L’UMANO COME CIFRA DELL’ACCUMULAZIONE
NEOLIBERALE
\A partire dal libro di Didier Fassin, gli autori mostrano come
dietro la “ragione umanitaria” si nasconda una logica di governance che riduce
i soggetti a mere vittime da proteggere e rappresentare, spogliando gli eventi
di qualsiasi specificità di ordine storico e politico. Ripensare il conflitto
politico nell’epoca del trionfo della “disumanità”, vuol dire al tempo stesso
superare una concezione esclusivamente morale della lotta, mostrando il fondo
coloniale del management “umanitario” delle migrazioni
… i più antirazzisti siete voi: non avete
celebrato la battaglia di Martin Luther King contro la segregazione? I più
anticolonialisti siete voi: non vi siete prosternati davanti al coraggio di
Nelson Mandela? I più sensibili al sottosviluppo dell’Africa siete voi: non
avete versato tonnellate di riso sul continente della miseria? I più implicati
nelle cause umanitarie siete voi: non avete forse cantato per l’Africa? Le più
femministe siete voi: non avete messo gli occhi sulle donne afghane e promesso
di salvarle dalle barbe dei talebani? I più anti-omofobi siete voi: non vi siete
gettati a corpo morto in difesa degli omosessuali del mondo arabo? Come alzarci
al vostro livello? Noi siamo degli gnomi, voi siete dei giganti (Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi,
p. 35)
Pubblicato di recente
da DeriveApprodi, Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo
presente (2010), di Didier Fassin, è un libro importante: una sua
lettura critica può rivelarsi utile per orientarsi in questa singolare
congiuntura politica. A partire da diverse ricerche etnografiche, Fassin ci
propone il suo testo come l’esito di un’altra riflessione di tipo
genealogico-foucaultiano sulle «tecniche e procedure destinate alla guida degli
uomini», e ci invita a scorgere, al di là delle diverse territorializzazioni,
una geografia mondiale del governo dei viventi. Questa nuova
“razionalità di governo”, prodotto della progressiva affermazione nella sfera
pubblica occidentale di una soggettività politica collettiva
fondata sul “dispiegamento di sentimenti morali”, viene letta da Fassin come
parte di uno sviluppo intrinseco alla tradizione filosofica
occidentale – nelle sue due anime principali, cristiana e liberale – il quale
avrebbe cannibalizzato l’articolazione del politico sino a cristallizzarsi in
quello che egli definisce come “governo umanitario”. Un dispositivo che è dunque
abbordato dall’autore come una variante endogena, per così dire, di
ciò che Foucault ha chiamato biopolitica. In questa “genealogia”, la “ragione
umanitaria”, intesa come messa in forma del sociale, viene considerata come una
tecnologia di governo del tutto metamorfica, capace di operare in
contesti sociali piuttosto dissimili e che non si limita affatto a strutturare
le logiche istituzionali di cura e presa in carico della vulnerabilità,
rimanendo così confinata in una alterità rassicurante ma, al
contrario, comprenderebbe anche le motivazioni da cui prende
le mosse gran parte dell’agire politico contemporaneo, tanto di agenzie e
organizzazioni non governative, quanto di diverse forme di attivismo. Ma quali
sono le implicazioni, oggettive e soggettive, di questo che Fassin ci propone
come uno slittamento antropologico nella grammatica contemporanea del politico?
Ed è davvero possibile, come fa l’autore, ridurlo a quella che
definisce come un’economia morale?
l’umanitario tra feticizzazione
dell’ordine politico e riduzione dell’altro a corpo
Come evidenziano le
svariate “emergenze” degli ultimi anni, il discorso umanitario, che fa
dell’appello a una medesima condizione umana la sostanza stessa della politica,
necessita di un doppio corollario: da un lato di-mostrare la
presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario
caritatevole, dall’altro di spostare l’attenzione dalla struttura a
un soggetto, costruito in termini morali, nel quale è possibile riconoscerci perché
garantiti da una presunta unità del genere umano. È attraverso
questa particolare economia dello sguardo, in cui all’analisi delle cause si
sostituisce una cura degli effetti, che si produce quella che potremmo definire
– malgrado lo stesso Fassin – una feticizzazione dell’ordine politico,
considerato come una semplice cornice dell’evento.
La logica
umanitaria, spogliando gli eventi di qualsiasi specificità di ordine
storico-politico, in una ripetizione senza differenze di eventi
drammatici, non fa che riprodurre non solo lo stato d’emergenza
da cui viene legittimata, ma soprattutto le
condizioni strutturali di disuguaglianza entro cui si iscrive
Sta qui l’essenza e la forza
(ideologica) della “ragione umanitaria” come nuovo dispositivo egemonico di
governo: nella sostituzione del vecchio lessico della politica, organizzato
attorno a espressioni come lotta, sfruttamento, dominio, diritti, giustizia,
con una nuova grammatica discorsiva in cui a prendere il sopravvento sono
nozioni di tipo morale come “compassione”, “sofferenza”, “solidarietà”.
Inoltre, come Fassin mostra efficacemente, l’enunciazione umanitaria, al di là
delle buone intenzioni soggettive, presuppone un rapporto sociale di tipo
fondamentalmente gerarchico in cui un soggetto parlante designa in modo del
tutto sovrano la verità e la condizione di un
soggetto subalterno, riducendolo a vita meramente biologica, a mera zoé da
salvare. La sua condizione di possibilità è proprio la riduzione dell’altro a
mera vita biologica. E si sa, nessuno più della vittima,
ha bisogno di rappresentanza e rappresentazione. In questa “sociodicea”
occidentale il dono della salvezza è un dono senza possibilità di controdono,
se non, per utilizzare la celebre formula di W. E. B. DuBois, sotto forma di
una sorta di salario psicologico che si compiace e
si specchia nel suo stesso altruismo. Il privilegio della coscienza e della
morale spetta solo agli unici soggetti del
dramma: agli altri non resta che la speranza in un riconoscimento del Signore.
C’è dunque una morale
perversa e coloniale all’opera nell’apparato umanitario, a ogni suo livello:
esso non fa che cancellare costantemente “il volto dell’altro”, per riprendere
l’espressione di Lévinas suggerita dallo stesso Fassin, poiché si nutre proprio
dell’espropriazione della sua specificità storico-biografica. Ciò avviene, ad
esempio, ogniqualvolta che, dinanzi alle rivolte e ai sabotaggi che
ciclicamente interpellano l’intero circuito dell’accoglienza
(a Cona come ad Aversa), il dibattito pubblico diluisce le lotte delle
soggettività politiche subalterne nella grammatica melliflua e miserabilista
del sofferente che richiede (aiuto, intervento, voce),
rendendole d’altronde disposables a qualsiasi tipo di
utilizzo: economico, ma anche politico. Spingendo il ragionamento
di Fassin agli estremi, si potrebbe dire che sta qui buona parte della colonialità dello
stesso termine (e dell’intero sistema d’“accoglienza” europeo).
l’umanitarismo come economia politica
morale
Nonostante Fassin
colga bene il punto nella descrizione di queste dinamiche, lo stesso non
possiamo dire per quello che riguarda il loro concatenamento su un piano
teorico. Reinterpretando il concetto di E. P. Thompson di “economia morale”, la
ragione umanitaria è ridotta a una mera concrezione di particolari norme e
valori, la cui unica ragion d’essere è quella di non averne
alcuna. Ben attento a non proporre la propria analisi come una critica politica
del potere, l’autore prende qui le distanze da Foucault per ripresentarsi sotto
la veste dell’antropologo “imparziale” interessato solo alla descrizione
(scientifica) di una certa “forma di vita”, rimuovendo così dal suo
ragionamento qualsiasi collegamento con le trasformazioni economiche degli
ultimi decenni. Tuttavia, se è chiaro che ci troviamo permeati da un ordine del
discorso politico dominato dall’empatia e dai sentimenti morali, è ormai
altrettanto chiaro, a nostro avviso, come, per quanto riguarda le migrazioni,
“il governo umanitario” sia indissociabile dalla mercificazione progressiva del
sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione
economica e di messa al lavoro di quegli stessi soggetti descritti attraverso
la figura dei/delle “bisognos* d’aiuto”.
Descrivere i
dispositivi di governo umanitario senza metterne in evidenza né gli aspetti di
rendita e di profitto, né la loro centralità nella produzione “istituzionale”
di una forza lavoro precarizzata e semi-servile, equivale a de-politicizzare
quella stessa critica alla de-politicizzazione che è la tesi forte dell’autore.
Siamo qui posti di fronte a delle forme di accumulazione per
spossessamento che agiscono attraverso l’espropriazione della stessa
soggettività dei soggetti: un’economia politica morale,
piuttosto che un’economia morale. D’altronde, questa stessa neutralizzazione
della portata politica ed economica del dispositivo di governo umanitario
permette a Fassin di pensarlo in contrapposizione a una non meglio definita
ragion di Stato repressiva e securitaria. Difatti, sebbene la permeabilità tra
le due razionalità sia ben esemplificata nel suo lavoro etnografico sul centro
di Sangatte, la loro interdipendenza è ridotta ai termini di una dialettica o
tensione costante, riproponendo l’idea di un umanitario che, pur nelle sue
contraddizioni, rappresenta comunque qualcosa di effettivamente resistente ai
processi di securitizzazione: sarebbe soltanto la selettività della “ragion di
stato” a corrompere la presunta nobiltà politica dell’umanitarismo dal basso.
Diciamolo chiaramente:
la critica di Fassin è tutta interna allo stesso discorso
umanitario; la sua prospettiva finisce per rivalorizzare l’umanitarismo in
quanto necessario contrappunto etico al dispiegamento di un
potere finalizzato alla produzione di vite di scarto. Un approccio che ben si
salda con l’assenza di qualsiasi riflessione sulla colonialità dello stesso
concetto di “umano” dominante nella tradizione filosofica e politica
euro-occidentale, ovvero sui suoi limiti razziali. Ma soprattutto
con un certo “ethos globale” ONG.
amnesie (foucaultiane) bianche
È davvero possibile
pensare al riconoscimento di un’umanità condivisa al di là delle strutture
economiche e sociali, su cui si basa la ragione umanitaria come forma di
governo, come a un movimento tutto interno alla governamentalità? Ci sembra
che, ancora una volta, Fassin compia lo stesso gesto che sottopone a critica.
Difatti, delineando una storia in cui l’unica soggettività è attribuita
all’Occidente, gli “altri” sono ancora una volta ridotti alla figura
della vittima, della pura oggettualità a cui viene generosamente
concesso di entrare a far parte dei confini dell’umano. Nell’impianto di Fassin
non c’è spazio alcuno per quanto mostrava, ad esempio, un testo come I
giacobini neri di C.L.R James, ovvero al presupposto secondo cui sono
state proprio le rivolte razziali, le insorgenze antischiaviste e
anticoloniali a rovesciare e lavorare nelle crepe del lessico dei diritti
dell’uomo. Le omissioni di Fassin – del tutto in linea con la tradizione
autoreferenziale del repubblicanesimo francese – si mostrano qui
nella loro qualità di sintomo di una rimozione costitutiva
della narrazione biancadella storia. A partire da queste
considerazioni, appare ancor più indicativo come la genealogia del vocabolario
filosofico morale che l’autore ricostruisce sia completamente avulsa da
qualsiasi contestualizzazione storica, in particolar modo dalle dispute
coloniali, tra negazione dell’umanità e suo riconoscimento differenziale. Come
altro concepire la scelta di relegare in una nota di passaggio la rilettura
césairiana de La Tempesta di W. Shakespeare, in cui Calibano,
di fronte al “Ti compatisco” di Prospero, risponde con un “E io ti odio”? Non
sarebbe forse bastato seguire questa traccia per rendersi
conto di quanto la postura umanitaria sia debitrice di un rapporto sociale che
vede nella colonia il suo laboratorio per eccellenza? Non sarebbe stato forse
più proficuo ripercorrerne la storia all’inverso?
l’umano come cifra dell’accumulazione
neoliberale globale
A ogni modo, Ragione
umanitaria resta un testo importante per riflettere criticamente sui
modi in cui, da sinistra, ci si sta posizionando nell’attuale congiuntura
politica. Senza sminuire l’importanza della lotta per cercare di salvare vite
umane, a noi pare che un posizionamento in qualche modo acritico dalla
parte dell’umanitario finisca per non rivelarsi all’altezza
della sfida e sia soprattutto politicamente poco produttivo.
Il lessico
“banalmente” umanista, che non chiede altro che ospitalità e accoglienza, si traduce in una politica
in cui il rapporto alla subalternità è difficilmente distinguibile non solo da quello del
missionario, ma anche dello stesso management razzista delle migrazioni messo a
punto dalla UE e dai diversi governi nazionali negli ultimi vent’anni
Si tratta di un regime
di controllo che è venuto sempre di più a fondarsi sulla fusione di securitarismo e umanitarismo come
parte, non solo di un’unica “economia politica morale di gestione”, bensì di
una tecnologia razzista più generale di produzione di territori e popolazioni.
L’umanitarismo e l’attuale sistema di accoglienza si iscrivono all’interno di
un “razzismo istituzionale” che va ben oltre il salvataggio in mare e che si
estende purtroppo anche al tanto decantato sistema SPRAR: è quanto mostra
chiaramente, per esempio, il recente assassinio razzista di Soumalya Sacko,
avvenuto in una condizione di segregazione istituzionalizzata.
A tal proposito, ci
sembra importante far stridere lo stesso pensiero di Fassin di
fronte al momento attuale, riprendendo un suo riferimento alle riflessioni
sull’ospitalità di Derrida e, tuttavia, portandole fino in fondo. Il linguaggio
dell’ospitalità, infatti, è indissociabile, nelle sue stesse condizioni di
possibilità, dalla violenza securitaria dello Stato, così come dalla logica
estrattiva di accumulazione del capitalismo neoliberale: per essere ospitali è
necessario costruire una casa abitabile, e non c’è casa “senza porte e
finestre”, potremmo dire senza filtraggio. Per essere ospitali
è necessario costituirsi come Ipse, Medesimo, “essere se
stessi presso se stessi”, e l’ospite, per essere tale, deve essere e deve
rimanere confinato nella sua condizione di straniero, di indesiderabile, di
soggetto razzializzato.
Come evidenziato da D.
Ferreira Da Silva altrove[1],
dobbiamo tenere presente che ciò che sostiene la logica estrattiva dell’attuale
assemblaggio di potere è una figura razzializzata dell’essere
umano; una categoria che sta giocando oggi per il capitale globale lo stesso
ruolo etico che ha avuto il discorso della nazione nel
capitalismo industriale-imperiale del XX secolo.
Riaprire i porti,
certo, ma
ponendo apertamente il conflitto anche sull’attuale
“sistema d’accoglienza” e la sua “cura”
umanitaria
Non si tratta di riprodurre il delirio
manicheo epidermico su cui si fonda la valorizzazione capitalistica sin dalla
sua nascita, ma di smontare un sistema che in nome dell’umano trasuda razzismo
da ogni sua espressione. È da qui che deve partire ogni tentativo di
ricomposizione politica. Un nuovo e reale universalismo è
possibile: a patto di proseguire la lotta anticoloniale per la decolonizzazione dell’umano.
Più politica, dunque, e meno morale (autoassolutoria): come mostrano Macerata,
Firenze, San Ferdinando e Minniti-Salvini, è finito il tempo dell’innocenza (bianca)
occidentale.
[1] The Refugee Crisis and the
current predicament of the Liberal State (2017)
articolo apparso oltre che su Dinamopress
anche sul sito decoknow