DALL’INTERVISTA DI MAURIZIO LAZZARATO
SU MULTITUDES
\la moltitudine nella storia della
filosofia e l’uso politico contemporaneo
\differenze con il concetto di «classe
operaia»: rottura o continuità?
Vi sono alcune analogie e molte
differenze tra la moltitudine contemporanea e la moltitudine studiata dai
filosofi politici del XVII secolo. All’alba della modernità, la «moltitudine»
coincide con i cittadini delle libere repubbliche comunali, precedenti alla
nascita dei grandi Stati nazionali. Questa moltitudine godeva del «diritto di
resistenza», dello jus resistentiae.
Questo diritto non è quello, banale, della legittima difesa: è qualcosa di più
fine e più complicato. Usare il «diritto di resistenza» è far valere, contro il
potere centrale, le prerogative di una singolarità, di una comunità locale, di
un’associazione di mestieri – è salvaguardare delle forme di vita già pienamente affermate, è proteggere
delle usanze già radicate. Si tratta
dunque di difendere qualcosa di positivo: è una violenza conservatrice (nel senso buono, nobile del termine). È forse lo jus resistentiae, il diritto di
proteggere qualcosa che esiste già e sembra degno di continuare ad esistere,
che più avvicina la moltitudine del
XVII secolo e la moltitudine post-fordista. Anche per questo, non si tratta di
«prendere il potere», di costruire un nuovo Stato, un nuovo monopolio della
decisione politica, ma di difendere delle esperienze plurali, degli embrioni
della sfera pubblica non statica, delle forme di vita innovatrici. Non guerra
civile, ma jus resistentiae. Altro
esempio. Una delle caratteristiche della moltitudine post-fordista è di
provocare il collasso della rappresentazione politica: non come un gesto
anarchico, ma come una ricerca tranquilla e realista di istituzioni politiche
che sfuggono ai miti e ai riti della sovranità. Hobbes ci metteva già in
guardia contro la tendenza della moltitudine a dotarsi di organismi politici
non regolati, che «non sono per natura nient’altro che delle alleanze, e
talvolta un semplice insieme di persone che non sono unite da alcun disegno
particolare, né da un obbligo reciproco» (Leviatano,
capitolo XXII). Ma la democrazia non rappresentativa basata sul General Intellect ha naturalmente tutta
un’altra portata: noi non siamo negli interstizi, ai margini o nel residuo, ma
nell’appropriazione e nella riarticolazione concrete del potere/sapere oggi
congelato negli apparati amministrativi degli Stati.
Veniamo ora alla differenza capitale.
La moltitudine contemporanea porta in sé la storia del capitalismo. Meglio:
essa fa un tutt’un con una classe operaia di cui la materia prima è costituita
dal sapere, dal linguaggio e dagli affetti. Vorrei demistificare, per quanto
posso, un’illusione ottici. Ci dicono: la moltitudine segna la fine della
classe operaia. Ci dicono: nell’universo dei «molteplici», non vi è spazio per
queste tute blu tutte uguali che sono un corpo poco sensibili al caleidoscopio
delle «differenze». Coloro che dicono tali cose si sbagliano, e mancano
d’immaginazione: ogni vent’anni, si annuncia la fine della classe operaia. E
pertanto né in Marx, né in nessuna persona seria, essa è identificata ad
un’organizzazione specifica del lavoro, a un insieme specifico di abitudini, a
una specifica mentalità. La classe operaia è un concetto teorico, non una
foto-ricordo: essa designa il soggetto che produce plusvalore assoluto e
plusvalore relativo. La nozione di «moltitudine» si oppone a quella di
«popolo», non a quella di «classe operaia». Essere moltitudine non le impedisce
assolutamente di produrre del plusvalore. E produrre plusvalore non implica
alcuna necessità d’essere, politicamente, «popolo». Sicuramente, dal momento in
cui la classe operaia non è più un popolo, ma moltitudine, molte cose cambiano:
a cominciare dalle forme dell’organizzazione e del conflitto. Tutto si complica
e diventa paradossale. Come sarebbe più semplice raccontarsi che ormai vi è la
moltitudine, e non più la classe operaia… Ma per vedere la vita in maniera
semplice, basta svuotare una buona bottiglia di vino. E, sia detto di
passaggio, vi sono presso lo stesso Marx dei passaggi in cui la classe operaia
perde tutti i tratti fisiognomici del «popolo» e acquista quelli della
«moltitudine». Per esempio nell’ultimo capitolo del libro I del Capitale («La teoria moderna della
colonizzazione»), in cui Marx descrisse la condizione della classe operaia
negli Stati Uniti. Vi sono, qui, lunghe pagine sull’Ovest americano,
sull’esodo, sull’iniziativa dei «molteplici». Scappati dal loro paese per le
epidemie, le carestie e le crisi economiche, gli operai europei andarono a
cercare lavoro nei grandi centri della costa est degli Stati Uniti. Ma
attenzione: essi vi restano qualche anno, solo
qualche anno. Poi disertano la fabbrica e si spostano verso l’Ovest, verso
le terre libere. Lontano dall’essere una condanna a vita, il lavoro salariato
si presenta come un episodio transitorio. Non saranno neanche vent’anni fa che
i salariati ebbero la possibilità di seminare il disordine nelle leggi di ferro
del mercato del lavoro: abbandonando la loro condizione di partenza,
provocarono una retata relativa di manodopera, e dunque un aumento dei salari.
Quando ha descritto questa situazione, Marx ci offre un ritratto assai vivo di
una classe operaia che è allo stesso modo moltitudine.
Riproponiamo il testo di Paolo Virno,
Multitudes et classe ouvrière. Entretien avec Maurizio Lazzarato, in Multitudes
n.9, maggio 2002
Traduzione per Noteblock di Marco Spagnuolo