che rischia di estendersi e prolungarsi negli anni che verranno. E non dovremmo illuderci che l’orrore possa essere confinato al territorio oltremare: il terrorismo islamico del primo decennio del secolo è stato solo l’annuncio del terrorismo di nuova generazione che colpirà le metropoli europee nel corso della guerra coloniale che stiamo avviando, come prevede Zbigniew Brzezinski nel saggio Toward a Global Realignment.
Per ricostruire la genealogia della situazione in cui ci troviamo oggi, dobbiamo risalire ai cinque secoli di colonialismo e di terrore bianco contro le popolazioni del pianeta. L’internazionalismo fu un tentativo di affrontare quell’eredità in modo consapevole e strategicamente solidale, attraverso una redistribuzione egualitaria delle risorse e attraverso una restituzione di quello che lo schiavismo e lo sfruttamento coloniale hanno sottratto ai popoli del sud del mondo. Ma l’eclisse della prospettiva comunista ha aperto le porte di un inferno nel quale tutti rischiamo di sprofondare. A meno che…
A meno che cosa?

Evoluzione e coscienza etica
A questo punto il Marx evoluzionista che abbiamo deciso di adottare ci suggerisce due cose: la prima è che non ci sarà resistenza politica o militare contro il nazismo, perché la guerra contro il caos è solo uno strumento del caos, e anche perché il potere attuale non è fondato sulla volontà politica, ma su una catena di automatismi tecno-linguistici che vanno smantellati linguisticamente e tecnicamente.
La seconda è che solo una forza più grande e più adatta a sopravvivere potrà sconfiggere e rovesciare il nazismo tecnologizzato: e quella forza è la coscienza dell’intelletto generale.
Non c’è dubbio sul fatto che l’intelletto generale (milioni di lavoratori cognitivi nella rete) è più grande e più forte del sistema tecnocapitalista, dal momento che soltanto l’intelletto generale può generare, produrre e gestire giorno dopo giorno quel sistema.  Ma le condizioni politiche entro cui questo accade non sono state decise dall’intelletto generale, che anzi è costretto a subirne le conseguenze nelle forme di esistenza (materiale e soprattutto psichica) dei soggetti cognitivi. Soltanto l’azione consapevole e coordinata dei lavoratori cognitivi può dunque decostruire e riprogrammare l’automa tecnico che produce miseria, alienazione e infine guerra. Ma il punto è questo: può il lavoro cognitivo esprimere quella coscienza collettiva che, sola, può permettergli di organizzarsi autonomamente, cioè di esercitare la sua funzione di creazione continua del mondo al di fuori del comando capitalistico e della funzione profitto?
Recentemente la mia attenzione è stata catturata da un evento che si è verificato negli uffici della Google corporation. Quattromila dipendenti della più potente centrale della net-economica globale hanno firmato una lettera di protesta contro la decisione dell’azienda di collaborare con il Pentagono alla dotazione di intelligenza artificiale per i droni da combattimento. Dopo alcuni mesi di discussione, Google ha deciso di rinunciare all’accordo con il Pentagono che rappresentava un grosso affare sul piano economico, ma rischiava di aprire un conflitto di lungo periodo con i suoi lavoratori e di rovinare l’immagine di un’azienda che si vanta di fare soltanto del bene.
Questo episodio mi è parso segnalare una cosa importantissima: esiste la possibilità di una fuoriuscita dall’inferno in cui il neoliberismo prima e il social-nazionalismo adesso ci hanno proiettato. Sta nelle mani e nelle teste di alcuni milioni di lavoratori cognitivi che posseggono la potenza di bloccare, sabotare, smantellare gli automatismi tecnici che muovono la macchina globale. E posseggono anche la potenza per riprogrammare la macchina globale producendo automatismi tecnici guidati da un principio di sobrietà, di uguaglianza e di pace.
Ma quella possibilità non è affatto a portata di mano: perché la soggettività che ne possiede la chiave è al momento socialmente frammentata, psichicamente fragile e incapace di solidarietà. Quattromila persone che lavorano per Google hanno firmato una lettera di protesta contro la subordinazione del loro lavoro a un’azienda militare, certo; ma gli altri settantaseimila dipendenti dell’azienda, quella lettera non l’hanno firmata. Solo un risveglio della coscienza etica di alcuni milioni di lavoratori cognitivi sparsi nel mondo ma connessi nella rete può attualizzare la possibilità. 
DOBBIAMO CHIEDERCI SE I LAVORATORI COGNITIVI
DELLA GENERAZIONE IPERCONNESSA
SONO IN GRADO DI ESPRIMERE COSCIENZA
 E PARTICOLARMENTE COSCIENZA COLLETTIVA
L’evoluzione è un processo che si svolge secondo linee che sono essenzialmente indipendenti dalla volontà umana; ma nella sfera umana la coscienza ha una funzione evolutiva importante. La coscienza non è un effetto della volontà, bensì una funzione interna al processo cognitivo, che rende possibile la produzione e la riproduzione del dominio.
Cosa significa coscienza? Per fare semplice una questione infinitamente complessa, dirò che coscienza è la funzione di auto-situazionamento di un organismo. Ogni organismo è situazionato: gli uccelli volano in cielo e i pesci nuotano in mare; grazie alla coscienza, gli umani possono modificare il loro situazionamento nel contesto e possono modificare il contesto stesso in funzione dei loro interessi e delle loro intenzioni. La coscienza implica un porsi all’esterno di sé e agire sul sé situazionato.
Le formiche, le api, i ragni svolgono azioni estremamente elaborate, coordinate, in qualche modo intelligenti: ma non sono in grado di modificare le condizioni del loro lavoro, non sono in grado di riflettere e di agire coscientemente.
I lavoratori cognitivi sono posti nella condizione di produrre software, progetti, oggetti, algoritmi, sostanze e relazioni. Il loro comportamento coordinato non è dissimile da quello delle formiche o delle api: la conoscenza (o piuttosto le informazioni funzionali inscritte nel loro cervello collettivo) gli permette di svolgere la funzione che è stata loro assegnata dall’ambiente sociale in cui si trovano, ma la conoscenza non gli permette di cambiare le condizioni stesse in cui si trovano.
Se mi è permesso di saltare molti passaggi logici, direi che la coscienza è la funzione di mutamento del processo cognitivo che si manifesta in condizione di sofferenza. Il disagio, la sofferenza psichica, la non adesione al proprio essere situazionato, la percezione dolorosa del dolore dell’altro, è ciò che spinge gli umani a compiere un passaggio che né le formiche né i ragni sono in grado di compiere: riprogrammare il contesto. Riprogrammare il funzionamento semiotico, psichico economico dei segni prodotti dall’uomo. Riprogrammare il contesto patogeno per non riprodurre all’infinito la sofferenza.
La coscienza etica non è adesione volontaristica a valori universali, come pretendeva il pensiero universalista, illuminista o socialista, ma è un effetto della distonia estetica, del disagio psichico, della sofferenza. Ora dobbiamo chiederci se i lavoratori cognitivi della generazione iperconnessa sono in grado di esprimere coscienza e particolarmente coscienza collettiva. È su questo punto che la nostra ricerca deve concentrarsi.
L’APOCALISSE IN CORSO COSTITUISCE LA CONDIZIONE
 ENTRO LA QUALE PUÒ VERIFICARSI (O PUÒ NON VERIFICARSI)
IL RISVEGLIO DELLA COSCIENZA ETICA DEL LAVORO COGNITIVO
Sappiamo che l’intensificarsi della connessione e l’accelerazione degli stimoli infoneurali sta producendo un aumento strabiliante della sofferenza psichica. Si vedano a questo proposito i dati raccolti negli ultimi decenni da Monitoring the Future (dal 1976 al 2015), dal Youth Risk Behavior Surveillance System (dal 1991) e dal General Social Survey (dal 1972), riportati da Jean M. Twenge nel libro Iperconnessi (Einaudi). Da questi dati emerge con chiarezza un incremento della sofferenza psichica, della propensione al suicidio e alla solitudine. Queste tendenze dovrebbero spingere gli iperconnessi (e quindi in primo luogo coloro che quotidianamente creano e sviluppano l’automa globale produttivo) a cercare un mutamento. Ma purtroppo cresce al tempo stesso un’incompetenza emozionale e relazionale che rende gli iperconnessi incapaci di solidarietà, di empatia e di azione conflittuale. Il conflitto sembra essere intollerabile alla snowflake generation.
In questo scarto tra sofferenza e incompetenza emozionale si gioca probabilmente la possibilità di un processo di autorganizzazione del lavoro cognitivo che renda possibile (o impossibile?) nel prossimo futuro lo smantellamento dell’automa globale capitalista e la sua riprogrammazione secondo linee di sobrietà, egualitarismo e solidarietà.
L’apocalisse in corso costituisce la condizione entro la quale può verificarsi (o può non verificarsi) il risveglio della coscienza etica del lavoro cognitivo. Il trauma che si sta producendo non sconvolgerà soltanto le strutture della vita sociale, le istituzioni politiche ed economiche, ma anche l’equilibrio psicocognitivo. È forse sul piano neuroevolutivo che il prossimo passaggio storico si verificherà.

Il nuovo libro Futurabilità di Franco «Bifo» Berardi uscirà a fine agosto per la collana Not di NERO (not.neroeditions.com)

immagine: Takeshi Murata, Problem Areas